ISSN 2039-1676


29 gennaio 2013 |

In tema di diffamazione via Facebook

Tribunale di Livorno, 2.10.2012 (dep. 31.12.2012), n. 38912, G.i.p. Pirato

1. Il caso. - Il fatto alla base della sentenza emessa dal gip del tribunale di Livorno è semplice: una ex dipendente di un centro di bellezza scriveva sul proprio profilo facebook: «vi consiglio vivamente di non andare x chi lo conosce al Centro [...] perché fa onco ai bai, sono persone che non lavorano seriamente» e, inoltre, «sono dei pezzi di merda, è quello che si meritano...» e, se così si può dire, ancor più precisamente, prendendosela con il titolare «sei proprio una albanese di merda».

Il giudice, con una sentenza sintetica, affronta le varie questioni che la vicenda gli poneva davanti. In sintesi, il gup rileva nell'episodio gli elementi della diffamazione con l'aggravante della diffusione con un qualunque mezzo di pubblicità, punita dall'art. 595 comma 3 c.p.

Prima di entrare nel merito, bisogna dire che il processo si celebra con il rito abbreviato, come richiesto dall'imputata. Resta curioso che ciò accada davanti al giudice dell'udienza preliminare, all'esito della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal PM, tenuto conto che per il reato di diffamazione aggravata ex art. 595 comma 3, in assenza di riti alternativi, il PM dovrebbe esercitare l'azione penale con il decreto di citazione diretta a giudizio e non con la richiesta di rinvio a giudizio.

Detto questo dal punto di vista meramente processuale, in ordine alla sussistenza del reato il giudice prende a effettuare una sorta di prova di resistenza per ognuno dei requisiti che debbono tutti quanti sussistere affinché possa essere pronunciata sentenza di condanna.

 

2. Il problema della prova. - Come spesso accade in fattispecie del genere, uno dei problemi principali è proprio la riconducibilità all'imputato del messaggio oggetto di doglianza. In rete, infatti, pullulano da un lato le affermazioni anonime, dall'altro identità false o "rubate". E infatti spesso, come in questo caso, la prima difesa è quella di rilevare l'assenza di prova circa la paternità della dichiarazione "sotto processo" alla persona cui è apparentemente attribuibile o comunque a cui è stata attribuita dal PM.

Il giudice risolve questa obiezione rilevando come all'interno del profilo che contiene le espressioni in questione vi sia anche una serie di altri commenti - alcuni riportati nella motivazione, altri solo menzionati - che fanno ritenere come effettivamente l'autore del post incriminato fosse proprio la ex dipendente del centro a cui era intestata la pagina facebook.

Come detto quella affrontata dal gup è una delle "classiche" questioni che si propongono in casi del genere. Va ricordato, tuttavia, che spesso non si tratta di difficoltà insormontabili. Oltre ad utilizzare la logica e lo spirito di osservazione, come ha fatto il tribunale di Livorno, va sottolineato che ormai, se gli inquirenti hanno davvero intenzione di portare avanti le indagini, vi sono strumenti che lo consentono.

Non è questa la sede per approfondire la materia, ma comunque non bisogna essere redattori di Wired per sapere che la tecnologia ha fatto passi da gigante anche nel consentire la ripresa "a ritroso" di quanto viene introdotto in rete. La stragrande maggioranza delle tracce lasciate sul web, tranne forse quelle prodotte da hacker di notevole esperienza, possono essere abbastanza agevolmente ricostruite, fino ad attribuire, ad esempio, l'introduzione di un contenuto ad un numero IP che identifica uno e un solo computer.

 

3. La comunicazione con più persone. - Elemento indispensabile per la sussistenza del reato di diffamazione, come noto, è la comunicazione con più persone in assenza dell'offeso. Il gup affronta anche questo punto in un passaggio della motivazione nell'ambito del quale spiega, pur con poche parole, il funzionamento del più popolare dei social network. L'inserimento della frase nel profilo personale dell'imputata consentiva a tutti i suoi "amici" (ovvero le persone da lei "autorizzate" a visionarne i contenuti) di leggerla e in questo modo si verificava quindi quella diffusione che costituisce uno dei presupposti per la commissione del reato. Inoltre, mediante il meccanismo del tagging (una sorta di citazione), la diffusione poteva espandersi in modo del tutto incontrollabile.

