ISSN 2039-1676


04 maggio 2012 |

Le Sezioni unite sull'applicazione retroattiva della disciplina più favorevole in materia di prescrizione

Cass., Sez. un., 24.11.2011 (dep. 24.4.2012), n. 15933, Pres. Lupo, Rel. Ippolito, ric. P.G. in proc. R. (l'intervenuta pronuncia alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 della sentenza di primo grado, sia di condanna, sia di assoluzione, determina la pendenza in grado d'appello del procedimento, ostativa all'applicazione dei termini di prescrizione, se più brevi, previsti dall'art. 6 della stessa legge n. 251)

1. A cinque mesi esatti dalla pronuncia viene depositata la motivazione della decisione delle Sezioni unite penali che si occupa di una questione residuata a una loro precedente sentenza (29 ottobre 2009 n. 47008, in Dir. pen. proc., 2010, p. 695, con nota di Beltrani, Prescrizione: retroattività della lex mitior e pendenza del processo in grado di appello): quella di individuare il momento in cui il processo passa dal primo grado a quello di appello allorché la sentenza del primo giudice non sia stata di condanna, ma di assoluzione.

Tale momento rileva ai fini della scelta della disciplina applicabile, in tema di prescrizione, tra quella anteriore all'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 e quella posteriore, alla luce di quanto dispone l'art. 10 di essa, come risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua contenuta nella sentenza 23 novembre 2006 n. 393 della Corte costituzionale («Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione»).

Nel caso di specie, l'imputato, al quale era stata contestata calunnia a norma dell'art. 368, comma primo, c.p., commessa il 20 novembre 2000, era stato prosciolto in primo grado il 14 aprile 2002. Impugnata la sentenza dal P.M. nel vigore degli artt. 157 e 160 c.p. ante legge n. 251 del 2005, il giudice d'appello, riformando la prima decisione dopo l'entrata in vigore di quella legge, con sentenza del 1° aprile 2010 aveva dichiarato il reato prescritto, in ossequio a uno degli indirizzi interpretativi affermatisi nella giurisprudenza di legittimità, che le Sezioni unite, con la sentenza in epigrafe, hanno ripudiato, a composizione del contrasto.

Com'è noto, il corno del dilemma è rappresentato dall'individuazione di quando può dirsi che il processo penda in appello. E la citata sentenza n. 47008 del 2009 delle Sezioni unite penali aveva stabilito che, ai fini dell'operatività della più favorevole disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza in appello del procedimento, la quale è di ostacolo all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli.

È anche noto che più volte si è tentato di abbattere questo spartiacque legislativo con incidenti di costituzionalità, ma senza risultato, avendo la Corte costituzionale respinto tutte le censure proposte in tal senso (sentenze n. 72 del 2008 e 236 del 2011 e ordinanza n. 314 del 2011), anche sotto il profilo, qui nuovamente evocato dalla difesa, della violazione dell'art. 117, comma primo, Cost., in relazione all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Restava, dunque, da dimostrare che, ai fini dell'individuazione di questo spartiacque, fosse indifferente l'esito della conclusione del giudizio di primo grado e che il dictum della precedente sentenza delle Sezioni unite resistesse anche in caso di assoluzione dell'imputato in primo grado: impresa ostacolata dal rilievo, fatto proprio da alcune pronunce delle sezioni semplici della Corte di cassazione, secondo le quali, poiché la sentenza di assoluzione non è compresa tra gli atti idonei a interrompere il corso della prescrizione, il momento al quale fare riferimento per l'applicazione della (eventualmente) più favorevole disciplina della prescrizione prevista dalla legge n. 251 del 2005, in caso appunto di assoluzione, coincide con il primo atto, tra quelli successivi del procedimento, cui la legge riconosca l'effetto di interrompere la prescrizione, e cioè il decreto di citazione per il giudizio di appello (così Cass. pen., sez. VI, 25 novembre 2008 n. 7112/2009, in Cass. pen., 2009, p. 3786, con commento di Mazzotta, Una nuova pronuncia sulla nozione di "pendenza in grado di appello" nella disciplina transitoria della c.d. ex Cirelli; sez. II, 27 gennaio 2011 n. 8455, in C.e.d. Cass., n. 249953; nel senso che si debba, invece, fare riferimento al momento di ricezione del fascicolo da parte della Corte d'appello e, più precisamente, all'atto di iscrizione nell'apposito registro, sez. III, 15 aprile 2008 n. 24330, ivi, n. 240342).

