ISSN 2039-1676


17 settembre 2013 |

Astensione, ricusazione ed imparzialità  soggettiva del giudice: la Cassazione traccia il confine tra la manifestazione di un parere sull'oggetto del procedimento e la manifestazione del proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione

Commento a Cass., Sez. II, ud. 11 giugno 2013 (dep. 25 giugno 2013), n. 27813, Pres. Esposito, Rel. Beltrami, imp. De Donno

1. Il caso in esame prende le mosse dal rigetto, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'istanza di ricusazione proposta da uno degli imputati nei confronti del Giudice dell'Udienza preliminare nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

Lamenta la difesa dell'imputato, con argomentazioni recepite nei motivi di ricorso per cassazione, che il Giudice del caso di specie in occasione della sua collaborazione alla redazione del libro "Attentato alla Giustizia" nonché in numerose interviste pubbliche avrebbe fatto «trasparire il parere - se non addirittura il vero e proprio convincimento - circa l'esistenza di una trattativa tra Stato e mafia».  Questa condotta del magistrato, sempre secondo l'assunto del ricorrente, integrerebbe certamente (quantomeno) l'espressione fuori dall'esercizio delle sue funzioni di un parere non generico, non neutro né indifferente rispetto all'oggetto del procedimento che lo vede quale Gup (se non addirittura la manifestazione di un vero e proprio convincimento sui fatti di cui all'imputazione) e legittimerebbe, pertanto, la declaratoria di ricusazione ai sensi dell'art. 37 comma 1 lett. a) - oppure b) -  c.p.p.

La Cassazione non condivide la valutazione del comportamento del Giudice proposta dalla difesa dell'imputato e, nel rigettare il ricorso, coglie l'occasione per chiarire il confine tra la legittima libertà di manifestare il proprio punto di vista su qualsiasi argomento e le (illegittime) condotte che compromettono l'imparzialità del soggetto giudicante.

 

2. Il percorso motivazionale è articolato e muove dalla cornice delle fonti sovraordinate in tema di imparzialità del giudice. L'ambito ontologico del concetto di imparzialità, conviene ricordarlo, attiene alla posizione del magistrato in relazione all'esercizio delle funzioni processuali e si distingue pertanto dall'indipendenza che attiene invece alla organizzazione ordinamentale della magistratura, alla sua funzione istituzionale ed al rapporto con il potere esecutivo[1].

Il primo richiamo operato dalla Suprema Corte è all'art. 6 par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed all'elaborazione ermeneutica fornita dalla giurisprudenza di Strasburgo, che correla la valutazione di imparzialità del giudice a due criteri, l'uno soggettivo, l'altro oggettivo[2]. La Corte europea, al fine di stabilire se vi sia stata una violazione della Convenzione, verifica in primo luogo se il comportamento del giudice in relazione a quella determinata controversia abbia evidenziato l'esistenza di una idea preconcetta circa la colpevolezza dell'imputato. Opera, in relazione alla valutazione soggettiva, una presunzione d'imparzialità del giudice che determina, di conseguenza, la necessità di solidi ed univoci elementi, esterni rispetto alle mere affermazioni dell'imputato e verificabili, per poter essere superata. E proprio per la difficoltà di fornire prove idonee a vincere la presunzione d'imparzialità soggettiva, la Corte europea configura una collaterale garanzia oggettiva, che impone di controllare se, indipendentemente dalla condotta personale del giudice, esistano fatti verificabili che legittimino l'insorgenza di dubbi oggettivamente giustificati quanto alla posizione del magistrato in questione[3]. In questa ottica, acquista maggiore peso il punto di vista della parte, che deve però essere comunque avvalorato dalla condivisione di un osservatore esterno che attribuisca al dubbio una giustificazione oggettiva. Come a più riprese sottolineato dalla Corte europea, infatti, la salvaguardia dell'apparenza di imparzialità («la giustizia non deve solo essere fatta, ma deve anche apparire che sia fatta»)[4] è indispensabile presupposto perché coloro che sono soggetti al giudizio nutrano fiducia nella funzione giudiziaria. Pertanto, assume rilevanza anche «la mera apparenza di imparzialità, se oggettivamente rilevabile e non costituente frutto del mero sospetto della parte»[5].

Nella prospettiva interna, il principio di imparzialità del giudice trova copertura in diverse norme costituzionali, sia per richiamo espresso (è il caso del comma 2 dell'art. 111 Cost., riformato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2)[6], sia come risultato dell'interazione di altri precetti costituzionali. Ne derivano plurime connotazioni del principio di imparzialità, vuoi come elemento indispensabile nell'esercizio della giurisdizione, vuoi quale conseguenza della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e della sua precostituzione rispetto all'oggetto del giudizio (art. 25 Cost.), vuoi infine come cifra essenziale del "giusto processo" (non solo) penale. La lettura integrata delle norme costituzionali e della giurisprudenza che nel corso degli anni le ha interpretate delinea i tratti di un giudice che da un lato sia "terzo", scevro di interessi propri e di convinzioni precostituite in relazione alla materia da decidere, e, dall'altro, appaia imparziale[7].

