ISSN 2039-1676


23 gennaio 2015 |

Quali conseguenze nei casi di violazione della disciplina di cui agli articoli 210, comma 6 e 197 bis c.p.p.? La parola alle Sezioni Unite

Cass., sez. un., 2 dicembre 2014 (15 dicembre 2014), n. 2765, Pres. Casucci, rel. Recchione, ric. Lo Presti e altri

 

1. Com'è noto, «la soluzione di compromesso, faticosamente raggiunta [con la legge 1° marzo 2001, n. 63] tra diritto al silenzio dell'imputato e diritto al confronto con l'accusatore»[1], presenta profili teorici e pratici di particolare complessità[2].  Non stupisce, quindi, che il delicato gioco d'incastri desumibile dal combinato disposto degli artt. 197, 197 bis, 210, 64, 12 e 371, comma 2 lettera b c.p.p.[3] sia foriero di oscillazioni giurisprudenziali e «distorsioni applicative»[4].

Il caso in esame descrive in modo particolarmente emblematico la confusione esegetica che caratterizza tale disciplina normativa: la seconda Sezione della Suprema Corte ha rimesso al massimo Collegio il quesito «se la mancata applicazione - in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato [...] - delle disposizioni di cui all'art. 210 c.p.p., relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito [...], determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale».

Si tratta di una questione d'importanza cruciale: quali conseguenze provoca la violazione o l'elusione del sistema di checks and balances, ideato dal legislatore per contemperare il principio del contraddittorio con il fondamentale diritto al silenzio[5]?

Vista la delicatezza e complessità del tema, pare opportuno iniziare l'analisi dall'esame dell'articolata fattispecie concreta.

 

2. Nel caso di specie, più imputati venivano accusati di diversi episodi di estorsione consumati avvalendosi della forza intimidatrice di un clan mafioso. Tre di essi optavano per il giudizio abbreviato e venivano condannati dal GUP di Palermo, mentre un altro sceglieva di essere giudicato con il rito ordinario ed era invece assolto dal Tribunale.

In entrambi i processi la fonte dichiarativa principale era la persona offesa, che, però, sin dalla prima denuncia e dalle successive informazioni rese alla polizia giudiziaria, aveva reiteratamente omesso di riferire che un altro soggetto aveva mediato tra lui e i vertici della famiglia mafiosa; mentre - secondo le argomentazioni difensive - agli atti, sin da subito, erano presenti le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia e due "pizzini" che confermavano la partecipazione del terzo all'estorsione.

La persona offesa - assunta sempre come testimone - continuava a negare l'intervento del mediatore anche nel dibattimento a carico dell'imputato che aveva scelto il rito ordinario, sino a quando, solo dopo aver ascoltato i due collaboratori, decideva di chiamare in causa anche il terzo nei fatti contestati.

A questo punto, il Tribunale di Palermo, ritenendo inattendibile tale dichiarante, assolveva l'imputato e ordinava la trasmissione di copia degli atti al Pubblico Ministero per procedere nei confronti della persona offesa in relazione al reato di favoreggiamento personale aggravato.

Dal canto loro, gli imputati che avevano optato per il rito abbreviato proponevano appello e richiedevano l'introduzione nel loro procedimento delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel giudizio ordinario parallelo.

Sul punto, la corte d'appello chiariva però che nel dibattimento a carico del coimputato la persona offesa aveva la qualifica "sostanziale" di "testimone assistito", essendo già emersi indizi di reità a suo carico - derivanti dal fatto che egli aveva reso dichiarazioni reticenti in indagini, tacendo il coinvolgimento del mediatore - per un reato probatoriamente collegato all'estorsione (ovvero il favoreggiamento personale aggravato).

Al contrario, la persona offesa aveva reso le dichiarazioni nel giudizio di primo grado come testimone e, quindi, in assenza del difensore e senza aver mai ricevuto alcuno degli avvisi di cui all'art. 64 c.p.p.

La veste di testimone assistito, chiarivano ancora i giudici di seconde cure, andava assunta dal dichiarante «fin dall'inizio della sua escussione dibattimentale», che avrebbe dovuto quindi essere caratterizzata dalle «garanzie indicate dall'art. 197 bis, comma 2, c.p.p.».

L'offeso, però, nella prospettazione della Corte d'appello, «non doveva [...] essere destinatario dell'avviso relativo alla facoltà di esercizio del diritto al silenzio, diritto da lui non invocabile a causa del fatto che aveva già reso dichiarazioni eteroaccusatorie in fase di indagine e si inquadrava conseguentemente tra i dichiaranti indicati dall'art. 210, comma 6, primo periodo»[6].