Una simile condivisibile impostazione ha trovato, però, tra i pochi precedenti in materia, voci concordanti e una discordante. Nello stesso senso troviamo il Tribunale di Monza, sez. IV, 2 marzo 2010, n. 770 (in Riv. inf. informatica, 2010, 467 e ss.); il Tribunale di Teramo, 16 gennaio 2012 (in Dejure); Tribunale di Aosta, 15 maggio 2012 (in Pluris), mentre contra il solo Tribunale di Gela, 23 novembre 2011, n. 550 (in Riv. pen., 2012, p. 441), secondo cui «con riferimento a post diffamatori pubblicati su pagine personali di facebook, alle quali, per accedere, è necessario il consenso del titolare delle pagine medesime, si deve ritenere la comunicazione non potenzialmente diffusiva e pubblica, in quanto, attraverso facebook (e social network analoghi) si attua una conversazione virtuale privata con destinatari selezionati i quali hanno chiesto previamente al presunto offensore di poter accedere ai contenuti delle pagine dallo stesso gestite».

Nonostante quest'ultimo parere dissonante, sembra davvero ormai un dato acquisito che la rete internet, e i social network che per mezzo di essa diffondono i loro contenuti, siano un «qualunque mezzo di diffusione» e possano dunque integrare il requisito previsto dall'aggravante di cui all'art. 595 comma 3 c.p.

 

4. La sussistenza dell'offesa. - Uno dei temi affrontati dalla sentenza riguarda la concreta lesione della reputazione. Sul punto il giudice non spende molte parole, sennonché dalla motivazione sembra evidente che sia stata riconosciuta un'offesa sia sul piano personale, sia su quello professionale. Le affermazioni postate, alcune in sapido vernacolo (che il giudice si sente in dovere di tradurre in nota...), costituiscono vere e proprie contumelie, che hanno come bersaglio non soltanto l'attività economica di cui la parte civile è titolare, ma anche la sua personalità.

Anzi, se la censura rivolta al centro poteva forse essere espressione di un diritto di critica, per quanto formulato in modo estremamente colorito e assai scarsamente motivato, il biasimo verso la persona prendeva la forma del vero e proprio insulto, come dimostrava la parola volgare che l'accompagnava. Un insulto, per di più, che aumentava la propria gravità per il riferimento alla etnia della persona offesa che suonava di ispirazione evidentemente discriminatoria.

 

5. L'entità del risarcimento. - Siamo dunque in presenza di una condotta non proprio lieve nel suo genere. E infatti la pena irrogata non è bagatellare: mille euro di multa, avendo riguardo alla tariffa penale dell'art. 595 c.p., anche aggravato dalla fattispecie di cui al comma 3, rappresentano ben più che il "minimo della pena".

Tuttavia, se si ha riguardo al risarcimento concesso, quest'ultimo non è certo estremamente elevato. Anche questo aspetto della sentenza pare frutto di un'equa valutazione. La motivazione non si sofferma sul punto ma, cercando una chiave di interpretazione dei dati contenuti nel dispositivo, sembra che il giudice abbia correttamente interpretato i tratti della fattispecie. Benché il fatto non sia dei più lievi, per le ragion evidenziate, probabilmente il tribunale, nel quantificare il risarcimento, ha tenuto conto del fatto che le affermazioni diffuse su facebook, pur potendo avere in astratto una diffusione amplissima e ingovernabile, nel caso in esame non l'abbiano avuta. Anzi, la propalazione dell'offesa è stata assai limitata ai pochi "amici" della persona in questione.

Insomma, il tribunale fa capire, come diceva un regista romano anni fa, che «le parole sono importanti» e dunque anche di quelle scritte sul profilo di un social network (a volte con la stessa leggerezza con cui le si direbbe ad un amico) l'autore può essere chiamato a pagare le conseguenze. E se, per espressioni come «trend negativo» le sanzioni sono sociali, per quelle più nostrane e triviali utilizzate dall'imputata, come ammoniva l'assicuratore dott. Randazzo, «si va nel penale». E una volta giunti, può capitare un giudice che, evitando i luoghi comuni sulla rete, sottoscrive una sentenza di cui non solo è condivisibile la condanna, ma sembra anche ragionevole il quantum di pena e il risarcimento stabiliti.