ISSN 2039-1676


07 aprile 2013 |

La Cassazione chiude il caso della scalata Antonveneta (e perde una preziosa occasione per fare un po' di chiarezza sui delitti di aggiotaggio)

Cass., sez. II pen, 28 novembre 2012 (dep. 21 marzo 2013), n. 12989, Pres . ed Est. Esposito, Est. Taddei, Imp. Consorte e a.

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1.  Con la sentenza qui pubblicata la Cassazione conferma integralmente la sentenza della Corte d'Appello di Milano sul caso Antonveneta. Divengono così definitive le condanne a carico, tra gli altri, di Gianpiero Fiorani, Giovanni Consorte e dell'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio per una serie di reati relativi alla complessa vicenda della 'scalata' della banca Antonveneta orchestrata dalla Banca Popolare di Lodi, con il concorso del governatore Fazio.

Perno dell'ipotesi accusatoria era costituito, come è noto, dal delitto di aggiotaggio societario di cui all'art. 2637 c.c., nella versione in vigore all'epoca dei fatti (anteriore alle modifiche di cui alla legge n. 62/2005). Su questa ipotesi delittuosa si sono, in effetti, concentrati i motivi di ricorso delle difese, e le conseguenti statuizioni della Corte. Rinviando alla lettura integrale della sentenza per ogni altro profilo, vale qui la pena di evidenziare soltanto un paio di passaggi di particolare rilievo generale in materia di aggiotaggio (nonché della fattispecie, strutturalmente sovrapponibile, di manipolazione del mercato di cui all'art. 185 t.u.f.), in attesa di un più articolato commento a questa importante decisione.

 

2. Uno dei nodi più problematici per la prassi consiste nella determinazione della competenza territoriale per i fatti di aggiotaggio: non a caso, la decisione della Cassazione confermativa della competenza dell'a.g. milanese è stata assunta, sul punto, su difforme parere della Procura generale, che non ha mai condiviso le linee argomentative convergenti nell'esito di accentrare su Milano, in quanto sede della Borsa, la competenza per i fatti in questione.

La sentenza ora pubblicata assume, sul punto, una posizione particolarmente netta. Ad avviso del collegio, il delitto di aggiotaggio sarebbe qualificabile come reato eventualmente permanente, in quanto integrabile in ipotesi da un'unica attività (ad es. la diffusione di un'unica notizia falsa, o un'unica operazione simulata), ma anche da "plurime attività e complessivamente e unitariamente idonee a produrre uno stesso evento di pericolo" (p. 86). Conseguentemente, anche quando l'ipotesi accusatoria (come nel caso di specie) concerna una pluralità di comunicazioni false, operazioni simulate e altri artifici posti in essere in tempi e luoghi diversi, non si sarebbe in presenza di più fatti di aggiotaggio in continuazione - come ritenuto dalla pubblica accusa, e dalla stessa sentenza di secondo grado -, bensì di un unico fatto, che si deve considerare commesso "nel tempo e nel luogo in cui si concretizza, quale conseguenza della condotta, la rilevante possibilità di verificazione della sensibile alterazione del prezzo dello strumento finanziario" (p. 86), e dunque nel tempo e nel luogo in cui si verifica l'evento di pericolo richiesto dalla norma per la sussistenza del reato. Evento che, conclude la Cassazione, deve necessariamente collocarsi nel mercato nel quale si formano i prezzi degli strumenti finanziari, e dunque "nel luogo in cui ha sede la società di gestione del mercato stesso (la Borsa Italiana s.p.a.)" (p. 87).

