ISSN 2039-1676


13 ottobre 2014 |

Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto dal d.l. 92/2014

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1. L'introduzione nell'ordinamento penitenziario, da parte del d.l. 92/2014, conv. con modif. in l. 117/2014, dei nuovi "rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'art. 3 della CEDU (....)"costituisce la risposta diretta del Governo italiano alle sollecitazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa che, in una nota del 5 giugno scorso, aveva dichiarato il suo apprezzamento per le riforme sino a quel momento intraprese ed aveva invitato il nostro Stato a concludere in tempi contenuti il percorso avviato, così da adempiere in modo esaustivo agli obblighi derivanti dalla condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo con la sentenza Torreggiani.

 

2. Volendo sinteticamente ripercorrere la vicenda entro la quale questo ultimo provvedimento governativo si inserisce, occorre ricordare che la sentenza Torreggiani - avendo rilevato il carattere strutturale della violazione dell'art. 3 Cedu da parte dell'Italia, a causa del "grave sovraffollamento" degli istituti penitenziari del nostro sistema - ha pronunciato nel gennaio del 2013 una 'sentenza pilota', per effetto della quale: da un lato, sono stati sospesi tutti i ricorsi dei detenuti italiani aventi ad oggetto il riconoscimento della violazione patita; dall'altro, è stato concesso allo Stato italiano il termine di un anno a partire dal maggio 2013 (termine ora posticipato al giugno 2015, come si legge nella nota del Comitato dei Ministri a cui prima si è fatto riferimento), entro il quale adottare le misure necessarie per porre rimedio alla situazione (cfr. nella colonna di destra i numerosi interventi sul tema pubblicati in questa Rivista).

Oltre alla necessità di predisporre misure strutturali tali da incidere sulle cause del sovraffollamento carcerario, la Corte europea ha sottolineato l'esigenza (e ci ha conseguentemente imposto l'obbligo) di introdurre "un ricorso o una combinazione di ricorsi" che consentano di "riparare le violazioni in atto": degli strumenti cioè attraverso i quali i giudici siano in grado, in primo luogo, di sottrarre con rapidità il detenuto da una situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani (quelli che la Corte denomina rimedi preventivi) e, in secondo luogo, di attribuire un ristoro a chi abbia subito tale violazione (rimedi compensativi) .

 

3. Sotto il profilo dei rimedi preventivi, lo Stato ha risposto alle richieste della sentenza Torreggiani introducendo un'ipotesi di reclamo giurisdizionale al magistrato di sorveglianza per i casi di "attuale e grave pregiudizio" ai diritti dei detenuti, derivante da condotte dell'Amministrazione penitenziaria non conformi alla legge di ordinamento penitenziario o al suo regolamento attuativo (artt. 69 co. 6 lett. b) e 35 bis o.p.). Per mezzo di tale reclamo, il magistrato di sorveglianza - accertato che le condizioni detentive in cui si trova il detenuto sono tali da determinare un pregiudizio attuale e grave ai suoi diritti - può ordinare all'Amministrazione penitenziaria di "porre rimedio" alla situazione[1].

 

4. Fino all'introduzione dell'art. 35 ter o.p., di cui a breve parleremo, il nostro ordinamento era invece totalmente sprovvisto di rimedi compensativi specifici per risarcire i pregiudizi subiti dai detenuti a causa delle condizioni detentive inumane e degradanti in cui si erano trovati. Come si ricorderà la Corte di cassazione, con la sentenza 4772/2013 (pubblicata in questa Rivista, con commento di F. Viganò, Alla ricerca di un rimedio risarcitorio per il danno da sovraffollamento carcerario: la Cassazione esclude la competenza del magistrato di sorveglianza), aveva definitivamente negato la sussistenza, in capo al magistrato di sorveglianza, di un potere di condanna al risarcimento dei danni subiti dai detenuti in conseguenza del sovraffollamento (potere che era stato in precedenza riconosciuto da qualche isolata pronuncia della magistratura di sorveglianza) ed aveva conseguentemente affermato che, in assenza di specifiche disposizioni legislative, la materia risarcitoria doveva considerarsi riservata alla competenza del giudice civile. Una soluzione che non si palesava come particolarmente soddisfacente, considerati i tempi lunghissimi dell'azione risarcitoria nella giustizia civile.

 

5. Né può considerarsi un rimedio di carattere compensativo la liberazione anticipata speciale, misura emergenziale introdotta nell'ordinamento dall'art. 4 d.l. 146/2013, che consente al condannato che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione di usufruire di una detrazione di pena di 75 giorni di detrazione ogni semestre di pena scontata (maggiore dunque rispetto ai 45 giorni di detrazione per semestre propri della liberazione anticipata ordinaria, di cui all'art. 54 o.p.)[2]. Secondo quanto sostenuto dal Governo nella Relazione introduttiva al d.l. 146/2013, il carattere retroattivo della liberazione anticipata speciale (che, come si ricorderà, opera a partire dal 1 gennaio 2010, garantendo ai condannati che abbiano già usufruito della liberazione anticipata ordinaria un 'ragguaglio' di 30 giorni per semestre) si spiegherebbe proprio con la volontà di attribuire al rimedio la funzione di riparare, in via risarcitoria, le violazioni subite dai detenuti in conseguenza della situazione di sovraffollamento carcerario: una riparazione non monetaria, ma in forma per così dire specifica, consistente appunto nella riduzione della pena da eseguire. L'attribuzione di un carattere compensativo alla liberazione anticipata speciale però non convince per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché, essendo una misura a carattere premiale, di essa beneficiano solamente i condannati 'meritevoli', con esclusione quindi di tutti gli altri soggetti (condannati 'non meritevoli', imputati ed internati) che pure possono aver subito un grave pregiudizio ai propri diritti in conseguenza del sovraffollamento. In secondo luogo, perché essendo la sua applicazione del tutto indipendente dalle condizioni detentive in cui si trova il condannato, potrebbe indirizzarsi anche a soggetti che non hanno maturato alcun tipo di danno risarcibile.