Per superare l'ostacolo, e individuare così anche nella sentenza di assoluzione dell'imputato emessa in primo grado il momento a partire dal quale il giudizio può dirsi pendente in appello ai fini della legge n. 251 del 2005, le Sezioni unite si riportano agli argomenti già spesi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006 e poi riprodotti nell'indirizzo interpretativo prevalente nella giurisprudenza di legittimità, pervenendo all'affermazione che l'attuale testo dell'art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005 non consente un'interpretazione a "geometria variabile", anche perché la citata sentenza costituzionale non autorizza l'attribuzione all'identico enunciato linguistico del testo legislativo di un significato diversificato, secondo che l'esito del giudizio di primo grado sia di condanna o di assoluzione, né impone che l'elemento differenziale per l'applicazione delle vecchie o delle nuove norme sia identificato in alcuno dei fatti processuali elencati nell'art. 160 c.p. e idonei a interrompere il corso della prescrizione.

Ragioni logiche ed esigenze sistematiche, infatti, esigono di assegnare un significato univoco e unitario alla disposizione e alla nozione di "pendenza in appello", quale che sia l'esito del giudizio di primo grado; mentre la frammentazione interpretativa di quella nozione determinerebbe incertezze e rischi di ingiustificata disparità rispetto alla disciplina stabilita dall'art. 161 c.p. per i processi cumulativi.

In più, far coincidere, in alternativa, l'inizio della "pendenza in appello" del procedimento con attività di data aleatoria, perché nella disponibilità delle parti o di uffici che possono essere più o meno solleciti, condurrebbe a conseguenze palesemente irrazionali e/o a disparità di casi identici. Linea di pensiero non nuova e già seguita da Sez. un., 29 marzo 2007, n. 27614, in Cass. pen., 2007, p. 4451, sul regime di impugnabilità della sentenza, allorché si succedano nel tempo, in assenza di disposizioni transitorie, discipline diverse.

 

2. Ineccepibile il percorso argomentativo delle Sezioni unite. Non solo perché il sentiero era già segnato da pronunce della Corte costituzionale non equivoche; ma anche perché alternative di qualunque tipo avrebbero offerto il fianco a più di un'obiezione (per altri rilievi, oltre quelli di ordine generale esposti in sentenza, si veda Mazzotta, op. cit., p. 3795).

Però, dato atto della correttezza dell'esito del giudizio, qualche domanda, sollecitata dal caso di specie, ma interessante su un piano generale, pare inevitabile.

Se, per effetto di una, piuttosto che di un'altra, opzione interpretativa, a distanza di dodici anni dalla data di commissione di un reato di non rilevante gravità, accade che l'autore si ritrovi esposto a subire un processo penale per la circostanza, meramente occasionale, dello stadio al quale era pervenuto il "suo" processo e dopo essere stato assolto in un grado e aver sentito dichiarare la prescrizione del reato in quello successivo, sembrano evidenti i danni che un evento simile è in grado di creare all'immagine della giustizia e al principio di eguaglianza, come, del resto, avviene in tutti i casi nei quali l'incertezza delle soluzioni è addebitabile a difformi interpretazioni di una norma.

Non solo. Si scopre anche, in modo altrettanto certo, quanto davvero il testo legislativo sia incoerente al fine dichiarato da chi ebbe a concepire un intervento così traumatico sul sistema penale come la legge n. 251 del 2005 e quanto, invece, sotto veste di realizzazione della ragionevole durata del processo, si nasconda un neanche troppo occulto obiettivo di legge ad personam (per incidens, contrasta con quel fine la dilatazione dei tempi processuali per i delitti puniti con pene massime dell'ordine di venti anni di reclusione o più).

Non si dispone di dati numerici sulle prescrizioni dichiarate in primo grado per effetto di questa legge. Ma si ha l'impressione che non si sarebbe molto lontani dalla verità se, soprattutto per certe categorie di reati, si ritenesse che l'irrompere improvviso del novum, a strategie processuali già elaborate, abbia prodotto effetti simili a quelli di una microamnistia. Con la conseguenza, connessa e ulteriore, delle disparità di trattamento tra persone accusate del medesimo reato e giudicate in luoghi diversi, ascrivibili alla maggiore o minore sollecitudine degli uffici giudiziari nel definire i processi in primo grado.