L'adozione di un argomento così tranchant avrebbe evidentemente reso superfluo ogni ulteriore sforzo motivazionale in punto competenza territoriale. In replica alle articolate doglianze dei ricorrenti, la Cassazione si preoccupa tuttavia di dimostrare che la conclusione che àncora la competenza nel foro milanese non muterebbe anche considerando isolatamente le singole "attività" costituenti l'unico fatto di aggiotaggio. Nell'ipotesi di "manipolazione operativa" consistente nel compimento di operazioni di acquisto o vendita di titoli, infatti, il locus commissi delicti dovrebbe comunque identificarsi, come già ritenuto dalla Corte d'appello, nel "luogo in cui avviene l'abbinamento automatico delle proposte di negoziazione in acquisto e vendita degli strumenti finanziari", e cioè nel sistema informatico di Borsa Italiana s.p.a., che ha sede appunto a Milano (p. 90), e non già - come sostenuto dalle difese - nel luogo di invio dell'ordine, o in quello in cui l'intermediario autorizzato annota sul dossier titoli dell'acquirente l'avvenuta transazione. E analoga conclusione si imporrebbe per l'ipotesi di aggiotaggio informativo, che dovrebbe ritenersi consumato non già - come ritenuto dalle difese, e dalla stessa Procura generale - nel luogo in cui il comunicato viene formato ed esce definitivamente dalla sfera di controllo del suo autore, bensì nel momento e nel luogo in cui il comunicato viene 'processato' dal sistema informatico di Borsa Italiana (il c.d. Network Information System, o NIS) e, quindi, reso noto alla generalità degli operatori: e dunque, ancora una volta, presso la sede milanese della Borsa (p. 98 s.) - soluzione, questa, già accolta dalla Corte d'Appello, ed ancor prima dalla sentenza del Tribunale di Milano nel parallelo caso Unipol.

 

3. La linea argomentativa principale prescelta dalla Cassazione in punto competenza territoriale suscita, in verità, serie perplessità, che in questa sede possono essere soltanto accennate.

Per cominciare, un vero e proprio fraintendimento concettuale è quello di considerare l'aggiotaggio, e la manipolazione di mercato, come reato di evento anziché di mera condotta, argomentando dal requisito della concreta idoneità a determinare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari che deve connotare le condotte tipizzate (diffusione di notizie false, operazioni simulate e altri artifici).

Il fraintendimento è purtroppo favorito dal linguaggio del legislatore del '30, che parla agli articoli 40 e 43 c.p. di "evento pericoloso" come categoria alternativa rispetto all' "evento dannoso", ingenerando così negli interpreti l'erroneo convincimento che ogniqualvolta il legislatore richieda il verificarsi di un pericolo per il bene protetto, tale pericolo debba identificarsi necessariamente in un "evento" dotato di autonomia rispetto alla condotta. In realtà, come i manuali da sempre insegnano, per "evento" (in senso naturalistico) deve intendersi un 'accadimento' rilevabile sul piano fenomenico, ossia una modificazione della realtà distinta dalla condotta, e da questa causata; mentre il "pericolo" è un mero giudizio (compiuto da chi osserva la realtà, e in particolare dal giudice) relativo alla possibilità - o sulla probabilità - che si verifichi l'evento dannoso che la norma penale mira a prevenire. Tale possibilità, o probabilità, può certamente essere riferita dalla norma incriminatrice ad un evento in senso naturalistico - come nel caso dell'incendio, del naufragio o di un altro "disastro", che sono conseguenze fisiche della condotta dell'agente e che devono necessariamente essere connotate, per essere considerati tali, da una dimensione di pericolosità per la pubblica incolumità -; ma può essere normativamente riferita anche alla mera condotta dell'agente, in tutti i reati che non richiedono il prodursi di una modificazione della realtà distinta dalla condotta. E' questo, appunto, il caso della fattispecie di aggiotaggio, che non richiede il verificarsi di alcun evento naturalistico, e che si accontenta invece della realizzazione di una o più condotte dalle quali possa derivare, secondo la valutazione del giudice, un accadimento futuro ed eventuale (la sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari), la cui verificazione non è certamente richiesta ai fini della consumazione del reato.

Parlare dunque di un "evento di pericolo" come conseguenza delle condotte di aggiotaggio è, dunque, un non-senso logico, a meno che la nozione di evento sia ricostruita non già in senso 'naturalistico', ma in senso puramente giuridico e 'spirituale', come sinonimo di "offesa all'interesse tutelato". Anche se inteso in questa accezione, però, il "pericolo di sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari" non ha alcuna consistenza fenomenica - non è, cioè, un 'accadimento' percepibile con i sensi che modifica la realtà -: è un mero giudizio (che si svolge, come tale, non in uno spazio fisico, ma unicamente nella testa del giudice) avente ad oggetto la condotta, o le condotte, nel cui compimento si esaurisce il delitto di aggiotaggio.