 

6. Alla luce di ciò, non può che convenirsi sul fatto che con il d.l. 92/2014 - convertito, senza modifiche sul punto, dalla l. 117/2014 - il Governo ha di fatto colmato una lacuna, introducendo nell'ordinamento penitenziario l'art. 35 ter, che disciplina due tipologie di rimedi specificamente diretti a riparare il pregiudizio derivante a detenuti ed internati da condizioni detentive contrarie all'art. 3 CEDU.

Il primo dei due rimedi (disciplinato nei commi 1 e 2 dell'art. 35 ter o.p.) è destinato ai detenuti e agli internati che stiano subendo un pregiudizio grave ed attuale ai propri diritti, in conseguenza delle condizioni detentive in cui si trovano. Costoro possono rivolgersi al magistrato di sorveglianza, al fine di ottenere una riparazione in forma specifica, consistente in uno 'sconto' della pena ancora da espiare pari ad 1 giorno ogni 10 di pregiudizio subito o, in alternativa - nel caso in cui il pregiudizio sia stato inferiore ai 15 giorni o nel caso in cui lo 'sconto' sia maggiore del residuo di pena - un risarcimento in forma monetaria, pari a 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

Il secondo rimedio (disciplinato nel comma 3 dell'art. 35 ter o.p.) si rivolge a coloro che abbiano finito di scontare la pena detentiva o abbiano subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare. In questo caso, i soggetti possono rivolgersi entro sei mesi dalla cessazione della pena detentiva o della custodia cautelare al tribunale civile, al fine di ottenere un risarcimento in forma monetaria, sempre nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

 

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7. Prima di passare all'esame di dettaglio della nuova disciplina, ci sembra necessario provare a sviluppare alcune riflessioni di carattere per così dire generale. Una prima questione su cui occorre riflettere è se il d.l. 92/2014 abbia creato ex novo una nuova figura di illecito civile, in precedenza inesistente nell'ordinamento italiano. Sul punto ci sembra di poter tranquillamente affermare che la nuova normativa non ha introdotto nell'ordinamento un nuovo illecito civile, poiché, già prima, la violazione del diritto ad una detenzione conforme all'art. 3 Cedu costituiva un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c. Ciò si desume dal fatto che l'art. 3 Cedu è divenuto un 'diritto' rilevante nel nostro ordinamento a far data dalla l. 848/1955, che ha ratificato e reso esecutiva in Italia la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Ciò, del resto, è stato espressamente riconosciuto dalla Corte di cassazione nella già citata sentenza 4772/2013 che, nel negare una competenza risarcitoria in capo alla magistratura di sorveglianza, ha contestualmente affermato la risarcibilità di quella lesione da parte del giudice civile. Se così è, se ne deve dunque dedurre che il d.l. 92/2014 ha solamente introdotto una nuova disciplina per il risarcimento di questo specifico danno: una disciplina che, in quanto lex specialis, viene a sostituirsi alla ordinaria disciplina civilistica in tema di risarcimento del danno.

Come si avrà modo di dire meglio in seguito, i profili di specialità della nuova disciplina sono peraltro estremamente significativi e riguardano, innanzitutto, la competenza a decidere sull'azione risarcitoria: la nuova normativa prevede, infatti, che laddove la richiesta risarcitoria provenga da soggetti che siano detenuti o internati, la competenza spetti al magistrato di sorveglianza, chiamato a decidere con le forme del reclamo giurisdizionale ex art. 35 bis o.p. L'individuazione del magistrato di sorveglianza come giudice competente sul risarcimento dei detenuti - che costituisce una vistosa deroga alla regola generale che vuole attribuito al giudice civile la competenza in materia risarcitoria - trova una ragionevole spiegazione non solo nel fatto che il magistrato di sorveglianza può considerarsi il giudice naturale dei diritti dei detenuti, ma anche in considerazione del particolare contenuto del risarcimento riservato a chi è ancora in stato detentivo, consistente nella detrazione di un numero di giorni di pena proporzionale alla durata del pregiudizio subito. Quando invece la richiesta provenga da soggetti in stato di libertà, la competenza spetta come d'ordinario al tribunale civile: in questo caso, però, la specialità investe il tipo di giudizio, essendo previsto l'utilizzo del particolare procedimento disciplinato nell'art. 737 c.p.c.

