ISSN 2039-1676


14 marzo 2013 |

Alle Sezioni unite la questione se violi il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che escluda un'aggravante e tuttavia confermi la pena inflitta in primo grado

Cass. pen., Sez. VI, 24.1.2013 (dep. 21.2.2013), n. 8704, Pres. Serpico, Rel. Conti, ric. Papola

1. È stata fissata per l'udienza del 18 aprile 2013 la discussione di un ricorso nel quale si è posta la questione - che ne ha giustificato la rimessione ex art. 618 c.p.p. alle Sezioni unite - se ricorra un caso di violazione del divieto di reformatio in peius nella decisione del giudice di appello che, impugnante il solo imputato, dopo aver escluso una circostanza aggravante, ribadisca il giudizio di equivalenza tra le residue circostanze, confermando la pena irrogata in primo grado.

Nel caso di specie, dopo una condanna, all'esito di giudizio abbreviato, di un imputato di traffico di stupefacenti aggravato dalla recidiva e dall'ingente quantità, la Corte d'appello, accolto un motivo di impugnazione ed esclusa, per l'effetto, l'aggravante dell'ingente quantità, aveva tenuto fermo sia il giudizio di equivalenza tra le generiche e la recidiva, sia la pena inflitta dal primo giudice.

Proposto ricorso dall'imputato per la ritenuta violazione dell'art. 597, comma 4, c.p.p., in quanto il divieto di reformatio in peius avrebbe dovuto comportare la modificazione del giudizio di comparazione delle circostanze (da quello di equivalenza a quello di prevalenza) e la conseguente riduzione della pena complessiva, la sesta sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto di rimettere la questione alle Sezioni unite a causa della persistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto.

 

2. In effetti, oltre due anni fa, l'Ufficio del massimario penale aveva avuto modo di segnalare il perdurare di difformi soluzioni interpretative che la giurisprudenza continuava a rendere, pur dopo due interventi delle Sezioni unite penali, sul significato e sulle conseguenze pratiche dell'art. 597, comma 4, c.p.p., come puntualmente ricorda il provvedimento qui illustrato.

La questione sulla quale la Corte è ora chiamata a dirimere il rinnovato contrasto è tra le più tormentate, a quanto risulta, sotto il vigore del nuovo codice, il quale ha parzialmente innovato la disciplina contenuta nell'art. 515 del codice Rocco proprio al fine di prevenire, come si legge nella Relazione preliminare, la possibilità di eludere, per via giurisprudenziale, il divieto di trattamenti peggiorativi della posizione dell'imputato unico appellante, disponendo, al comma 4 citato, che "in ogni caso, se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita".

Pur a fronte di questa chiara e inequivocabile formulazione, la giurisprudenza, fin dalle prime applicazioni della norma, ha sostanzialmente oscillato tra due opposte interpretazioni, l'una fedele alla ratio del codice, l'altra legata in modo tralatizio ad interpretazioni fiorite nel vigore dell'abrogata disposizione del codice Rocco.

Si è fatto cenno ai due interventi sul tema delle Sezioni unite.

Queste ultime, già nel 1995 (Sez. un., 12 maggio 1995 n. 5978, in Cass. pen., 1995, p. 3329),  avevano chiarito che «nei casi previsti dall'art. 597, comma 4, c.p.p. (accoglimento dell'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti), il giudice, oltre che essere vincolato dal generale divieto della reformatio in peius posto dal comma 3 del medesimo articolo, ha "in ogni caso" il dovere di diminuire la pena complessivamente irrogata in misura corrispondente all'accoglimento dell'impugnazione, e ciò anche quando, oltre all'imputato, sia appellante il pubblico ministero, il cui gravame può avere effetti di aumento sugli elementi della pena ai quali si riferisce, ma non impedire le diminuzioni corrispondenti all'accoglimento dei motivi dell'imputato» (il caso di specie riguardava l'assoluzione di un imputato da reati legati tra loro dal vincolo della continuazione e la contestuale mancata diminuzione della pena inflittagli in primo grado).

Dieci anni più tardi, in un caso diverso, e sovrapponibile a quello attuale, le Sezioni unite (Sez. un., 27 settembre 2005 n. 40910, ivi, 2006, p. 408) ribadirono che «nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante e per l'effetto irroga una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza, non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado».

Il reiterato intervento del massimo organo di giurisdizione sottintendeva il persistere di una vischiosità interpretativa riconducibile a un dettato legislativo non più in vigore e all'interpretazione che della portata e dei limiti del divieto era stata data nel vigore del codice Rocco.