Ergo, non ha alcun senso ancorare la competenza territoriale ad un luogo (diverso, in ipotesi, da quello in cui la condotta è stata commessa) nel quale il pericolo si 'verificherebbe' nella realtà, e che si vorrebbe identificare - in effetti - nel luogo in cui potrebbe verificarsi il danno derivante dalla condotta (e cioè, nel nostro caso la Borsa di Milano, dove potrebbe verificarsi l'evento di "sensibile alterazione dei prezzi degli strumenti finanziari"): danno che è, ripetiamo, irrimediabilmente estraneo alla struttura della norma incriminatrice.

Inevitabile allora la conclusione: se il delitto di aggiotaggio è - così come formulato dal legislatore - un reato di mera condotta, è naturale che la competenza territoriale dovrà determinarsi in relazione al luogo in cui la condotta è stata compiuta.

E qui sorge, allora, l'ulteriore profilo problematico evocato dalla sentenza ora pubblicata: posto che la norma descrive più possibili condotte, e che nella prassi le contestazioni di aggiotaggio - o di manipolazione del mercato - riguardano sempre una pluralità di condotte compiute in tempi e luoghi diversi da un numero spesso assai ampio di attori, dovrà ritenersi che tali condotte debbano essere considerate unitariamente - e cioè come un 'unico fatto' - ai fini della configurazione del delitto, ovvero ci si troverà di fronte, in tali ipotesi, a tanti fatti di aggiotaggio distinti, uniti dal vincolo della continuazione?

La Cassazione opta, come si è visto, per la prima soluzione, censurando sul punto la sentenza della Corte d'appello milanese, attraverso la configurazione dell'aggiotaggio come reato "eventualmente permanente". Il collegio cita in senso conforme un precedente della stessa S.C. relativo a un conflitto positivo di competenza pronunciato nel parallelo caso Unipol, nel quale la Corte aveva in concreto riconosciuto la diversità dei fatti di manipolazione del mercato per i quali le a.g. di Milano e Roma stavano procedendo, dopo aver però cursoriamente affermato - nello spazio di poco più di una riga - "che l'aggiotaggio (comune o societario) si presta ad essere realizzato con plurime attività complessivamente e unitariamente idonee a produrre uno stesso evento di pericolo e questo può perdurare ed aggravarsi nel tempo, così che il reato veniva tradizionalmente anche definito - per quanto valgono siffatte definizioni - reato eventualmente permanente" (Cass., sez. I pen., 15 aprile 2011, n. 26829). Un po' più di cautela nell'uso disinvolto delle categorie sarebbe, tuttavia, raccomandabile.

Secondo un'impostazione largamente condivisa, al di là di varianti terminologiche inessenziali, il reato si definisce permanente quando la legge vieta la creazione di una situazione antigiuridica, che è in potere del soggetto attivo fare cessare. In questa nozione è facile incasellare non solo l'ipotesi archetipica del sequestro di persona, ma anche tutti i reati di possesso (ove l'agente ha in ogni momento la possibilità di disfarsi in ogni momento della cosa illecitamente posseduta o detenuta), la partecipazione nel reato associativo (il soggetto è 'parte' del sodalizio fintanto che non vi receda), i reati omissivi propri (nei quali la permanenza si estende sino a che sia possibile al soggetto attivo adempiere all'obbligo di legge), e così via. Un reato "eventualmente permanente" potrebbe allora essere ritenuto quello previsto da una norma che contempli più modalità di condotta, alcune delle quali a carattere 'istantaneo' e altre inquadrabili nella definizione di cui sopra: ad es. la ricettazione, che può realizzarsi attraverso condotte puntuali come l'acquisto o la ricezione della cosa proveniente da delitto, che si realizzano in una data e in un luogo determinato, ma anche dal suo "occultamento", ossia dalla creazione di una situazione che si prolunga nel tempo, con un inizio e una fine (e in cui anche il luogo di consumazione può nel frattempo mutare).