Un altro rilevante profilo di specialità riguarda poi il contenuto del risarcimento: come già si è accennato, qualora l'azione sia esercitata da un detenuto o da un internato la compensazione avviene in forma per così dire 'specifica', consistendo nella riduzione della pena residua da espiare nella misura di 1 giorno ogni 10 di pregiudizio subito. Diversamente, il ristoro è in forma monetaria - nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito - qualora la richiesta provenga da soggetti che sono in libertà o che non abbiano un  residuo di pena da scontare sufficiente per operare la detrazione.

 

8. Una seconda riflessione preliminare che si rende necessaria è relativa al profilo temporale di applicazione della nuova disciplina, al fine di fare chiarezza sul dies a quo delle pretese azionabili. Per affrontare tale problematica occorre innanzitutto procedere ad una lettura combinata del nuovo art. 35 ter o.p. (contenuto nell'art. 1 d.l. 92/2014) con le disposizioni transitorie, contenute nei due commi dell'art. 2 del d.l.

Secondo quanto ci pare di poter intendere da un testo normativo non sempre piano e per alcuni profili lacunosi, il legislatore ha inteso riservare l'applicazione dell'art. 35 ter o.p. al risarcimento dei pregiudizi - attuali (commi 1 e 2) o non più attuali al momento della domanda (comma 3) - prodottisi successivamente all'entrata in vigore del decreto legge (non modificato sul punto, come si è già osservato, dalla legge di conversione): ossia al 28 giugno 2014. Ciò si ricava, ci pare, dall'applicazione del principio contenuto nell'art. 11 delle Preleggi, secondo cui una nuova norma deve applicarsi, di regola, ai fatti che si realizzano dopo la sua entrata in vigore.  

Le norme transitorie, invece, ci paiono destinate - in deroga all'art. 11 Preleggi - a regolare l'applicazione della nuova disciplina ai fatti pregressi, dovendosi intendere come tali i pregiudizi che si sono verificati prima del 28 giugno 2014. Che la disciplina transitoria abbia ad oggetto fatti pregressi, nell'accezione ora precisata, si ricava in effetti dalla lettera della legge: il comma 1, da un lato, consente l'utilizzabilità del rimedio di cui all'art. 35 ter co. 3, entro un termine di decadenza di sei mesi, a soggetti che non risultano essere più detenuti o internati al momento dell'entrata in vigore del decreto (e che pertanto, necessariamente, lamentano un danno verificatosi prima del 28 giugno); il comma 2, dall'altro, consente l'utilizzabilità del rimedio di cui all'art. 35 ter co. 1 e 2, anche in questo caso entro un termine di decadenza di sei mesi, ai detenuti e gli internati che abbiano presentato ricorso alla Corte EDU prima dell'entrata in vigore del decreto legge (e che pertanto, anche in questo caso, lamentano un pregiudizio subito prima del 28 giugno).

Come avremo modo di chiarire meglio in seguito, è evidente lo scopo avuto di mira dal legislatore nel porre tali disposizioni transitorie: quello di sgravare la Corte di Strasburgo dai ricorsi già pendenti e da quelli che ancora le potrebbero essere sottoposti per violazioni pregresse, entro il termine semestrale di cui all'art. 35 Cedu, in ragione delle condizioni detentive subite.

 

9. Un'ultima riflessione preliminare riguarda il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria disciplinata dal decreto legge in esame. Come è ovvio, per i profili non espressamente disciplinati dalla lex specialis, si dovrà dare applicazione alla disciplina risarcitoria 'ordinaria', quella cioè contenuta nel codice civile: e dunque, rispetto alla prescrizione, dovrà ritenersi operante il termine quinquiennale di cui all'art. 2947 c.c., che decorre dalla data della verificazione del fatto illecito produttivo del danno. Tale termine opererà - ci pare - con riferimento tanto ai pregiudizi realizzatisi successivamente al 28 giugno 2014 (e disciplinati quindi dall'art. 35 ter o.p., come modificato dall'art. 1 del decreto legge), quanto ai pregiudizi 'pregressi',  realizzatisi cioè precedentemente a questa data (e disciplinati quindi dall'art. 2 del dereto legge). 

In particolare, con riferimento ai pregiudizi pregressi, ciò significa che la nuova normativa non consentirà di 'riaprire' la porta al risarcimento di danni che si siano già prescritti ex art. 2947 c.c. Sequindi, ad esempio, il soggetto - detenuto o libero che sia - abbia esercitato la sua azione il 1 ottobre 2014, egli non potrà sperare di ottenere, in applicazione della nuova disciplina, il risarcimento di danni che si siano verificati prima del 1 ottobre 2009. L'individuazione di un dies a quo non troppo risalente nel tempo appare del resto ragionevole, dal momento che quanto più risalente è il danno lamentato, tanto più difficoltoso sarà l'accertamento da compiere in sede istruttoria sulle effettive condizioni delle detenzione. 

 

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10. Venendo finalmente all'esame della disciplina dei vari rimedi contemplati nel d.l. 92/2014, fermiamo in primo luogo l'attenzione sul presupposto comune che ne consente l'attivazione. Secondo quanto previsto nel comma 1 dell'art. 35 ter o.p., i rimedi operano nel caso di pregiudizio consistente in condizioni di detenzione tali da violare l'articolo 3 della Convenzione (...), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo". 