Autorevole dottrina[8] ha ricavato dall'analisi delle pronunce della Corte costituzionale una triplice connotazione del principio di imparzialità, che impone al giudice di essere fisicamente differenziato dalle parti; equidistante dalle stesse (in astratto, a livello ordinamentale, ed in concreto, con riferimento alla specifica vicenda processuale) e portato a pronunciarsi sul merito dell'accusa esclusivamente in base alle prove legittimamente acquisite. Se i primi due profili connotano concetti di relazione - apprezzabili sia in quanto effettivamente esistenti sia in quanto soltanto apparenti - è con la terza accezione che si individua l'essenza della garanzia d'imparzialità, come dovere funzionale, ma anche come categoria più intima ed interna della persona fisica incaricata di giudicare. Il rischio che si profila è quello di una "esasperazione" della sfera soggettiva, per sua natura difficilmente valutabile. La soluzione è individuata nel limite di quanto "oggettivamente apprezzabile": solo quando l'esternazione dell'opinione del giudice sia percepibile da un osservatore esterno, vi potrà essere un sindacato circa la sua effettiva imparzialità.

In questa cornice, agli istituti processuali di cui agli artt. 36 e 37 c.p.p. viene attribuito il compito di disciplinare quelle situazioni - preesistenti ed estranee al procedimento penale - idonee a pregiudicare l'imparzialità della funzione giudicante. A differenza della disciplina delle incompatibilità, però, cui meglio si attaglia la logica della prevenzione (secondo la quale tanto più una situazione è ex ante prevedibile tanto più sarà nello specifico codificabile) proprio perché correlate a rapporti di parentela o all'esercizio di funzioni definibili in astratto (indipendentemente dal contenuto del provvedimento adottato in concreto dal giudice), le situazioni che danno luogo ad astensione-ricusazione debbono essere sempre oggetto di una puntuale valutazione di merito, che consenta, previa verifica dell'effettivo pregiudizio, il rispetto dei principi del giusto processo[9] e degli altri principi costituzionali coinvolti. Tra essi, in particolare, la necessità di bilanciamento con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.) ha imposto una lettura rigorosa delle ipotesi di cui agli artt. 36 e 37 c.p.p., volta ad escludere qualsiasi margine di discrezionalità (e quindi eventuali abusi o strumentalizzazioni) in capo alle parti ed al giudice, in relazione ad istituti processuali che determinano uno spostamento di competenza. Ne consegue che, per consolidata giurisprudenza, né l'astensione né la ricusazione possono fondarsi su considerazioni squisitamente soggettive o su sospetti vaghi[10], trattandosi di ipotesi eccezionali e tassative, non suscettibili di applicazioni estensive o analogiche[11]. Anche la giurisprudenza che qui si esamina segue la via così tracciata, riproponendo il principio di diritto secondo il quale «in tema di astensione e ricusazione, né il giudice che si astiene né la parte che lo ricusa possono fondarsi su considerazioni eminentemente soggettive o su generici sospetti»; «i motivi di astensione obbligatoria generale (e, conseguentemente, di ricusazione) sono, infatti, tassativamente indicati dall'art. 36 c.p.p., ed, in quanto determinanti una deroga al principio del giudice naturale (art. 25 Cost.), vanno necessariamente considerati di stretta interpretazione».   

 

3. Per quanto concerne la disciplina normativa ordinaria, la Suprema Corte analizza nel dettaglio il rapporto tra l'ipotesi di astensione-ricusazione disciplinata dagli artt. 36, comma 1, lett. c) e 37, comma 1, lett. a) c.p.p. (l'aver dato consigli o manifestato il proprio parere sull'oggetto del procedimento fuori dall'esercizio delle funzioni giudiziarie) e l'ipotesi di ricusazione di cui all'art. 37, comma 1, lett. b) c.p.p. (l'avere, nell'esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione), enucleando tre elementi che distinguono le due fattispecie.

In primo luogo, dalla semplice lettura delle disposizioni normative si evince il diverso contesto del comportamento addebitato al giudice: "fuori" dalla sede processuale nel caso di cui all'art. 36 c.p.p., "nell'esercizio delle funzioni" nell'ipotesi dell'art. 37, comma 1, lett. b) c.p.p.