La Corte territoriale, infine, riteneva che le dichiarazioni dibattimentali della persona offesa fossero pienamente utilizzabili, sebbene «raccolte in modo irregolare dato che del vizio, ovvero dell'assenza del difensore, poteva dolersi il solo dichiarante "e non gli odierni imputati, che non hanno alcun interesse all'osservanza della disposizione violata».

Sulla base di queste considerazioni, ritenendo il dichiarante credibile, i giudici confermavano l'accertamento di responsabilità effettuato all'esito del giudizio abbreviato.

Avverso tale pronuncia gli imputati proponevano articolati ricorsi per cassazione, lamentando - tra l'altro - il mancato inquadramento della persona offesa come indagato in procedimento collegato sin dalle indagini preliminari.  In particolare, le difese sostenevano che - essendo l'offeso fin da subito «indiziato o indiziabile del reato [probatoriamente collegato] di favoreggiamento personale»  -  andava dichiarata l'inutilizzabilità ex art. 63, comma 2, c.p.p. delle sue dichiarazioni.

 

3. Investita del ricorso, la seconda Sezione premette subito di condividere la corrente della giurisprudenza di legittimità secondo cui l'assunzione della veste di testimone assistito non è subordinata al riscontro di elementi strettamente formali, quali l'iscrizione del dichiarante nel registro ex art. 335 c.p.p., ma consegue alla situazione sostanziale del dichiarante indiziato per un reato connesso o collegato a quello per cui si procede[7]. Tali pronunce, precisano i giudici, applicano i principi ricavabili da una nota decisione delle Sezioni Unite, secondo cui in tema di prova dichiarativa, quando venga in rilievo la posizione che può assumere il dichiarante, «spett[a] al giudice il potere di verificare nella sostanza - al di là del riscontro di indici formali [...] - l'attribuibilità [allo stesso] della qualità di indagato»[8].

Detto ciò, la Cassazione chiarisce di ritenere infondate le questioni concernenti l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in fase investigativa, in quanto risulta assolutamente «consolidato l'indirizzo secondo cui la disciplina relativa alle dichiarazioni indizianti rese, da persona non imputata né sottoposta alle indagini, all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria non trova applicazione nel caso in cui quelle dichiarazioni concretino esse stesse un fatto criminoso»[9].

Il pensiero della Corte è chiaro: siccome la persona offesa avrebbe commesso il reato di favoreggiamento proprio tramite le dichiarazioni reticenti pronunciate nel corso delle indagini preliminari, non potrebbe applicarsi a tale fattispecie la disposizione di cui all'art. 63 c.p.p., in quanto «le dichiarazioni "indizianti" evocate da tale articolo [...] sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata [...] che riveli fatti da cui emerga una sua [pregressa] responsabilità penale e non quelle attraverso il quale il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato»[10].

 

4. Nella parte successiva, la Corte si occupa del problema ulteriore, ovvero dell'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel dibattimento parallelo, senza aver ricevuto l'avviso ex art. 64, comma 3, lettera c) e senza l'assistenza del difensore, pur essendo la stessa "sostanzialmente" indagata di un reato probatoriamente collegato.

La Cassazione inizia ad affrontare il tema mediante un breve excursus concernente lo statuto del dichiarante "coinvolto nel fatto".

Per quanto qui rileva, pare necessario soffermarsi sulle considerazioni svolte dai giudici in merito all'ipotesi di connessione "debole", ovvero ex art. 12, comma 1, lettera c) o 371, comma 2, lettera b), c.p.p.

Sul punto la Corte afferma che, nei casi di imputati o indagati connessi debolmente, «il diritto al silenzio [...] non è assoluto, ma patisce una compressione ogni volta che, come stabilisce l'art. 210, comma 6, c.p.p., il dichiarante abbia reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato». La stessa norma, continuano testualmente i giudici, «chiarisce che il diritto al silenzio si perde anche per scelta del dichiarante ogni volta che questi scelga di rispondere in seguito all'avvertimento di cui all'art. 64, comma 1, lettera c), c.p.p.»[11].

In questi casi, sostiene la Corte, i dichiaranti collegati o connessi debolmente assumerebbero la veste di testimone assistito ex art. 197 bis c.p.p.

Inoltre, il Collegio precisa ancora che «il comma 2 dell'art. 197 bis c.p.p. fa riferimento solo ai propalanti che scelgono di dichiarare in seguito all'avviso, ma può ritenersi che il regime indicato si estenda anche ai dichiaranti che hanno perso il diritto al silenzio poiché hanno dichiarato in precedenza, secondo quanto prevede l'art. 210, comma 6, primo periodo, c.p.p. (come nel caso che ci occupa, relativo alle dichiarazioni [della persona offesa])»[12].