Appare innanzitutto degno di menzione che il legislatore, nell'individuare il parametro cui riferirsi per valutare la sussistenza del pregiudizio, abbia fatto esplicito riferimento alla giurisprudenza della Corte europea, dando così espresso riconoscimento al principio secondo cui il nostro ordinamento deve ritenersi vincolato dalle norme convenzionali, nell'interpretazione che di queste abbia fornito la Corte europea dei diritti dell'uomo.

E' oramai a tutti noto che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte europea, il sovraffollamento carcerario genera un'automatica violazione dell'art. 3 Cedu allorquando il detenuto disponga di uno spazio individuale inferiore a 3 m2.

Qualora invece lo spazio a disposizione del detenuto oscilli tra i 3 e i 4 m2 si avrà violazione dell'art. 3 Cedu in presenza di altre situazioni che influiscono negativamente sulla qualità della vita all'interno del carcere, quali ad esempio l'aerazione disponibile, l'accesso alla luce e all'aria naturali, la qualità del riscaldamento, il rispetto delle esigenze sanitarie di base, la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici[3].

Ci pare però che il riferimento ampio che l'art. 35 ter fa alle "condizioni di detenzione tali da violare l'art. 3 della Convenzione" consenta di ritenere utilizzabili i nuovi rimedi risarcitori ogniqualvolta il detenuto abbia subito una detenzione che la Corte europea considera in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti, indipendentemente dalla causa che abbia generato una tale situazione e a prescindere pertanto dalla condizione di sovraffollamento carcerario.  

Accogliendo tale lettura, il rimedio risarcitorio potrebbe essere attivato, a titolo di esempio, nel caso di mantenimento in carcere di soggetti in condizioni di salute incompatibili con la detenzione (cfr., per limitarci alle condanne che hanno riguardo il nostro ordinamento, C. eur. dir. uomo, II sez., 17 luglio 2012, Scoppola c. italia, pubblicata in questa Rivista, con scheda di F. Mazzacuva o, più di recente, C. eur. dir. uomo, sez. II, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia). Oppure ancora il rimedio potrebbe essere utilizzato nel caso di mancata predisposizione di cure mediche all'interno del carcere (cfr., ad esempio, C. eur. dir. uomo, II sez., 22 aprile 2014, G. C. c. Italia, relativa ad un caso di mancata predisposizione delle cure necessarie e di mancata collocazione in cella singola nei confronti di un detenuto che soffriva di una grave forma di incontinenza, con conseguente esposizione della persona ad un grave stato di angoscia ed umiliazione).  Il riferimento diretto che la norma fa alla giurisprudenza della Corte edu rende scontata la considerazione che, ai fini di una piena valorizzazione del nuovo strumento di tutela, diviene imprescindibile l'attento e costante monitoraggio delle sentenze della Corte europea, da parte dell'interprete.

 

11. Venendo ora, in particolare, all'esame dei rimedi esperibili davanti al magistrato di sorveglianza di cui ai commi 1 e 2, occorre innanzitutto chiarire quali siano i soggetti legittimati ad agire. Menzionando esclusivamente il "detenuto", la disposizione parrebbe escludere l'internato dall'ambito operativo del rimedio: nel linguaggio della legge di ordinamento penitenziario, infatti, il termine 'detenuto' è utilizzato per fare riferimento all'imputato e al condannato in stato di privazione della libertà personale, non invece al soggetto in esecuzione di una misura di sicurezza, il quale è appellato appunto con il termine di 'internato'.

Ci sembra però che un'interpretazione così aderente al dato letterale debba essere respinta, in quanto contrastante con la lettura del testo normativo nel suo complesso. Occorre pertanto procedere ad un'interpretazione sistematica, prendendo in considerazione, da un lato, la rubrica dell'art. 35 ter, che fa riferimento ai "soggetti detenuti ed internati" e, dall'altro, l'art. 2 del d.l. 92/2014, dedicato alle disposizioni transitorie, nel quale si legge che il rimedio è esperibile anche dai detenuti e dagli internati che abbiano già presentato ricorso alla Corte europea. Ci sembra dunque plausibile ritenere che la mancata menzione dell'internato nel comma 1 sia il frutto di una mera dimenticanza e che si possa pacificamente giungere alla conclusione per la quale i nuovi rimedi risarcitori sono diretti a tutti i soggetti che reclamino un danno derivante dall'essere stati detenuti in condizioni contrarie all'art. 3 Cedu, indipendentemente dalla posizione giuridica di imputati, condannati o internati.

 

12. Sempre in relazione all'individuazione dell'ambito operativo dei rimedi di cui ai commi 1 e 2, premesso che - come si è anticipato nei paragrafi precedenti - riteniamo che la norma operi in relazione ai pregiudizi successivi al 28 giugno 2014 (ossia all'entrata in vigore del d.l.), occorre osservare che il richiamo al "pregiudizio di cui all'art. 69 co. 6 lett. b) o.p." - ossia ad un "pregiudizio attuale e grave all'esercizio dei diritti dei detenuti e degli internati" - sembra legittimare all'azione risarcitoria solamente coloro che stanno subendo condizioni detentive inumane o degradanti al momento della richiesta di accertamento.