Dovrebbe risultare evidente, però, la difficoltà di inquadrare una fattispecie come quella di aggiotaggio - o di manipolazione del mercato - entro una simile nozione. Le norme in questione non sanzionano affatto la creazione di una situazione antigiuridica che si dipana nel tempo, e che resta in potere dell'agente far cessare in ogni momento; bensì condotte puntuali, che si realizzano ciascuna in una data e a un'ora precisa. Tipiche condotte 'istantanee', dunque; del tutto eterogenee rispetto al paradigma del reato permanente.

Piuttosto, nell'ottica della Cassazione, ci si sarebbe forse potuti domandare se il legislatore abbia voluto configurare un reato "eventualmente abituale": ossia un reato in cui l'eventuale commissione di una pluralità di condotte in tempi (e magari in luoghi) diversi debba essere, tuttavia, considerata unitariamente ai fini della sanzione, con esclusione quindi della disciplina del concorso di reati e del reato continuato (come accade nei maltrattamenti in famiglia o negli atti persecutori). Se così fosse, la regola di determinazione della competenza territoriale non potrebbe che essere quella suppletiva di cui all'art. 9 co. 1 c.p.p., che attribuisce la competenza al giudice dell'ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione.

La soluzione più seguita nella prassi - e alla quale si sono conformati non solo i giudici d'appello nella vicenda Antonveneta, ma anche le sentenze di merito nel caso Unipol, sul punto ormai definitivamente confermate dalla Cassazione (cfr. Cass., sez. V pen. 6 dicembre 2012, n. 49362, p. 10 s., in questa Rivista) - è invece quella di considerare le singole condotte di aggiotaggio o di manipolazione del mercato come autonomi reati, uniti semmai dal vincolo della continuazione allorché siano stati compiuti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso; con conseguente applicazione delle regole di cui all'art. 16 co. 1 c.p.p., che fissano la competenza nel luogo in cui si ha stata compiuta la più grave o, in subordine, la prima delle condotte contestate (il primo acquisto di azioni, il primo comunicato falso, etc.). Soluzione, questa, assai lineare sul piano logico, che consente tra l'altro di giungere al medesimo risultato pratico cui si perverrebbe attraverso la qualificazione del reato come "eventualmente permanente" (in cui il locus commissi delicti dovrebbe essere identificato, ex art. 8 co. 3 c.p.p., nel luogo in cui ha avuto inizio la consumazione), evitando però inutili forzature alle categorie dogmatiche.

In quest'ottica, diviene allora allora cruciale chiedersi se siano corretti i criteri di determinazione del locus commissi delicti utilizzati dai giudici di merito nei casi Antonveneta e Unipol, e che la Cassazione in questa sentenza utilizza soltanto in chiave sussidiaria rispetto alla via per lei maestra - ma dogmaticamente insostenibile, come confido di aver dimostrato - dell'ancoraggio della competenza al fantomatico "luogo del pericolo": criteri che fanno leva, come si è visto, sulla necessaria mediazione del sistema informativo di Borsa d'Italia (il NIS) tanto per ciò che concerne le "comunicazioni" rivolte al mercato (e dunque alle ipotesi di aggiotaggio informativo), quanto per ciò che concerne le ipotesi di aggiotaggio manipolativo, integrato dalla compravendita di strumenti finanziari. Necessaria mediazione che consente di individuare in tutte queste ipotesi la competenza territoriale nel luogo in cui ha la propria sede legale Borsa Italiana s.p.a., e cioè - ancora una volta - a Milano; lasciando però aperta la possibilità che altre ipotesi di aggiotaggio, in ispecie 'informativo', possano consumarsi altrove (ad es. in relazione a comunicati stampa, a interviste giornalistiche etc. non mediate dal sistema NIS di Borsa d'Italia).

 

4. Lascio qui aperta questa cruciale domanda, sperando che venga presto raccolta - magari sulle pagine della nostra Rivista - da studiosi con maggiori competenze in materia di diritto penale dell'economia (e di diritto societario), per dedicare qualche più rapida considerazione alle statuizioni della S.C. relative ai singoli requisiti del delitto di aggiotaggio.