Corretta appare anche la ritenuta manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dalla difesa: lo imponevano tutti i precedenti, sia della Corte costituzionale, sia della Corte EDU.

Poiché, infatti, secondo quest'ultima, unica interprete qualificata della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, l'art. 7 della stessa Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale e include anche il corollario del diritto dell'accusato al trattamento più lieve, si riferisce alla fattispecie incriminatrice e alla pena, non anche alla disciplina della prescrizione, è stato facile alle Sezioni unite respingere la richiesta di rimessione degli atti alla Corte costituzionale ex art. 117, comma primo, Cost.; difatti, se è indubbio che la disciplina della prescrizione sia riconducibile alla nozione di legge penale (il che, ovviamente, rileva, ai fini dell'applicazione dell'art. 2 c.p.), è altrettanto certo che essa è estranea alla formula dell'art. 7 della Convenzione, secondo il quale "nessuno può essere condannato per una azione o omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato". L'identico argomento che, insieme ad altri, ha spinto anche la Corte costituzionale, con la già citata sentenza n. 236 del 2011 (pubblicata in questa Rivista con nota di F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge più favorevole), a respingere l'ennesimo attacco alla disciplina transitoria fissata nel testo vigente dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005: la Consulta, che sul piano generale ha messo in luce la possibilità di limiti ragionevoli alla stessa regola di applicazione retroattiva della lex mitior, ha comunque ribadito che, nella Convenzione europea e nella giurisprudenza di Strasburgo, il principio riguarda le sole norme di identificazione del fatto punibile e di determinazione del relativo trattamento sanzionatorio.

 

3. Proprio con riferimento a questa interpretazione del giudice sopranazionale e del giudice costituzionale, la sentenza in commento, contrariamente alle apparenze, risulta  in sintonia, mutatis mutandis, con la decisione assunta dalle stesse Sezioni unite, sempre in tema di retroattività della lex mitior, appena cinque giorni prima del suo deposito.

Altra, e ben più impegnativa questione: quella della possibilità, per il giudice dell'esecuzione, di sostituire alla pena dell'ergastolo quella di trenta anni di reclusione ai condannati in rito abbreviato con sentenza irrevocabile, versanti nella stessa condizione di Franco Scoppola (vittorioso attore a Strasburgo il 17 settembre 2009 contro il Governo italiano), ma senza avere mai adito la Corte europea dei diritti dell'uomo.

Com'è noto, i supremi giudici hanno deliberato di rimettere gli atti alla Corte costituzionale (si veda, in questa Rivista, la relativa informazione), impugnando gli artt. 7 e 8 del d.l. n. 341 del 2000 convertito nella legge n. 4 del 2001.

Apparenti affinità tra le due questioni.

Nella prima veniva in rilievo un istituto che, come sottolineato dalla sentenza, non può essere assimilato, specie in punto di garanzie convenzionali relative alla retroattività della lex mitior, a quello della legge punitiva più favorevole; tant'è vero che proprio la previsione di termini di prescrizione particolarmente brevi può determinare, in alcuni casi, la violazione dei principi della Convenzione europea.

Nella seconda, invece, si trattava di dare esecuzione a una pronuncia della Corte di Strasburgo la quale, al di là del caso deciso, aveva affermato il principio che il diritto del condannato a vedersi applicata la norma punitiva più favorevole rientra tra quelli fondamentali della Convenzione. Ed erano in discussione le modalità con cui concretamente dare ingresso a quel diritto in executivis e la cui individuazione, come accennato, è stata affidata dalle Sezioni unite alla Consulta.

Sulla relativa decisione, finché non saranno note le motivazioni dell'ordinanza di rimessione, è d'obbligo il silenzio.

Ma già sin d'ora si può prevedere ragionevolmente che alla Corte costituzionale sarà affidato il gravoso compito di ulteriori e significative precisazioni su uno dei temi cruciali del nostro diritto penale, alla luce degli obblighi di diritto internazionale che lo Stato italiano ha assunto e degli indefettibili principi stabiliti dalla Carta costituzionale.

Non mancherà, quindi, l'occasione per ritornare sull'argomento.