Il riferimento all'art. 69 co. 6 lett. b) o.p. - ossia alla norma che individua i casi nei quali può farsi luogo al rimedio preventivo attraverso il reclamo giurisdizionale di cui all'art. 35 bis o.p. - rende in effetti manifesto che, nell'intento legislativo, l'azione risarcitoria non è concepita come un rimedio autonomo, ma come un ulteriore strumento di tutela da attivare contestualmente al rimedio preventivo, nell'ambito del reclamo giurisdizionale. In altri termini, la situazione presa in considerazione dal legislatore è quella del detenuto che, trovandosi in una condizione detentiva contraria all'art. 3 Cedu, si rivolga al magistrato di sorveglianza, al fine di ottenere contestualmente una tutela preventiva ed una tutela compensativa. Sotto il profilo della tutela preventiva, il detenuto mira ad ottenere una pronuncia che condanni l'Amministrazione penitenziaria a ripristinare la legalità della detenzione; sotto il profilo della tutela risarcitoria, invece, il detenuto mira ad ottenere una riduzione della pena da espiare o, in via subordinata, un ristoro in forma monetaria. L'azione risarcitoria sarà invece esercitata in forma autonoma nei casi di cui al comma 3 che, come vedremo, riguarda situazioni in cui il pregiudizio oramai si è esaurito, essendo uno strumento rivolto a soggetti che hanno riconquistato lo status di libero.

 

13. Come risulta evidente già da una prima lettura, la disposizione in parola - l'unica dedicata ai detenuti e agli internati (il comma 3, infatti, si riferisce unicamente a soggetti in stato di libertà) - omette dunque di prendere in considerazione la situazione di coloro che, pur essendo detenuti o internati nel momento in cui esercitano l'azione risarcitoria, lamentano un  pregiudizio derivante da condizioni detentive non più attuali (e pur sempre, però, successive al 28 giugno).

Al fine di evitare una  censura di incostituzionalità della disciplina, derivante da una discriminazione irragionevole ai sensi dell'art. 3 Cost., riterremmo qui plausibile un'interpretazione analogica, che consenta anche a tale categoria di soggetti di usufruire del nuovo rimedio risarcitorio, nelle forme del reclamo al magistrato di sorveglianza di cui all'art. 35 ter o.p.

 

14. Soffermandoci ora sul tipo di ristoro approntato dall'ordinamento, dalla lettura dei commi 1 e 2 si ricava che esso varia a seconda della durata del pregiudizio subito. Nel caso in cui le condizioni inumane o degradanti si siano protratte per più di 15 giorni, il magistrato di sorveglianza dispone la riduzione della pena ancora da espiare, nella misura di un giorno ogni 10 giorni di pregiudizio subito.

Nel caso, invece, in cui la detenzione in contrasto con l'art. 3 Cedu abbia avuto una durata inferiore ai 15 giorni, il magistrato dovrà liquidare una somma pari a 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

Il magistrato procederà al risarcimento in forma monetaria, sempre nella misura di 8 euro per ogni giorno di danno subito, anche nel caso in cui - pur essendosi protratto il pregiudizio per più di 15 giorni - il periodo di pena da scontare che residua in capo al detenuto non sia sufficientemente lungo da consentire la detrazione di tutti i giorni di pena 'scontata'.

Infine, in via interpretativa, ci pare di poter ritenere che il risarcimento in forma monetaria potrà combinarsi con le detrazioni di pena, nei casi in cui la durata del pregiudizio - superiore a 15 giorni - sia pari ad una frazione di 10. Così, ad esempio, nel caso di  detenzione inumana o degradante pari a 18 giorni, il detenuto (o l'internato) avrà diritto alla detrazione di un giorno di pena detentiva e ad un risarcimento pari a 64 euro (8 giorni x 8 euro); nel caso di detenzione inumana o degradante pari a 23 giorni, dovranno essere detratti 2 giorni di pena e dovrà essere calcolato un risarcimento di 24 euro (3 giorni x 8 euro).  

 

15. Chiaro che, nel disegno del legislatore, la forma principale di ristoro è rappresentata dalla riduzione della durata della pena. Tale rimedio ha un significato importante ed immediatamente percepibile, poiché rappresenta il tentativo di risarcire in forma per così dire specifica il danno derivante dal surplus di sofferenza generato da condizioni detentive inumane e degradanti.

Quanto all'idoneità di tale tipo di ristoro a soddisfare le richieste provenienti da Strasburgo, si può senz'altro ritenere che il Consiglio d'Europa lo valuti come uno strumento riparativo adeguato. Ciò si desume, innanzitutto, dalla giurisprudenza della Corte europea che, proprio in una sentenza relativa ad un caso di sovraffollamento carcerario, ha espressamente affermato che "a mitigation of sentence may under certain conditions be a form of compensation afforded to defendants in connection with violations of the Convention that occurred in the criminal proceedings against them" (cfr. C. edu, sez. I, 10 gennaio 2012, Ananyev c. Russia, § 222).

A conferma del 'gradimento' di tale tipo di rimedio da parte del Consiglio d'Europa, può anche aggiungersi che nella già citata nota del 5 giugno, nella quale si prende atto dei progressi compiuti dallo Stato italiano, rinviando al prossimo giugno la verifica definitiva dell'adempimento degli obblighi imposti con la sentenza Torreggiani, il Comitato dei Ministri afferma di aver accolto positivamente la notizia dell'imminente introduzione (che sarebbe poi avvenuta con il del d.l. 92/2014) di un rimedio risarcitorio fondato in via principale sulla riduzione della pena.