 

5. Presentato così il quadro normativo, i giudici precisano che la giurisprudenza è divisa in ben tre distinti orientamenti sul tema dell'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal dichiarante indagato (o indagabile) per un fatto collegato a quello giudicato, che non abbia ricevuto il previo avvertimento dell'art. 64, comma 3, lettera c) e non sia stato assistito da un difensore.

Un primo indirizzo[13] ritiene che la violazione delle norme indicate dall'art. 197 bis generi «una prova da trattare con la regola di esclusione probatoria dell'inutilizzabilità».

Questa corrente, precisano i giudici, valorizza il riferimento contenuto nell'art. 197 bis all'art. 64 c.p.p. e ritiene che il rinvio a tale norma porti con sé anche la sanzione di inutilizzabilità prevista dall'art. 64, comma 3 bis.

Infatti, queste pronunce affermano che «l'imputato di reato collegato, non ancora definitivamente giudicato, laddove non abbia reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato, deve essere sentito ai sensi dell'art. 210, comma 6, con l'assistenza del difensore e con gli avvertimenti previsti dall'art. 64, comma 3, lettera c) e laddove abbia reso dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assume, in base all'art. 197 bis c.p.p., la veste di testimone assistito; sicché, qualora egli sia sentito come testimone senza le garanzie previste da tali norme, le sue dichiarazioni non sono utilizzabili ex art. 64 comma 3 bis c.p.p.»[14].

Al contrario, un secondo orientamento[15] nega che le dichiarazioni assunte in modo irregolare in dibattimento da un soggetto indagato (o indagabile) per un reato connesso ex art. 12, comma 1, lettera c) o probatoriamente collegato siano in alcun modo viziate.

Tale indirizzo, chiariscono i giudici, circoscrive l'applicazione della sanzione dell'inutilizzabilità agli interrogatori resi in indagini, considerando che «l'esame dibattimentale sia garantito dal fatto di essere svolto in contraddittorio».

Le decisioni che fanno parte di questo orientamento, continua la Corte, non si occupano di casi in cui risulta assente il difensore, ma in cui la deposizione avvenga senza gli avvisi di cui all'art. 64 c.p.p.

In breve, tali pronunce escludono che in dibattimento l'assenza degli avvisi produca qualsiasi vizio, in quanto sia l'art. 210, comma 6 che il 197 bis c.p.p. riguarderebbero "esami" garantiti dal contraddittorio tra le parti, mentre l'art. 64 si riferirebbe al solo "interrogatorio", ovvero a un atto che naturalmente si svolgerebbe al di fuori del contraddittorio", «razionalmente legittimando una maggiore attenzione del legislatore volta a tutelare i diritti dei terzi coinvolti nelle dichiarazioni rese dall'interrogato»[16].

Inoltre, numerose decisioni di questa corrente[17] precisano ulteriormente che, quand'anche si ritenesse che il riferimento contenuto nell'art. 197 bis, comma 2 all'art. 64, comma 3, lettera c) comporti anche in dibattimento l'obbligo di detto avviso, la sua inosservanza non potrebbe comunque determinare l'inutilizzabilità della deposizione acquisita, dal momento che l'art. 197 bis, l'art. 210, comma 6 c.p.p. rinviano in modo espresso all'inutilizzabilità di cui all'art. 64, comma 3 bis.

Infine, un terzo indirizzo[18], ritenendo che la ratio dell'istituto di cui all'art. 197 bis sia rivolta solo alla tutela del dichiarante dagli effetti negativi delle dichiarazioni rese contro di sé, afferma che la violazione delle norme in tema di assunzione della testimonianza assistita generi una nullità generale a regime intermedio, eccepibile solo dal propalante che voglia far valere la lesione del proprio diritto di difesa.

In base a questa esegesi la giurisprudenza afferma che, nell'ipotesi in cui, pur esistendone i presupposti, non si procede all'applicazione dell'art. 210 c.p.p., la conseguenza della inosservanza non è la inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p., ma «la nullità della medesima ex art. 178 c.p.p., lett. c), atteso che la legge non vieta l'esame dell'imputato in un processo connesso o collegato, ma semplicemente prescrive che esso sia assunto secondo determinate formalità»[19].

