ISSN 2039-1676


26 gennaio 2011 |

C. cost., 25 gennaio 2011, n. 23 (sent.), Pres. De Siervo, Rel. Cassese (legittimo impedimento del Presidente del Consiglio)

Depositata la sentenza con la quale è stata dichiarata la parziale illegittimità  costituzionale della l. n. 51/2010

1. Con la sentenza 23 del 2011, deliberata il 13 gennaio e depositata il 23 gennaio 2011, la Corte costituzionale ha definito numerose questioni proposte, da tre giudici rimettenti, riguardo a tutte le norme della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza).
 
È stata dichiarata illegittima, anzitutto, l’intera disciplina che consentiva al Presidente del Consiglio dei ministri di prospettare impegni istituzionali futuri e continuativi, certificati dal Segretariato generale della stessa Presidenza, in guisa da imporre un rinvio dell’udienza oltre il termine di cessazione degli impedimenti allegati (comma 4 dell’art. 1 della legge). Inoltre è stata dichiarata illegittima la norma che imponeva al giudice, una volta accertata la ricorrenza contestuale  delle ipotesi indicate nel comma 1 dello stesso art. 1, di rinviare l’udienza ad altra data, nella parte in cui non prevedeva che lo stesso giudice possa valutare in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto (comma 3 dell’art. 1).In evidente collegamento logico con tale ultima decisione, la questione sollevata riguardo al comma 1 è statadichiarata infondata, ma a condizione («in quanto») che la norma censurata sia letta «in conformità all’art. 420-ter, comma 1» del codice di rito penale.
 
Le ulteriori questioni sollevate dai giudici milanesi, conviene dirlo subito, sono state dichiarate inammissibili, perché irrilevanti nei giudizi a quibus (comma 2 dell’art. 1, pertinente ai procedimenti concernenti ministri) o perché non attinte da censure argomentate ad opera dei rimettenti (commi 5 e 6 dell’art 1, concernenti la sospensione della prescrizione e l’applicabilità ai procedimenti in corso della nuova disciplina, e art. 2, relativo alla durata nel tempo della disciplina medesima).
 
2. LaCorte ha disatteso, in primo luogo, la lunga serie delle ulteriori eccezioni di inammissibilità proposte dalla difesa della parte privata nel giudizio principale e dall’Avvocatura generale dello Stato. Erano stati prospettati molteplici vizi motivazionali dei provvedimenti di rimessione, anzitutto riguardo alla concreta descrizione delle fattispecie sottoposte a giudizio, e dunque in punto di rilevanza delle questioni. Inoltre, parte almeno delle questioni sarebbero state irrilevanti (i giudici avrebbero dovuto valutare l’impedimento addotto prima secondo la disciplina ordinaria, poi secondo quella specifica in materia di impedimento contestuale del Presidente, infine a norma del comma 4 della disposizione censurata): il rilievo dell’impedimento addotto già secondo le regole generali avrebbe escluso la necessità di applicare, nei giudizi a quibus, le norme della legge n. 54. Ulteriori vizi, infine, avrebbero segnato la motivazione circa le ragioni del denunciato contrasto tra le disposizioni censurate ed i parametri costituzionali evocati. Tutte le eccezioni sono state respinte, sulla base degli argomenti illustrati al § 3 del Considerato in diritto.
 
3. Nel merito, ed in estrema sintesi, la Corte è partita dalla propria giurisprudenza sulla nozione di «prerogativa», maturata sia nel contesto di altre questioni incidentali su leggi regolatrici del processo concernente alte cariche dello Stato (da ultimo, la sentenza n. 262 del 2009 sul cd. lodo Alfano), sia nel contesto di conflitti tra poteri che avevano evocato lo specifico problema del bilanciamento tra presenza dell’imputato nel processo e svolgimento di funzioni pubbliche di rilevanza costituzionale (da ultimo, la sentenza n. 451 del 2005). Le prerogative si sostanziano, secondo quella giurisprudenza, nell’introduzione di meccanismi generali ed automatici di «deroga al regime processuale comune», e devono dunque essere regolate mediante una legge di rango costituzionale, pena la violazione congiunta degli artt. 3 e 138 della Costituzione.
 
Dunque il metodo dell’analisi è consistito nella comparazione tra la normativa sottoposta a censura e quella che normalmente disciplina il cd. legittimo impedimento (art. 420-ter c.p.p.), per verificare se la prima costituisse una specificazione della seconda (come sostenuto dalla Presidenza del Consiglio), o piuttosto introducesse una deroga.
Ed ecco le caratteristiche del tertium comparationis: l’impedimento consiste in un impegno specifico e puntuale, e non nella mera e generica implicazione di una propria attività complessiva; il giudice, quando ricorra la prima condizione, valuta lo specifico impedimento addotto come fattore idoneo a giustificare il rinvio dell’udienza.
 