 

16. Passando ora ad esaminare i profili processuali, la mancanza di una disciplina specifica nei commi 1 e 2 dell'art. 35 ter si spiega con la considerazione che, come si è sottolineato in precedenza, il rimedio  è strettamente connesso al reclamo giurisdizionale dell'art. 35 bis o.p., nel quale esso è destinato naturalmente ad inserirsi, ed alla cui disciplina occorre quindi rifarsi. Rimandando dunque all'esame di quella disposizione per un'analisi di dettaglio[4], possiamo limitarci in questa sede ad enucleare gli aspetti più significativi di quel procedimento che, come noto, segue le regole del procedimento di sorveglianza ex artt. 666-678 c.p.p., con alcuni profili di specialità.

A questo proposito, occorre innanzitutto evidenziare che il procedimento in esame prevede una fase preliminare di valutazione dell'ammissibilità dell'istanza, a seguito della quale dovranno essere dichiarati inammissibili, ad esempio, i reclami che siano proposti al magistrato di sorveglianza da soggetti in libertà.  

Un altro profilo sul quale occorre fermare l'attenzione è la previsione del diritto dell'Amministrazione penitenziaria a partecipare all'udienza: presenza quanto mai necessaria, essendo nella sua sola disponibilità la documentazione necessaria ad accertare le condizioni detentive oggetto del giudizio.

La mancata indicazione di un termine di decadenza entro il quale proporre la domanda, si spiega in considerazione dell'attualità del pregiudizio al momento della domanda: fintantoché il pregiudizio perdura il detenuto è in termini per proporre il reclamo al magistrato (sempre salvo, però, il decorso del termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 2947 c.c.).

Quanto poi ai mezzi di impugnazione, dall'art. 35 bis co. 4 si evince la possibilità di proporre reclamo al tribunale di sorveglianza contro l'ordinanza del magistrato di sorveglianza, nel termine di 15 giorni dalla notificazione del deposito della stessa. L'ordinanza del tribunale può poi essere oggetto di ricorso in Cassazione, sempre nel termine di 15 giorni. Sull'opportunità dei tre gradi di giudizi ribadiamo le stesse perplessità, che avevamo già espresso analizzando la disciplina del rimedio preventivo[5]: il timore è che la complessità e i tempi lunghi del procedimento possano compromettere l'effettività della tutela e più in generale possano portare al collasso il sistema già sovraccarico della giustizia di sorveglianza.    

 

17. Passiamo ora all'esame dell'altro rimedio introdotto con il d.l. 92/2014, quello disciplinato nel comma 3 dell'art. 35 ter e diretto a "coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1 in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere". Destinatari di tale strumento sono dunque coloro che hanno subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare a cui non è seguita la condanna a pena detentiva, come nel caso, ad esempio, di soggetti che all'esito del processo siano stati assolti. Il rimedio è poi diretto a soggetti che abbiano terminato il periodo di espiazione della pena detentiva o della misura di sicurezza e solo successivamente si siano determinati  a chiedere il risarcimento per il danno patito o, ancora, a soggetti che sono ammessi ad espiare la pena in forma extramuraria, perché ad esempio beneficiari di una misura alternativa.

Al fine di delimitare l'area operativa della disposizione in esame, occorre precisare che - secondo quanto si desume dal confronto con l'art. 2 del d.l. 92/2014 (diretto ai soggetti che "alla data di entrata in vigore del presente decreto legge hanno cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere") - i destinatari del rimedio disciplinato nel co. 3 sono i soggetti che al momento dell'entrata in vigore del decreto legge non avevano ancora cessato di espiare la pena detentiva o la custodia cautelare, ma che si sono determinati ad esercitare l'azione risarcitoria solo una volta recuperato lo status di liberi. E' bene però ricordare che, stando alla nostra lettura, si tratta comunque di un rimedio utilizzabile soltanto per pregiudizi verificatisi successivamente all'entrata in vigore della legge, ossia al 28 giugno 2014.

In queste ipotesi, è competente il tribunale del capoluogo del distretto ove i soggetti hanno residenza. Secondo quanto previsto dalla norma, il tribunale decide in forma monocratica, secondo le forme del  procedimento definito negli artt. 737 ss. del c.c., ossia un rito semplificato, che si svolge in camera di consiglio e che si conclude con un decreto non soggetto a impugnazione (ma pur sempre, ovviamente, ricorribile in cassazione ex art. 111 Cost.).

Senza addentrarci nella disciplina di tale procedimento, che interessa il giudice civile, ci basti in questa sede osservare che, in base a quanto stabilito dal comma 3, il risarcimento - che in questo caso è esclusivamente monetario (e diversamente non potrebbe essere, dal momento che i ricorrenti sono soggetti in stato di libertà) - è liquidato dal tribunale nella misura prevista dal comma 2: ossia nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

A differenza di quanto previsto nel comma 1, per queste ipotesi è previsto un termine di decadenza: il soggetto deve infatti proporre l'azione entro 6 mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. La ragione per la quale il termine di decadenza decorre dalla riacquisizione dello stato di libertà si spiega forse in considerazione delle difficoltà di informazione e di azione che può derivare dallo stato di privazione della libertà personale.