Inoltre, in riferimento alla mancanza dell'avviso ex art. 64 c.p.p., a sostegno dell'esegesi secondo cui all'assenza di tale avvertimento conseguirebbe solo una nullità, alcune pronunce rimarcano anche il dato letterale, secondo cui l'art. 197 bis «non richiama il comma 3 bis dell'art. 64 c.p.p., che prevede l'inutilizzabilità [...], ma solo l'art. 64, comma 3 lett. c. c.p.p.»[20].

 

6. L'esegesi generale proposta dalla pronuncia in esame della disciplina di cui agli artt. 197 bis, 210, comma 6 e 64, comma 3, lettera c) c.p.p. non pare condivisibile.

Invero, quando i giudici affermano che, nel caso di specie, la persona offesa avrebbe rivestito la qualifica sostanziale di "testimone assistito", in quanto la stessa avrebbe reso in indagini dichiarazioni sulla responsabilità di altri come persona informata, sembrano ipotizzare che un imputato connesso ex art. 12, comma 1, lettera c) o collegato probatoriamente (non giudicato in via definitiva) possa assumere la qualifica di dichiarante ex art. 197 bis, comma 2, pur non avendo mai ricevuto l'avviso ex art. 64, comma 3, lettera c), per il semplice fatto di aver reso in precedenza (e in un'altra veste) delle affermazioni sul fatto altrui.

Detto altrimenti, la Corte pare interpretare l'art. 210, comma 6, primo periodo, in modo assolutamente slegato dal contesto in cui lo stesso è inserito, ovvero come se prevedesse che un imputato (connesso debolmente o probatoriamente collegato), che abbia reso (in qualunque veste) in precedenza dichiarazioni sul fatto altrui, possa automaticamente assumere la qualifica di testimone assistito, indipendentemente dal fatto che lo stesso abbia ricevuto o meno l'avviso di cui all'art. 64, comma 3, lettera c).

Al contrario, non vi sono dubbi che il riferimento contenuto all'art. 210, comma 6, primo periodo, alle dichiarazioni già rese in precedenza (sulla responsabilità di altri), vada necessariamente letto assieme al secondo comma dell'art. 197 bis, che, in modo inequivocabile, si riferisce a soggetti che hanno deciso di rispondere solo a seguito dell'avviso di cui all'art. 64, comma 3, lettera c)[21].

Infatti, è opportuno precisare che la disciplina introdotta a seguito della legge 1° marzo 2001, n. 63 ha sì ridotto l'incompatibilità a testimoniare[22] degli imputati connessi ex art. 12, comma 1, lettera c) e 371, comma 2, lettera b, ma solo[23] ove gli stessi, dopo aver ricevuto l'avviso di cui all'art. 64, comma 3, lettera c), abbiano comunque deciso di rendere dichiarazioni sul fatto altrui, andando altrimenti ricompresi tra i dichiaranti di cui all'art. 210, comma 6, c.p.p.[24].

Non a caso il legislatore ha previsto all'art. 64, comma 3, bis[25] che «in mancanza dell'avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti l'ufficio di testimone».

Ne consegue, in sintesi, che, nel caso di specie, a nulla rileva che la persona offesa avesse reso, nel corso delle indagini preliminari, in veste di persona informata, dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri. Infatti, il dichiarante, non avendo mai ricevuto gli avvisi di cui all'art. 64 c.p.p., mai avrebbe potuto assumere la qualifica di testimone assistito. Con la logica conseguenza che necessariamente tale soggetto non poteva essere ricompreso tra i dichiaranti di cui all'art. 197 bis, ma solo tra quelli previsti dall'art. 210, comma 6, c.p.p.

 

7. In secondo luogo, pare che, nel caso di specie, la questione dell'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel dibattimento a carico del coimputato, con la veste "sostanziale" di propalante ex art. 210, comma 6, potesse essere risolta in modo differente, ovvero facendo riferimento all'inutilizzabilità di cui all'art. 63, comma 2, c.p.p.[26].

Sul punto, va ricordato innanzitutto che il collegamento sistematico tra le norme dell'art. 210 e 63, comma 2, c.p.p. è stato recentemente ribadito sia delle Sezioni Unite[27], che dalla Consulta[28], che hanno chiarito come «l'art. 63, comma 2 attua una tutela anticipata delle incompatibilità con l'ufficio di testimone previste dall'art. 197 c.p.p., comma 1, lettere a) e b), nei confronti dell'imputato di un procedimento connesso o di un reato collegato: incompatibilità che, a loro volta, impongono che l'esame del soggetto avvenga nelle forme dell'art. 210 c.p.p.»[29].