La Corte ha ritenuto che la comparazione al modello fissato nel comma 1 dell’art. 420-ter dovesse essere condotta separatamente per ognuna delle tre norme pertinenti all’attività del Presidente del Consiglio dei ministri. Quanto al comma 1, la critica essenziale dei rimettenti si sostanziava nella estrema genericità delle situazioni che avrebbero potuto essere addotte per innescare un automatismo destinato a culminare con il rinvio dell’udienza. La Corte ha convenuto che una lettura «generalizzante» della norma ne comporterebbe il contrasto con la Carta costituzionale, ma ha ricordato il dovere di adottare soluzioni adeguatrici quale comportamento preliminare alla dichiarazione di illegittimità. Ebbene, la norma va letta nel senso che «le categorie di attività qualificate, in astratto, come legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri sono solo quelle coessenziali alle funzioni di Governo, che siano previste da leggi o regolamenti (e in particolare dalle fonti normative espressamente citate nella disposizione censurata), nonché quelle rispetto ad esse preparatorie (cioè specificamente preordinate) e consequenziali (cioè immediatamente successive e strettamente conseguenti)». E ancora, sulla disciplina delle attività preparatorie o consequenziali, come interpretata in senso costituzionalmente compatibile: «il Presidente del Consiglio dei ministri dovrà indicare un preciso e puntuale impegno, che abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad altro preciso e puntuale impegno, quest’ultimo riconducibile ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo prevista dall’ordinamento».
 
Insomma, la norma censurata può essere letta in guisa che non ne derivi una deroga al primo dei due aspetti essenziali della disciplina comune del legittimo impedimento, e cioè il carattere puntuale di un impegno alternativo alla partecipazione al processo.
 
4. Restava alla Corte da verificare, però, se della disciplina ordinaria le norme censurate consentissero l’espansione anche sotto il secondo profilo, e cioè quello di «valutare in concreto lo specifico impedimento addotto». Valutazione che non consiste nella verifica di sussistenza effettiva del fatto prospettato od in quella di attendibilità della relativa certificazione, ma attiene alla valenza dell’impegno concomitante, assunto quale fattore «legittimo» di sacrificio dell’esigenza concomitante di progressione del giudizio. La Corte ha specificamente chiarito, in premessa, che avrebbe considerato derogatorio (e dunque illegittimo) ogni scarto della nuova disciplina rispetto agli ordinari poteri di sindacato del giudice.
 
In particolare, ordinariamente il giudice valuta il «carattere assoluto e attuale» dell’impegno prospettato dalla parte. Ciò comporta che detto impegno, pure pertinente ad interessi meritevoli di bilanciamento con quello delle tempestiva celebrazione del giudizio, deve essere «oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante» con l’udienza programmata. Il che deve essere oggetto della verifica giudiziale, ben oltre il controllo sulla effettiva sussistenza del fatto impeditivo allegato. 
 
Ebbene la Corte, in base all’univoco significato letterale e sistematico del comma 3 dell’art. 1, ha ritenuto che la norma avesse proprio la funzione di sbarrare il sindacato giudiziale sulla soglia della verifica di sussistenza. Dunque, introduzione di una prerogativa in violazione del disposto degli artt. 3 e 138 Cost.
Naturalmente, il principio di leale collaborazione impone al giudice di interferire nella minima possibile misura sull’attività di governo del Presidente, così come impone a quest’ultimo, anche alla luce dell’elevato grado di autonomia nella programmazione dei propri impegni (ben superiore a quello di un Parlamentare), di concepire calendari compatibili con l’interesse alla speditezza del processo.
 
5. La Corte ha ravvisato un analogo significato derogatorio nel comma 4 dell’art. 1, anzitutto per la possibilità, riconosciuta all’imputato, di addurre non un impedimento puntuale, ma un impegno continuativo, con elusione almeno parziale dell’onere di specificazione posto dalla disciplina ordinaria. A meno di non intendere la certificazione di legge come dettagliato (e chilometrico) elenco di impegni puntuali (ma comunque non contestuali), restava consentito al Presidente del consiglio di addurre genericamente quale impedimento la sua stessa funzione istituzionale, in deroga al criterio generale (e sulla base di una sorta di autocertificazione, collegata ad una deliberazione riconducibile in sostanza allo stesso interessato). Per altro verso, l’allegazione dell’impegno continuativo comportava per il giudice la necessità di un rinvio «automatico», analogamente a quanto previsto dal comma 3, posta l’impossibilità di sindacare, in riferimento a specifiche date, l’ineluttabilità della concomitanza.
 
Dunque, e per concludere, una nuova prerogativa, come tale contrastante con gli artt. 3 e 138 Cost.