 

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18. Da ultimo, occorre prendere in esame le disposizioni transitorie contenute nell'art. 2 del d.l. 92/2014, disposizioni che regolano l'efficacia retroattiva della norma, consentendo l'utilizzabilità dei rimedi in essa prevista anche per il risarcimento di danni verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore. Come si è già osservato, la disciplina transitoria appare essenzialmente funzionale all'obiettivo di sgravare la Corte europea dai numerosissimi ricorsi (già pendenti o ancora proponibili) di coloro che hanno subito condizioni detentive contrarie all'art. 3 Cedu in un istituto penitenziario italiano.

In particolare, il comma 1 prevede l'utilizzabilità del rimedio risarcitorio di cui al comma 3 nei confronti di chi abbia cessato di espiare la pena detentiva o non si trovi più in stato di custodia cautelare, nel momento dell'entrata in vigore del decreto legge.

Rivolgendosi a soggetti che non sono più detenuti al momento dell'entrata in vigore del decreto,la norma fa riferimento evidentemente a fatti pregressi, ossia a pregiudizi che sono maturati prima dell'entrata in vigore del decreto legge. La fruibilità del rimedio speciale, più vantaggioso rispetto all'azione risarcitoria ordinaria per lo meno sotto il profilo dei tempi di definizione, è subordinata alla previsione di un rigoroso termine di decadenza (che non a caso coincide con il termine per proporre ricorso alla Corte europea): l'azione di cui all'art. 35 ter co. 3 deve essere infatti esercitata entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto legge, non oltre pertanto il 28 dicembre 2014.

Come già osservato, inoltre, la mancata previsione di un termine di prescrizione 'speciale', e la conseguente operatività del termine di prescrizione ordinario ex art. 2947 c.c., ci porta a ritenere che non possa essere comunque chiesto il risarcimento per danni conseguenti alla detenzione inumana che si siano verificati più di cinque anni fa.

 

19. L'art. 2 del d.l. 92/2014, al comma 2, contiene poi un'ulteriore disposizione transitoria, che ha la funzione di consentire l'esperibilità del rimedio ex art. 35 ter ai detenuti e agli internati che avevano già presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo all'atto dell'entrata in vigore del decreto legge, sempre che non sia nel frattempo intervenuta una decisione sulla ricevibilità del ricorso da parte della Corte stessa. Tale previsione, che ricalca l'art. 6 della legge 89/2001 (c.d. legge Pinto, in materia di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo), ha evidentemente lo scopo di alleggerire il carico della Corte di Strasburgo e sembra costituire una risposta diretta all'affermazione contenuta nella sentenza Torreggiani secondo cui "la Corte si riserva la facoltà, in qualsiasi momento, di dichiarare irricevibile una causa di questo tipo o di cancellarla dal ruolo in seguito ad un accordo amichevole tra le parti o ad una composizione della controversia con altri mezzi".  Come nel comma 1, anche in questo caso è previsto un breve termine di decadenza, che è di 6 mesi dall'entrata in vigore del decreto legge (quindi fino al 28 dicembre 2014).

A conferma del fatto che la Corte europea vede di buon occhio la possibilità di 'liberarsi' dei ricorsi pendenti, dirottando i ricorrenti sui nuovi rimedi interni adottati dal nostro ordinamento si considerino due recenti decisioni (Stella e al. c. Italia e Rexhepi c. Italia), con le quali i ricorsi di alcuni detenuti italiani (in tutto circa una ventina) sono stati dichiarati irricevibili per mancato esaurimento dei rimedi interni, nonostante che la proposizione degli stessi sia stata antecedente all'introduzione dei rimedi preventivi e compensativi ex artt. 69 co. 6 lett. b), 35 bis e ter o.p.

La valutazione positiva dei nuovi rimedi preventivi e compensativi introdotti dallo Stato italiano, che ad un primo esame, secondo quanto ha affermato la Corte, sembrerebbero idonei a garantire il rispetto dell'art. 3 Cedu[6], nonché la considerazione della enorme quantità dei ricorsi dei detenuti italiani pendenti (circa 3.500) sono presumibilmente le ragioni che spiegano il revirement nella stessa giurisprudenza della Corte EDU sull'interpretazione del termine di decadenza di cui all'art. 35 Cedu (fino a questo momento, il requisito del previo esaurimento delle vie di ricorso interno era infatti valutato con riferimento al momento della presentazione del ricorso). La Corte, nel ritenere sussistente un obbligo in capo ai ricorrenti di esperire prima  i nuovi rimedi interni (litigants complaining of the overcrowding in Italian prisons were under an obligation to use them), ha preannunciato che manterrà l'orientamento espresso in questa decisione in tutti gli altri ricorsi pendenti aventi il medesimo oggetto, affermando però al contempo che tale decisione non preclude un futuro ricorso alla Corte, qualora i nuovi rimedi non si rivelino adeguati.

 

20. La disposizione transitoria esaminata contiene infine una macroscopica lacuna, non avendo preso in considerazione la situazione di coloro che, ancora detenuti o internati al momento dell'entrata in vigore del decreto legge, lamentino un pregiudizio relativo a condizioni detentive pregresse (antecedenti cioè al 28 giugno 2014) e non abbiamo però presentato ricorso alla Corte europea.