A prima lettura, la mia impressione è - nonostante le duecento e passa pagine di motivazione - la Cassazione abbia perduto anche qui un'importante occasione per fare chiarezza, anzitutto, sull'interpretazione delle tre condotte alternative previste dall'art. 2637 c.c. (e dall'art. 185 t.u.f.), rinunciando in particolare a fornire definizioni dai contorni precisi e stringenti - e in grado come tali di orientare la prassi futura della magistratura requirente e giudicante - delle condotte medesime. Ed è un peccato, perché la prassi delle procure tende a costruire capi di imputazione - come quello nel caso di specie - in cui le condotte contestate vengono qualificate cumulativamente e in maniera indifferenziata, in un inciso introduttivo, come "diffusione di notizie false", "operazioni simulate" e "altri artifici", lasciando così gli organi giudicanti liberi di sussumere i fatti concreti nell'una o nell'altra di tali categorie, e liberando così questi ultimi dall'onere di sforzarsi di attribuire in via ermeneutica contorni precisi a ciascuna delle espressioni utilizzate dal legislatore.

Il problema non concerne tanto la condotta di "diffusione di notizie false", quanto quella di "operazioni simulate" (nella quale si sono sussunte, nel caso Antonveneta, compravendite reali di strumenti finanziarie effettuate però 'per interposta persona', in modo da occultare agli organi di vigilanza l'esistenza di una 'scalata' societaria da parte della cordata capeggiata dalla Banca Popolare di Lodi), e soprattutto quella di "altri artifici", sulla quale l'unico principio di diritto estraibile dalla sentenza è, se non vedo male, quello secondo cui una condotta qualificabile come "altro artificio" non deve necessariamente connotarsi in termini di illiceità (previa e indipendente, si intende, rispetto alla illiceità che deriva dalla stessa norma incriminatrice dell'aggiotaggio): principio in sé abbastanza ovvio (chi si sentirebbe di sostenere che la truffa possa commettersi soltanto mediante artifizi in sé illeciti, che tali sarebbero - cioè - a prescindere dall'art. 640 c.p.?), ma che non aiuta in alcun modo a comprendere quali siano i requisiti positivi che devono necessariamente connotare una condotta perché possa essere qualificata come "altro artificio" nell'ambito dei delitti in questione.

Nel caso di specie, si è in particolare ritenuto che costituissero "altri artifici" gli acquisti coordinati di azioni da parte di soggetti vincolati in realtà da patti parasociali occulti, finalizzati all'acquisto di una posizione dominante in seno ad Antonveneta, posizione poi effettivamente raggiunta nell'assemblea sociale del 30 aprile 2005: assunto, questo, nella sostanza identico a quello posto a base dell'ipotesi accusatoria nella parallela vicenda Unipol. L'argomento chiave è che, in tal modo, non sarebbe stato dichiarato al mercato il superamento, da parte di tutti i paciscenti, della soglia del 30% delle azioni della società target, con conseguente violazione da parte di tutti costoro dell'obbligo di lanciare un'offerta pubblica di acquisto (OPA) ai sensi dell'art. 106 t.u.f.

Una delle doglianze delle difese - invano reiterate anche di fronte alla S.C. - è che l'art. 2637 c.c., così come l'art. 185 t.u.f. nel caso Unipol, sia stato in effetti utilizzato per sanzionare penalmente la violazione delle norme in materia di OPA obbligatoria, sanzionate invece dall'art. 192 t.u.f. come mero illecito amministrativo. Di fronte a tale - serissima - doglianza, sarebbe allora stato necessario mostrare perché le condotte in questione potessero e dovessero considerata penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 2637 c.c., in quanto corrispondenti alla nozione generale e astratta di "altro artificio": una nozione che sarebbe però vano cercare nella sentenza della Cassazione.