Inoltre, differenti sono le forme nelle quali il giudice esterna la propria (pregiudizievole) opinione. Superando un orientamento interpretativo un po' massimalista, la Suprema Corte precisa la distinzione tra la manifestazione di un "convincimento" e l'espressione di un "parere", evidenziando come la diversa estensione della sfera di sindacabilità delle esternazioni del giudice vada necessariamente ricollegata anche alla sede nella quale tali dichiarazioni sono state rese. In sostanza, il "convincimento" implica un'analisi o una riflessione e, pertanto, ha un ambito di operatività più ristretto rispetto al parere, che «indica un'opinione non preceduta necessariamente da un ragionamento sulla conoscenza dei fatti o degli atti processuali»[12]. Da questa preliminare distinzione, la Corte di cassazione enuclea gli obblighi di condotta del giudice volti a tutelare l'apparenza di imparzialità: fuori dall'esercizio delle funzioni, evitare di esprimere opinioni anche superficiali su una possibile prossima regiudicanda; nell'esercizio delle funzioni, non esprimere opinioni sulla colpevolezza o innocenza dell'imputato (a meno che - e nei precisi limiti in cui - non risulti necessaria ai fini di una decisione incidentale).

Infine, diverso è il contenuto delle opinioni manifestate dal giudice. Nell'"oggetto del procedimento" di cui all'art. 36 c.p.p. rientrano affermazioni o valutazioni attinenti ad un oggetto comunque qualificato, dotate di rilevanza giuridica, tali da poter essere discusse in un procedimento penale. Più preciso e più specifico è invece il richiamo ai «fatti oggetto di imputazione» ai sensi dell'art. 37, comma 1, lett. b) c.p.p.

 

4. Il principio di imparzialità si colloca quale snodo strategico di differenti direttrici che, interagendo tra loro, superano i confini del singolo processo penale e dell'esercizio della funzione giurisdizionale, condizionando il giudizio dell'opinione pubblica sulla credibilità della giustizia. Proprio in ragione di questo suo ruolo nevralgico, viene attribuita rilevanza non soltanto all'effettiva esistenza dell'imparzialità, ma anche all'apparenza di essa. Se, infatti, gli specifici istituti processuali sopra richiamati sono posti a garanzia di un processo il cui giudice sia e appaia terzo ed imparziale, la loro efficienza (o inefficienza) nel caso concreto si proietta ad ampio spettro sulla dignità dell'intero ordine giudiziario (a maggior ragione in un caso, come quello di specie, dai forti echi mediatici). Entra in gioco, quale contrappeso, la dimensione più strettamente individualistica del giudice-persona fisica, titolare di diritti sociali tra i quali quello, costituzionalmente garantito, di manifestare liberamente il proprio pensiero. Si tratta allora di definire la regola di bilanciamento tra principi fondamentali pariordinati, che vede la limitata compressione dell'uno a favore dell'altro: il divieto di esercizio anomalo, di abuso, da parte del giudice, nell'esercizio del diritto di espressione della propria opinione. Questo punto di equilibrio si sposta a seconda del tipo di situazione genetica della (presunta) apparente imparzialità, determinando una maggiore compressione della libertà di manifestare il proprio convincimento nell'esercizio delle funzioni e sui fatti oggetto dell'imputazione (art. 37, comma 1, lett. b)) e, per converso, allargando le maglie nel caso (più generico) di espressione di un parere sull'oggetto del procedimento (art. 36, comma 1, lett. c)).        

Ne consegue che, laddove si versi nell'ipotesi in cui il giudice abbia manifestato il proprio parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie, l'ampiezza della formulazione normativa impone un recupero di tassatività in via interpretativa, escludendo dal novero delle cause di ricusazione sia le mere motivazioni soggettive di parte, sia le espressioni generiche manifestate nell'ambito di conversazioni su temi generali.

 

5. Applicando le considerazioni sopra svolte al caso di specie, non può che condividersi la conclusione cui giunge la Suprema Corte, ove afferma che «non può integrare il motivo di ricusazione dell'avere il giudice espresso, fuori dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, un parere sull'oggetto del procedimento, la formulazione di affermazioni del tutto generiche, prive di riferimenti anche superficiali al possibile esito del processo, ritenuto ineludibile, con specifico riguardo alle contestazioni ed agli imputati, come ad esempio nel caso in cui il giudice si sia occupato genericamente, in scritti od interventi aventi natura scientifica o comunque culturale, di vicende che costituiranno successivamente oggetto di decisione da parte sua in un processo penale».

Le opinioni espresse dal magistrato, valutate nella loro globalità (considerazioni generiche, di natura storica o socio-culturale, che valorizzavano in chiave problematica il contenuto di atti ufficiali extraprocedimentali e di pubblico dominio senza mai esprimere opinioni sul possibile esito dell'udienza preliminare), non integrano in concreto quelle situazioni "minime" che legittimano l'insorgenza di dubbi circa la (apparente) non imparzialità del giudice. Ne consegue il rigetto del ricorso, fondato, a giudizio della Suprema Corte, in via esclusiva su considerazioni eminentemente soggettive e generici sospetti della parte ricusante.