Oltretutto, le Sezioni Unite - in una assai nota pronuncia della seconda metà degli anni '90[30] - avevano già affermato che la norma di cui al secondo comma dell'art. 63 c.p.p., «va esaminata nel contesto delle altre del codice di rito (art. 197 lett. a) e b), 208, 210 c.p.p.), che, nel disciplinare la posizione dell'imputato o del coimputato dello stesso reato o dell'imputato di reato connesso o collegato, attuano il principio del diritto al silenzio»[31].

Non è tutto, il massimo Collegio aveva anche esplicitato che l'art. 63, comma 2 rende operante il diritto al silenzio «in un momento antecedente a quello dell'assunzione formale della qualità di indagato o imputato dalla quale scaturisce il diritto stesso, costituendo in tal modo un fronte avanzato di tutela»[32].

In sostanza, la rigida inutilizzabilità dell'art. 63, comma 2 è dettata proprio in funzione deterrente rispetto alla prassi di assumere le dichiarazioni di una persona senza fornirle le garanzie proprie dell'imputato o indagato «al fine di poter continuare a svolgere indagini informali, ignorando deliberatamente l'esistenza di indizi di reità a suo carico»[33].

Tutto ciò premesso, non può che rilevarsi come, nel caso di specie, la Corte, avendo ritenuto dimostrato che la persona offesa avesse consumato il reato collegato di favoreggiamento personale già nel corso delle indagini preliminari, ha ammesso che in dibattimento vi fossero indizi sufficienti per assumere la stessa non nella veste di testimone semplice, ma appunto di indagato probatoriamente collegato.

Se ciò è vero, la persona offesa evidentemente doveva essere sentita sin dall'inizio del dibattimento in qualità di persona indagata per un reato collegato dal punto di vista probatorio e non di semplice testimone, con la conseguenza che alle dichiarazioni sfavorevoli[34] da essa rese in tale sede si sarebbe potuta applicare proprio l'inutilizzabilità ex art. 63, comma 2, c.p.p., volta ad «evitare il pericolo di dichiarazioni, compiacenti o negoziate, a carico di terzi»[35].

 

8. Infine, sembrano opportune alcune brevi considerazioni riguardo al contrasto giurisprudenziale rimesso al massimo Collegio.

Innanzitutto, va effettivamente rilevato che le tre correnti esegetiche richiamate dall'ordinanza di rimessione paiono porsi su piani inconciliabili, essendo quindi più che opportuno un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sul punto.

Peraltro, sembra vi siano delle fondate ragioni per aderire all'indirizzo più restrittivo, che sanziona con l'inutilizzabilità la violazione delle norme di cui agli artt. 210 e 197 bis c.p.p.

Innanzitutto, va rilevato che le argomentazioni letterali sostenute dalle altre correnti giurisprudenziali - secondo cui il mancato richiamo negli artt. 210, comma 6 e 197 bis al 64, comma 3 bis renderebbe priva di conseguenza l'omissione dell'avviso di cui all'art. 64, comma 3, lettera c) - non paiono convincenti.

Infatti, come è stato da tempo chiarito in dottrina, data la natura centrale dell'art. 64 nel contesto normativo in esame[36], può ritenersi che il comma 3 bis di detto articolo possa «essere interpretato come una disposizione di portata generale che sanziona l'omissione dell'avvertimento qualunque sia la sede nella quale tale omissione ha avuto luogo»[37]. Detto altrimenti, «il rinvio alla norma che prescrive l'avvertimento è idoneo a rendere operativa anche la sanzione collegata alla mancanza del medesimo»[38]. Del resto, tale soluzione, da una parte è compatibile con la lettera della legge, dall'altra risulta in linea con la volontà del legislatore[39].

Non è tutto, anche ove non si condividesse l'esegesi appena proposta, sarebbe realmente difficile non ritenere che nell'art. 197, comma 1, lettere a) e b) non siano incardinati dei precisi e generali divieti probatori, la cui violazione - come nei casi di mancato avviso ex 64, comma 3, lettera c) - comporti necessariamente l'inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. delle dichiarazioni in tal modo acquisite.

Risulta, invece, più complessa l'individuazione delle conseguenze processuali nell'ipotesi in cui un soggetto, che riveste la qualifica di dichiarante ex art. 210, comma 6 o 197 bis, venga escusso in assenza del difensore[40].

Sul punto, peraltro, in dottrina si è recentemente affermato che, «quanto al vizio che può colpire la deposizione acquisita senza la presenza del difensore - esclusa la nullità ex art. 178, lett. c) per il difetto dei relativi presupposti - non pare fuor d'opera ritenere che si tratti di una inutilizzabilità per violazione di una forma essentialis dell'atto»[41].