Peraltro, si deve dare atto che anche con riferimento alle relative disposizioni la giurisprudenza non si era mostrata incline ad avallare principi illiberali, se con Sez. un., 24 novembre 1984, n. 1474/1985, in C.e.d. Cass., n. 167852, aveva ritenuto che «nel caso di appello proposto dal solo imputato il giudice non ha facoltà di pronunciare di propria iniziativa, in pregiudizio dell'appellante medesimo, la revoca della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario, concesse dal primo giudice in applicazione degli artt. 163, 164 e 175 c.p., in quanto la concessione di tali benefici comporta in ogni caso una valutazione di merito sulla sussistenza delle condizioni che la legittimano, in difetto di gravame del pubblico ministero sottratta al sindacato del giudice di secondo grado».

Principio, quest'ultimo, parzialmente corretto da Sez. un., 8 aprile 1998 n. 7551, Cerroni, in Arch. n. proc. pen., 1998, p. 384, secondo il cui dictum, poiché il provvedimento di revoca della sospensione condizionale della pena previsto dall'art. 168, comma primo, c.p. ha natura dichiarativa, gli effetti di diritto sostanziale risalgono de iure al momento in cui si è verificata la condizione, anche prima della pronuncia giudiziale, e indipendentemente da essa: sicché il provvedimento di revoca non è che un atto ricognitivo della caducazione del beneficio già avvenuta ope legis al momento del passaggio in giudicato della sentenza attinente al secondo reato. Con la conseguenza che il giudice di appello - svolgendo un'attività puramente ricognitiva e non discrezionale o valutativa e senza, pertanto, contravvenire al divieto di reformatio in peius - ha il potere, anche se l'impugnazione sia stata proposta dal solo imputato, di revocare la sospensione condizionale concessa con altra sentenza irrevocabile in altro giudizio, negli stessi termini in cui tale potere è attribuito al giudice dell'esecuzione. Al contrario, nell'ipotesi prevista dal secondo comma dello stesso art. 168 c.p., il provvedimento di revoca non è dichiarativo, ma costitutivo, e implica una valutazione che resta preclusa al giudice di appello, così come al giudice dell'esecuzione; sicché, in assenza di impugnazione sul punto del pubblico ministero, al giudice di appello è inibito un provvedimento che lederebbe a un tempo il principio del favor rei e quello devolutivo.

Dopo l'ultimo intervento delle Sezioni unite sull'art. 597 c.p.p., che più sopra si è ricordato, la giurisprudenza delle sezioni semplici ne ha seguito l'insegnamento in misura largamente prevalente. Ma non sono mancati rinnovati contrasti e distinguo, di sicuro non circoscrivibili nei limiti di difformità giustificabili dalla species facti.

L'ordinanza in rassegna muove dall'indirizzo prevalente, segnalando alcune delle più recenti decisioni sul tema, a cui possono aggiungersi, tra le recentissime, sez. I, 26 settembre 2012, n. 42132, in C.e.d. Cass., n. 253612, in un caso di riconoscimento in appello di attenuanti escluse in primo grado e mancata riduzione della pena; sez. VI, 4 luglio 2012, n. 36573, ivi, n. 253377, in un caso di esclusione di aggravante, che non aveva comportato la riduzione della pena complessiva; sez. V, 12 gennaio 2012, n. 14991, ivi, n. 252326, in un caso nel quale in appello il giudice aveva disposto la diminuzione per le già concesse attenuanti in misura inferiore a quella stabilita in primo grado; e, tra le non massimate, sez. II, 10 maggio 2012, n. 31065, in un caso nel quale la Corte d'appello aveva computato, ai fini del calcolo della pena, una circostanza aggravante esclusa in primo grado; sez. III, 21 giugno 2012, n. 28566, in un caso nel quale il giudice di appello aveva individuato una pena base pecuniaria maggiore di quella assunta dal giudice di primo grado; sez. V, 25 gennaio 2012, n. 12974, in un caso di continuazione nei reati fallimentari.