Come già per la lacuna relativa all'art. 35 ter o.p., anche in questo caso - al fine di evitare un altrimenti inevitabile contrasto con l'art. 3 Cost. - ci pare plausibile un'interpretazione analogica dell'art. 2 comma 2 del d.l., volta a consentire l'esperibilità del rimedio di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 35 ter o.p., entro un termine di decadenza di 6 mesi dall'entrata in vigore del d.l. e fermo restando il limite di prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c.

 

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21. Qualche veloce riflessione conclusiva. Se le soluzioni adottate dal Governo ci paiono adeguate allo scopo di adempiere agli obblighi impostici dalla Corte europea - e le recenti sentenze che abbiamo prima citato parrebbero costituire un segnale del fatto che il bersaglio ha colpito nel centro - il testo normativo approvato ci è apparso di assai difficile lettura, per la sua struttura non proprio lineare e per la suaevidente lacunosità.

Entrando poi nel merito delle soluzioni proposte, se da un canto ci pare sicuramente lodevole la scelta di puntare, in via prioritaria, su di un risarcimento 'in forma specifica', consistente cioè nello sconto della pena ancora da scontare, dall'altro però residuano però alcune perplessità in merito alla rigidità del criterio di quantificazione del risarcimento del danno, sia con riferimento alla determinazione dei giorni di pena da scontare, sia all'entità del ristoro monetario: come si evince dalla lettura dei commi 1 e 2, l'unico parametro di cui può avvalersi il giudice per definire il quantum del ristoro è la durata in giorni del pregiudizio, senza che possano essere presi in alcuna considerazione altri parametri che invece, nella realtà, incidono significativamente sull'entità della lesione (si pensi ad esempio alle considerazione dello stato di salute psico-fisico del detenuto, piuttosto che al numero di ore nel quale è costretto a stare all'interno della cella). Sotto questo profilo, la norma sembrerebbe dunque esporsi ad una censura di incostituzionalità per contrasto con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.[7]

Ancora, ci si può interrogare sulla adeguatezza dell'entità del ristoro, sia di quello in forma specifica, che di quello per equivalente. Quanto al primo, la detrazione di un giorno ogni 10 di pregiudizio patito potrebbe forse considerarsi eccessivamente modesta, se parametrata allo sconto di pena derivante dall'applicazione della liberazione anticipata ordinaria o, ancor di più, della liberazione anticipata speciale (la detrazione di 75 giorni ogni 6 mesi equivale, infatti, ad una detrazione di ben 4 giorni di pena ogni 10 di pregiudizio patito). In questo senso si era espresso il Documento conclusivo della Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario che, nel suggerire alcune indicazioni in ordine all'auspicata introduzione di un rimedio compensativo, ipotizzava un meccanismo di riduzione della pena residua, il cui coefficiente di "sconto" si sarebbe potuto calcolare sulla falsariga di quanto previsto per la liberazione anticipata (il riferimento era allora alla liberazione ordinaria ex art. 54 o.p., non essendo ancora stata introdotta quella speciale).

Analogamente, si potrebbe riflettere sulla adeguatezza dell'entità del risarcimento monetario, effettivamente molto esiguo, specie se messo a confronto con l'art. 135 c.p. che, nell'individuare un generale coefficiente di equivalenza tra pena detentiva e pena pecuniaria, prevede che "quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva".

Le perplessità circa l'esiguità della misura del risarcimento aumentano qualora si consideri che il procedimento ex art. 737 c.p.c. davanti al giudice civile ha un costo (secondo quanto disposto dall'art. 13 d.P.R. 115/2002, così come modificato dal d.l. 94/2014, il costo del Contributo Unificato per i procedimenti speciali di cui al Libro VI, tit. II, capo VI del codice civile è di 98 euro): ciò che potrebbe indurre in molti casi il detenuto a desistere, in considerazione della modesta entità del risarcimento che potrebbe ricavarne.

 


[1] Su tale rimedio e su alcune considerazioni critiche circa l'adeguatezza dello stesso a garantire l'immediata cessazione delle violazioni in atto sia consentito rinviare a A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale, 2014, Giappichelli, p. 137 ss.

[2] In questo senso cfr. anche le considerazioni di P. Bronzo, Problemi della liberazione anticipata speciale, in Arch. pen. 2/2014, p. 626 ss.

[3] Per un'approfondita ricognizione di tale giurisprudenza, che ha trovato applicazione in Italia nei famosi casi Sulejmanovic e Torreggiani, cfr. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 1/2011, p. 236 ss.; Id., La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), Riv. trim. 3-4/2012, p. 222 ss.

[4] Cfr. A. Della Bella, Emergenza carceri, cit., p. 140 ss.

[5] Sia consentito rinviare ancora, sul punto, a A. Della Bella, Emergenza carceri, cit., p. 143 ss.

[6] In realtà la Corte, più prudentemente, osserva che "it had no evidence enabling it to find that those remedies did not offer, in principle, prospects of appropriate relief for the complaints submitted under Article 3".

[7]  In questo senso anche F. Fiorentin, Sulla valutazione in giorni cala l'incostituzionalità, in Guida dir. 30/2014, p. 28 ss.