Del resto, va rilevato che il ruolo del difensore in queste fattispecie è realmente centrale: per un verso egli garantisce che l'esame non travalichi i fatti su cui grava l'obbligo testimoniale e, per un altro, assicura «il dichiarante da quei pregiudizi che potrebbero derivare dal rendere dichiarazioni contra se»[42].

In conclusione, non si può non rilevare che, ove si ammettesse che un dichiarante ex art. 210 o 197 bis possa essere sentito senza difensore, si rischierebbe di provocare l'elusione di tutte le fondamentali garanzie previste a tutela del nemo tenetur se detegere.

 


[1] Cfr. P. Ferrua, L'attuazione del giusto processo con la legge sulla formazione e valutazione della prova (I), in Dir. pen. proc., 2001, p. 585. In argomento si vedano anche, ex multis, E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell'imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3589; V. Grevi, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di «giusto processo» penale (tra «ragionevole durata», diritti al'imputato e garanzia del contraddittorio), in Id., Alla ricerca di un processo penale «giusto». Itinerari e prospettive, Milano, 2000, p. 335 ss.; P. Moscarini, voce Silenzio dell'imputato, in Enc. dir., III Annali, Milano, 2010, pp.1104 - 1105; R. Orlandi, Dichiarazioni dell'imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto del diritto al silenzio e restrizioni in tema d'incompatibilità a testimoniare, in Il giusto processo tra contradditorio e diritto al silenzio, a cura di R.E. Kostoris, Torino, 2002, pp. 154 ss.; P. Tonini, L'alchimia del nuovo sistema probatorio: una attuazione del giusto processo?, in Aa. vv., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1° marzo 2001, n. 63), a cura di P. Tonini, Padova, 2001, pp. 3 ss.; D. Vigoni, Ius tacendi e diritto al confronto dopo la l. n. 63 del 2001: ipotesi ricostruttive e spunti critici, in Dir. pen. proc., 2002, pp. 88-89.

[2] G. Illuminati, L'imputato che diventa testimone, in, Ind. pen., p. 397, definisce la disciplina «esageratamente complicata». Cfr. anche C. Cesari, Le dichiarazioni rese in giudizio dal "coindagato virtuale": nell'intrico della disciplina codicistica, una messa a punto mancata, in Giur. cost., 2009, p. 3904.

[3] In merito al complesso di tale disciplina non si può in questa sede che rinviare a C. Conti, L'imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità, Padova, 2003; M. Margaritelli, voce Esame di persona imputata in un processo connesso o collegato, in Dig. disc. pen., Agg. III, Torino, 2005, pp. 416 ss.; V. Patané, Il diritto al silenzio dell'imputato, Torino, 2006, pp. 143 ss.; A. Sanna, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nei procedimenti connessi. Alla luce del giusto processo, Milano, 2007.

[4] Cfr. O. Mazza, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nel suo procedimento, Milano, 2004, p. 320.

[5] Per un'attenta interpretazione degli ulteriori e più reconditi scopi della riforma si rimanda alle considerazioni di O. Mazza, L'interrogatorio e l'esame, cit., p. 331 ss. Sul punto si veda anche G. Illuminati, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 394.

[6] Si vedano sul punto le considerazioni svolte al §6.

[7] Tra le pronunce più recenti si vedano: Cass., Sez. II, 9 aprile 2014, n. 23211, in www.iusexplorer.it; Cass., Sez. IV, 12 febbraio 2014, n. 14534, ivi; Cass., Sez. II, 3 dicembre 2013, n. 6595, ivi.

[8] Cfr. Cass., sez. un., 25 febbraio 2010, n. 15208, in Ced. Cass., n. 246584.

[9] La giurisprudenza sul punto è realmente molto nutrita. Tra le tante v. Cass., Sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 47556, in Dir. giust., 2 dicembre 2013; Cass., Sez. IV, 12 luglio 2013, n. 43206, in www.iusexplorer.it; Cass., Sez. II, 9 luglio 2009, n. 36284, in Ced. Cass., n. 245597; Cass., Sez. II, 5 giugno 2008, n. 35538, ivi, n. 240657; Cass., Sez. VI, 31 marzo 2004, n. 21116, in Cass. pen., 2005, p. 3924.

[10] Cfr. , ex multis, Cass., Sez. IV, 12 luglio 2013, n. 43206, cit.

[11] Si vedano sul punto le considerazioni svolte al §6.

[12] Cfr. §6.