L'unica risposta che la S.C. tenta, invero, di fornire alle doglianze delle difese è che le condotte in questione costituirebbero reato in quanto "concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari". Ma, ancora una volta, il lettore esce per così dire... a bocca asciutta dalla lettura della sentenza: la quale si limita ad assumere apoditticamente tale idoneità, evitando di esplicitare sulla base di quali leggi scientifiche relative al comportamento degli investitori e alla formazione dei prezzi in un mercato borsistico, o almeno di quali massime di esperienza generalmente condivise dagli studiosi della materia, si debba ritenere che le singole condotte contestate agli imputi potessero provocare "sensibili" alterazioni del prezzo degli strumenti finanziari. Il lettore resta altresì perplesso, non riuscendo a comprendere perché mai in tema di accertamento del nesso causale la Cassazione esiga da più vent'anni - da epoca ben anteriore a Franzese, si noti - la puntuale indicazione delle leggi scientifiche o delle massime di esperienza rilevanti per stabilire una connessione tra la condotta e l'evento, mentre quando si tratta di accertare un mero "pericolo" - o, il che è lo stesso, la mera "idoneità" della condotta a produrre un certo risultato - di tali leggi scientifiche o massime di esperienza si possa fare tranquillamente a meno, e ci si accontenti invece di affermazioni di buon senso, o magari - come nel caso di specie - della considerazione che, in effetti, i prezzi delle azioni Antonveneta sono aumentati del 50% nel periodo cui si riferiscono le condotte contestate agli imputati (senza indagare però in alcun modo se tale crescita di valore sia attribuibile causalmente a tali condotte, ovvero a ipotetici fattori causali alternativi).

Un giudizio puntuale sulla "concreta idoneità" richiesta dalla norma avrebbe invece reso necessaria l'acquisizione - se del caso attraverso lo strumento della perizia - del sapere specialistico necessario a stabilire, ad es., con quali meccanismi una condotta consistente ad es. in un comunicato falso che neghi una 'scalata' in realtà in atto possa influire sui comportamenti degli investitori e, quindi, sul prezzo delle azioni: risultando altrimenti difficilmente comprensibile, per un non specialista, perché una tale condotta possa ragionevolmente produrre un rialzo artificioso del prezzo delle azioni come quello evidenziatosi nella realtà, anziché magari un suo abbassamento rispetto al prezzo che si sarebbe formato in assenza di quella falsa comunicazione (secondo una considerazione di senso comune, dovrebbe essere la notizia di una scalata in atto a determinare nel mercato un innalzamento del prezzo delle azioni, non già la sua smentita a mezzo di un comunicato falso - la quale potrebbe anche non essere suscettibile di produrre alcun effetto sui prezzi, in particolare laddove il comunicato falso appaia fin dall'inizio poco credibile). Si tratta, beninteso, di accertamenti complessi, che tuttavia non si vede perché non debbano essere compiuti, specie quando si discute non già di un mero illecito amministrativo o di una fattispecie contravvenzionale, ma di un delitto assai grave, che - nella versione di cui all'art. 185 t.u.f. - prevede oggi una pena massima di dodici anni di reclusione.

Sarebbe stato, a questo punto, interessante un vaglio critico della Cassazione su un argomento - appena accennato nella sentenza di primo grado (p. 15), ma sviluppato invece dal Tribunale di Milano nel parallelo caso Unipol (pp. 45 e, soprattutto, 168-170) - funzionale proprio a evitare in radice queste difficoltà di accertamento, in relazione ai casi di 'scalata' occulta in elusione della normativa sul lancio obbligatorio dell'OPA. L'argomento si basa sull'asserzione che il lancio di un'OPA comporta un meccanismo legale di fissazione del prezzo che l'offerente deve dichiarare di essere disposto a pagare per ciascuna azione; di talché il mancato lancio di un'OPA obbligatoria ha necessariamente un'influenza sui prezzi degli strumenti finanziari, che continueranno a determinarsi secondo le libere dinamiche del mercato anziché sulla base dell'offerta di acquisto illegittimamente omessa. Ancora una volta, però, la Cassazione perde una preziosa occasione per esprimersi sul punto, rinunciando così a fornire alla prassi indicazioni sulla correttezza di questo criterio di accertamento.