Sull'opposto versante, oltre alle sentenze indicate nell'ordinanza in rassegna, tra le più recenti va annoverata sez. I, 23 ottobre 2012, n. 41279, in C.e.d Cass., n. 253609, secondo la quale non viola il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, su impugnazione del solo imputato, proceda alla derubricazione del reato per cui vi sia stata condanna in primo grado in altro meno grave e a un giudizio di bilanciamento delle circostanze deteriore rispetto a quello formulato dal giudice di prime cure; e, tra le non massimate, sez. II, 7 marzo 2012 n. 23180, in un caso nel quale, riconosciuta in appello un'attenuante non concessa in primo grado, si è ritenuto che il giudice avesse solo l'obbligo di riformulare il giudizio di comparazione, ma non quello di eseguirlo in termini tali da imporre una necessaria riduzione della pena complessiva, nonché sez. IV, 23 giugno 2011 n. 33297, secondo cui la concessione in appello per la prima volta di attenuanti o l'esclusione di aggravanti impone un rinnovato giudizio di bilanciamento che ben può confermare il precedente, senza che per ciò venga violato il divieto di reformatio in peius, qualora la pena complessiva rimanga immutata.

Tale conclusione discenderebbe, secondo quest'ultima decisione, dal dictum di Sez. un., 16 marzo 1994, n. 7346 (in Cass. pen., 1994, p. 853). Sennonché, queste ultime erano intervenute a dirimere un contrasto sulla possibilità, per il giudice d'appello, di procedere ex officio a rinnovato giudizio di bilanciamento delle circostanze a prescindere dalla ritenuta esclusione di circostanze aggravanti riconosciute in primo grado o dall'avvenuto riconoscimento di attenuanti in esso negate, e non sulle conseguenze che da tali eventi sarebbero potute derivare. Tant'è vero che nella stessa udienza del 23 giugno 2011 il medesimo collegio della quarta sezione penale ebbe a ritenere che viola il divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, una volta assolto uno dei tre imputati in un caso nel quale il numero delle persone integra aggravante - nella specie art. 76, comma 3, t.u. stup. - (ovviamente da escludere), non proceda alla rideterminazione della pena complessiva per i restanti imputati.

 

3. Non sembra che il problema della necessità di nuova formulazione del giudizio di comparazione delle circostanze - che anche in questo caso rileva, essendo stata esclusa dal giudice d'appello una circostanza aggravante ritenuta in primo grado - possa condizionare la soluzione della questione al centro del contrasto, e cioè quella dell'incidenza sulla pena dell'avvenuta esclusione di una circostanza aggravante.

Non pare, infatti, una contradictio in adiecto concludere nel senso che, da un lato, il giudizio di bilanciamento delle circostanze debba essere riformulato e, dall'altro, che la pena debba essere diminuita a fronte di una valutazione complessiva di minore gravità del fatto.

Sembra difficile, infatti, che le Sezioni unite possano rivedere i loro precedenti insegnamenti sul divieto di reformatio in peius dinanzi a un assetto legislativo rimasto sostanzialmente immutato e in una fattispecie non dissimile da quella esaminata otto anni fa.

Un problema connesso alla soluzione della questione riguarda il tipo di annullamento (con o senza rinvio) che la Corte è chiamata a deliberare in un caso come questo, e cioè, in altri termini, la possibilità che essa chiuda definitivamente la vicenda processuale, eliminando la parte di pena eccedente quella da infliggere non tenendo conto dell'aggravante esclusa o tenendo conto dell'attenuante riconosciuta: se ex actis risulta quanto, senza una rinnovata valutazione di merito, sia da imputare alla circostanza che rileva, la Corte di cassazione procede direttamente al calcolo e annulla senza rinvio, espungendo la parte di pena illegalmente inflitta; in caso contrario, è obbligata a rimettere la determinazione della pena al giudice a quo.

Per quanto valga, va comunque ricordato che il divieto della reformatio in peius non può condizionare i poteri di cognizione e di decisione del giudice d'appello che è legittimato, ove sia stato richiesto dall'appellante di riconoscere il vincolo di continuazione, a individuare la violazione più grave, con l'unico limite di determinare la pena in misura complessivamente inferiore alla quantità che risulterebbe, in applicazione della regola del cumulo materiale, dalla sommatoria delle singole pene inflitte per i singoli reati; e ciò perché il citato divieto concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla sua motivazione, nella quale il giudice non può subire condizionamenti a seguito dell'appello o, nel caso di giudizio di rinvio, dell'annullamento disposto dalla Corte suprema (Sez. un., 19 gennaio 1994 n. 4460, in Cass. pen., 1994, p. 2027).

Infine, poiché l'art. 597 c.p.p. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice d'appello nell'ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato, quelli concernenti le pene accessorie - le quali, secondo il disposto dell'art. 20 c.p., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa - al giudice di secondo grado è consentito applicare d'ufficio le pene predette qualora non vi abbia provveduto quello di primo grado, e ciò ancorché la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero. (Sez. un., 27 maggio 1998, n. 8411, ivi, 1998, p. 3229).