[13] Tra le tante cfr. Cass., Sez. V, 27 maggio 2014, n. 29227, in Ced. Cass., n. 260320; Cass., Sez. V, 28 ottobre 2010, n. 1898, ivi, n. 249045; Cass., Sez. I, 24 marzo 2009, n. 29770, ivi, n. 244462; Cass., Sez. V, 17 dicembre 2008, n. 599, ivi, n. 242384; Cass., Sez. V, 25 settembre 2007, Costanza, ivi, n. 238188. Appartengono al medesimo filone anche altre decisioni che hanno ritenuto inutilizzabili dichiarazioni testimoniali rese senza garanzie da imputati di reati collegati, conformandosi in tal modo ad un principio di diritto contenuto nelle Sezioni Unite De Simone (Cass., sez. un., 17 dicembre 2009, n. 2067, De Simone, in Ced. Cass., n. 246375). Si ricordano, ad esempio, Cass., Sez. V, 13 marzo 2014, n. 26016, in www.iusexplorer.it; Cass., Sez. V, 10 ottobre 2013, n. 3524, ivi.

[14] Cfr., ad esempio, Cass., Sez. V, 27 maggio 2014, n. 29227, cit.

[15] Cfr., tra le tante, Cass., Sez. I, 23 settembre 2014, n. 41745, in www.iusexplorer.it; Cass., Sez. V, 18 marzo 2014, n. 46457, ivi; Cass., Sez. V, 17 febbraio 2014, n. 23578, ivi; Cass., Sez. V, 4 febbraio 2014, n. 18990, ivi; Cass., Sez. V, 5 novembre 2013, n. 18837, ivi; Cass., Sez. V, 29 settembre 2013, n. 7595, in Ced. Cass., 259032; Cass., Sez. V, 24 settembre 2013, n. 41886, ivi, 257839; Cass., Sez. V, 31 gennaio 2012, n. 12976, ivi, 252317.

[16] Così, tra le tante, Cass., Sez. V, 29 settembre 2013, n. 7595, cit.

[17] Così, ad esempio, Cass., Sez. V, 18 marzo, 2014, n. 46457, cit.; Cass., Sez. V, 4 febbraio 2014, n. 18990, cit.

[18] Cfr. Cass., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 36259, in www.iusexplorer.it; Cass., Sez. VI, 23 maggio 2014, n. 41004, ivi; Cass., Sez. V, 1 aprile 2014, n. 29561, ivi; Cass., Sez. VI, 22 gennaio 2014, n. 10282, in Ced. Cass., n. 259267; Cass., Sez. V, 27 marzo 2013, n. 26206, in Ced. Cass., n. 257575.

[19] Così, ad esempio, Cass., Sez. V, 23 maggio 2014, n. 41004, cit.

[20] Cfr. Cass., Sez. V, 27 marzo 2013, n. 26206, cit.

[21] Si ricordino sul punto le parole di V. Grevi, Le prove, in Aa. Vv., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso - V. Grevi - M. Bargis, 7a ed., Padova, 2014, p. 359 s., il quale, a riguardo dell'art. 210, comma 6 c.p.p., affermava che esso trova applicazione anche quando un imputato connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lettera c) o collegato probatoriamente abbia «reso dichiarazioni sul fatto altrui, nel corso del loro interrogatorio, ma senza avere ricevuto l'avvertimento ex art. 64, comma 3°, con la conseguenza della inutilizzabilità di simili dichiarazioni». Nello stesso senso P. Tonini - C. Conti, Il diritto delle prove penale, 2a ed., Milano, 2014, p. 275, nt. 178 i quali spiegano che «l'art. 210, comma 6, si applica ai soggetti che abbiano reso dichiarazioni erga alios non precedute da rituale avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c) oppure che abbiano reso dichiarazioni in qualità di persone informate sui fatti e solo successivamente siano state raggiunte da indizi». Così anche M. Bargis, Commento all'art. 8 l. 1 marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 231, nt. 13; C. Conti, Emersione «tardiva» del collegamento probatorio e status del dichiarante in dibattimento, in Dir. pen. proc., 2002, pp. 748 ss. In giurisprudenza, nello stesso senso, Corte cost., 12 novembre 2002, n. 451.

[22] Cfr., per tutti, C. Conti, La riduzione dell'incompatibilità a testimoniare (art. 197 c.p.p.), in Aa. Vv., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, cit., 279 ss.

[23] Ovviamente nel testo ci si riferisce alle sole ipotesi in cui gli imputati connessi o probatoriamente collegati non siano stati giudicati in modo irrevocabile.

