ISSN 2039-1676


08 maggio 2014 |

Diffamazione su Facebook: comunicazione con più persone e individuabilità  della vittima

Cass. pen., Sez. I, 22 gennaio 2014 (dep. 16 aprile 2014), n. 16712, Pres. Siotto, Rel. La Posta, P.M. in proc. Sarlo

1. Dopo la sentenza pronunciata il 2 ottobre 2012 dal Tribunale di Livorno (pubblicata in questa Rivista, con nota di Melzi d'Eril, In tema di diffamazione via Facebook - clicca qui per accedervi), di recente anche la Corte di cassazione ha avuto occasione di pronunciarsi in un ambito analogo con la decisione - di risalto mediatico - che qui pubblichiamo (annotata anche da Cuomo, Linea dura della Cassazione per l'insulto in forma anonima su Facebook, in www.ilquotidianogiuridico.it - clicca qui per accedervi). Sottolineiamo sin d'ora che, con la pronuncia in esame, i giudici di legittimità seguono orientamenti consolidati in tema di diffamazione, riaffermando principi già noti: in particolare, la Corte di cassazione ribadisce che in ipotesi di diffamazione via internet sussiste sempre il requisito della comunicazione con più persone; inoltre, in caso di diffamazione in incertam personam, per la sussistenza del reato è sufficiente che la vittima sia identificabile in una cerchia ristretta di persone.

 

2. Questo il caso da cui muove la pronuncia della I sezione penale della Suprema Corte.

Un maresciallo della Guardia di finanza in forza nella Compagnia S. M., pubblicava, sul proprio profilo Facebook, questa frase: "attualmente defenestrato a causa dell'arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo ... ma me ne fotto ... per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie". A seguito di tale fatto, l'autore della pubblicazione veniva condannato dal Tribunale militare di Roma a 3 mesi di reclusione per diffamazione aggravata (verosimilmente, ai sensi dell'art. 595 commi 2 e 3 c.p.), riconoscendosi le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti.

 

3. La Corte militare d'appello, in data 28 novembre 2012, riformava la sentenza assolvendo l'imputato per insussistenza del fatto, in quanto - si legge nella motivazione dei giudici di legittimità - "la identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l'imputato indicato il nome del suo successore, né la funzione di comando, né alcun riferimento cronologico". Oltre a ciò, secondo i giudici di secondo grado, mancherebbe anche la prova del dolo: dolo che, per la Corte d'appello, risiederebbe nell'aver "intenzionalmente comunicato con più persone in grado di individuare in modo univoco il destinatario delle espressioni diffamatorie".

 

4. Contro la sentenza di assoluzione proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale, denunciando una violazione di legge ed un vizio di motivazione. In particolare, il Procuratore osservava che la pubblicazione su internet "di per sé" determina la conoscenza da parte di più persone indipendentemente dalla circostanza che le espressioni diffamatorie siano state lette dagli utenti. Inoltre, nel merito, osservava che l'utilizzo, nel testo pubblicato su facebook, dell'avverbio "attualmente", il riferimento al "collega", la "defenestrazione" per sua causa e la circostanza che fosse sposato, rendevano la vittima riconoscibile.

 

5. Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione accoglie il ricorso. Le considerazioni dei giudici di legittimità, che, come si anticipava, muovono da principi pacifici e consolidati in questa materia, sono fondamentalmente le seguenti: in primo luogo, l'accessibilità del profilo personale di Facebook ad una moltitudine indeterminata di soggetti, con la conseguenza che sussiste la comunicazione con più persone; in secondo luogo, la sufficienza, ai fini del reato di diffamazione, della individuabilità della vittima e della sua riconoscibilità anche solo in una limitata cerchia di persone.

Con particolare riferimento al primo aspetto, ci si limita a rilevare che tutta la più recente giurisprudenza è orientata nel ritenere che allorché una notizia risulti immessa nel circuito internet, la sua diffusione -  e quindi la comunicazione con più persone - deve presumersi fino a prova contraria (in tal senso cfr. Cass. 21.6.2006, n. 25875, CED 234528; Cass. 4.4.2008, n. 16262, CED 239832; Cass. 27.4.2012, n. 23624, CED 252964). Nel caso di specie, inoltre, la Corte di cassazione evidenzia come l'elemento della comunicazione con più persone fosse stato messo a fuoco anche dai giudici di seconda istanza, a suffragio del riconoscimento - in astratto (salvo poi escludere la sussistenza del reato) - della circostanza aggravante dell'utilizzo del mezzo di pubblicità, di cui all'art. 595, co. 3 c.p.: sotto tale aspetto, pertanto, la motivazione risulterebbe anche contraddittoria rispetto alle conclusioni cui perveniva la Corte d'appello in ordine alla asserita "ristretta accessibilità" delle espressioni diffamatorie. Quanto al secondo aspetto - quello per cui, ai fini del reato di diffamazione, basta che la vittima (a prescindere dalla indicazione nominativa) sia individuabile e riconoscibile anche in una limitata cerchia di persone, la Corte di cassazione richiama la pronuncia del 20.12.2010, n. 7410, CED 249601, che consolida un orientamento già formatosi con diverse precedenti decisioni sul tema (cfr. Cass. 28.3.2008, n. 18249, CED 239831; Cass. 7.12.1999, n.  2135, CED 215476).

Affermata, quindi, la sussistenza dei requisiti oggettivi della diffamazione, la Corte ritiene non adeguatamente motivata l'ulteriore asserzione dei giudici di appello, in forza della quale il limitato numero di persone in grado di identificare la vittima attraverso la frase offensiva parlerebbe nel senso dell'insussistenza del dolo. Sul punto, i giudici di legittimità si limitano ad osservare che il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico (in altri termini: non rileva che l'agente abbia perseguito questa o quella particolare finalità), ma è sufficiente la consapevolezza di pubblicare una frase lesiva della reputazione altrui e la volontà che quella frase venga a conoscenza anche solo di due persone (nel senso ora indicato, cfr., tra le più recenti, Cass. 15.7.2010, n. 36602, CED 248431).

Ne consegue l'annullamento della sentenza della Corte militare d'appello, con rinvio ad altra sezione.