Questa lettura interpretativa, peraltro, pare essere l'unica compatibile con la portata costituzionale del principio di imparzialità, che si manifesta «prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo di essere della giurisdizione nella sua oggettività»[13].


[1] Più nello specifico, è necessario distinguere tra indipendenza esterna della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato ed indipendenza interna come inamovibilità discrezionale del giudice. Sul punto, in particolare, si rinvia a C. eur., 28 giugno 1984, Campbell e Fell c. Regno Unito ed a Corte cost., sent. n. 18 del 1989.

[2] Da ultimo, per un quadro completo di tutti i principi affermati dalla giurisprudenza europea in tema d'imparzialità, C. eur., 11 luglio 2013, Morice c. Francia e Corte eu., 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia (con specifico riguardo all'imparzialità nel giudizio disciplinare dinnanzi al Consiglio superiore della magistratura).

[3] Invero, tra imparzialità soggettiva ed oggettiva non esiste una netta linea di demarcazione, in quanto la condotta di un giudice può suscitare dubbi oggettivamente giustificati in un osservatore esterno ed al tempo stesso mettere in discussione le convinzioni personali del magistrato nel caso sottoposto al suo giudizio, come evidenzia, tra le altre, C. eur., 15 dicembre 2005, Kyprianou c. Cipro.

[4] Traduzione dell'adagio inglese «justice must not only be done, it must also be seen to be done», frequentemente utilizzato dalla giurisprudenza europea; ex pluribus, C. eur., 26 ottobre 1984, De Cubber c. Belgio.

[5] Così la Corte di cassazione nella sentenza in commento.

[6] La Corte costituzionale parla in merito di «sanzione costituzionale formale» (Corte cost. sent. n. 134 del 2002).

[7] Sul punto, più approfonditamente, Cass., sez. un., 27 gennaio 2011, Tanzi, in Cass. pen., 2011, p. 4210 ss., che in motivazione richiama la giurisprudenza costituzionale e conclude evidenziando che «all'imparzialità-terzietà, in senso oggettivo e soggettivo, e come apparenza altresì di imparzialità, quale requisito essenziale dell'esercizio della funzione giurisdizionale implicito nel sistema delle garanzie costituzionali, deve sin dall'origine intendersi ispirato il codice di rito del 1988 nel delineare tra l'altro gli istituti» dell'astensione e della ricusazione del giudice. 

[8] Così G. Di Chiara, Linee evolutive della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice, in Riv. it. dir. pen. proc., 2000, p. 85 ss.

[9] Così Corte cost., sent. n. 283 del 2000, che evidenzia altresì come «le ragioni del pregiudizio sono infatti oggettivamente identiche sia quando il giudice ha manifestato il proprio convincimento all'interno del medesimo procedimento mediante un atto o l'esercizio di una funzione a cui il legislatore attribuisce astrattamente e preventivamente effetti pregiudicanti, sia quando la valutazione di merito è stata espressa in un diverso procedimento (ovvero nel medesimo procedimento, ma mediante un atto che non presuppone una tale valutazione) e gli effetti pregiudicanti debbano quindi essere accertati in concreto, grazie agli istituti dell'astensione e della ricusazione».

[10] Ad ulteriore riprova, come evidenziato nella sentenza in commento, persino i casi di astensione facoltativa del giudice ex art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p., (le «gravi ragioni di convenienza» atipiche ed innominate) deferiscono al capo dell'Ufficio la valutazione circa l'effettiva sussistenza del temuto pregiudizio per l'imparzialità del giudice.

[11] Ex pluribus, sebbene risalente, Cass., 16 aprile 1997, Andreatta, in Cass. pen., 1999, p. 1183. Si discosta parzialmente dal maggioritario orientamento interpretativo Cass., sez. un., 27 gennaio 2011, Tanzi, cit., che evidenzia come «la collocazione dell'imparzialità-terzietà tra i requisiti fondanti la nozione di giusto processo, comporta quantomeno la necessità di riconoscere che le norme codicistiche deputate a dare in via di normalità attuazione a codesto principio generale e fondamentale non possono ricondursi, con la semplicità di catalogazione che ha sinora contraddistinto le enunciazioni giurisprudenziali, alla categoria delle disposizioni eccezionali».

[12] Così Cass., 15 ottobre 1996, Priebke ed altri, espressamente richiamata dalla sentenza in commento.

[13] Testualmente, Corte cost. sent. n. 307 del 1997, in www.giurcost.org.