[24] Cfr. nuovamente V. Grevi, Le prove, cit., p. 359 s.; P. Tonini - C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 275, nt. 178. V. Corte cost., 12 novembre 2002, n. 451.

[25] Sul tema cfr. A. Sanna, L'interrogatorio e l'esame, cit., pp. 45 ss.

[26] In merito a tale norma non si può in queste sede che richiamare: C. Cesari, Le dichiarazioni rese in giudizio, cit., pp. 3904 ss; O. Dominioni, sub Art. 63, in Aa. Vv., Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio - O. Dominioni, I, Milano, 1989, pp. 398 ss.; F. M. Grifantini, Sulla inutilizzabilità contra alios delle dichiarazioni indizianti di cui all'art. 63, comma 2, c.p.p., in Cass. pen., 1996, pp. 2647 ss.; R. E. Kostoris, sub Art. 63 c.p.p., in Aa. Vv., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, I, 1990, pp. 321 ss.; M. Nigro, L'indagato sentito come testimone: quali poteri al giudice in dibattimento?, in Dir. pen. proc., 2005, pp. 883 ss.

[27] Cfr. Cass., sez. un., 25 febbraio 2010, n. 15208, cit.

[28] Cfr. Corte cost., 29 ottobre 2009, n. 280. Sulla quale si legga la nota di C. Cesari, Le dichiarazioni rese in giudizio, cit., pp. 3904 ss.

[29] V. Cass., sez. un., 25 febbraio 2010, n. 15208, cit., che riprende l'appena citata ordinanza Corte cost., 29 ottobre 2009, n. 280.

[30] Il riferimento è a Cass., sez. un., 13 febbraio 1997, Carpanelli, in Dir. pen. proc., 1997, pp. 600 ss. con nota di A. Sanna, Ristretto l'uso delle dichiarazioni autoindizianti, ivi, pp. 603 ss, anche in Giust. pen., 1999, III, c. 75 ss., con nota di C. Rizzo, Dichiarazioni indizianti e incompatibilità a testimoniare. Si badi che tale pronuncia è ancora costantemente richiamata, cfr., ad esempio, Cass., Sez. II, 12 giugno 2014, n. 40254, in www.iusexplorer.it.

[31] Cfr. Cass., sez. un., 13 febbraio 1997, Carpanelli, cit., p. 602.

[32] Cfr. Cass., sez. un., 13 febbraio 1997, Carpanelli, cit., p. 602.

[33] Cfr. Cass., sez. un., 13 febbraio 1997, Carpanelli, cit., p. 602.

[34] Si ricordi, infatti, che la medesima pronuncia Cass., sez. un., 13 febbraio 1997, Carpanelli, cit., p. 602 ha anche chiarito che le dichiarazioni favorevoli al soggetto che le ha rese e ai terzi restano al di fuori della sanzione di inutilizzabilità di tale norma, alla stregua della ratio della disposizione, ispirata al diritto di difesa.

[35] Cfr. Cass., sez. un., 13 febbraio 1997, Carpanelli, cit., p. 602.

[36] Cfr. M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive, cit., p. 10 afferma che «tutto sta dentro all'art. 64 che - gravido della regola innovativa - se la porta dietro in ogni atto cui esso torna applicabile». Cfr. anche C. Conti, L'imputato nel procedimento connesso, cit., pp. 225 ss; G. Illuminati, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 397.

[37] Cfr. C. Conti, Esame dell'imputato e avvisi ex art. 64 c.p.p.: la Consulta suggerisce l'interpretazione "analogica", in Dir. pen. proc., 2004, p. 180. Nello stesso senso, V. Patanè, Il diritto al silenzio, cit., p. 206.

[38] Cfr. C. Conti, Esame dell'imputato, cit., p. 180.

[39] Cfr. C. Conti, Esame dell'imputato, cit., p. 180.

[40] Si vedano sul punto C. Conti, L'imputato nel procedimento connesso, cit., pp. 279; M. Daniele, La testimonianza "assistita" e l'esame degli imputati in procedimenti connessi, in Aa. Vv., Il giusto processo. Tra contraddittorio e diritto al silenzio, cit. pp. 201 - 202; P. Tonini - C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 286.

[41] Cfr. P. Tonini - C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 286.

[42] Così, P. Tonini - C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 286. Sul tema si vedano, tra i tanti, M. Bargis, voce Testimonianza (dir. proc. pen.), in Enc. dir., II Annali, t. I, Milano, 2008, p. 1109; C. Conti, L'imputato nel procedimento connesso, cit., pp. 278 ss; M. Daniele, La testimonianza "assistita", cit., pp. 200 ss.