ISSN 2039-1676


13 aprile 2015 |

Le motivazioni della sentenza Fincantieri Palermo. La Cassazione torna a occuparsi di amianto

Cass. pen., sez. IV, 21 novembre 2014 (dep. 16 marzo 2015), n. 11128, Pres. Foti, Est. Massafra

1. Dopo la discussa decisione sul caso Eternit, la Cassazione torna nuovamente a occuparsi dell'amianto; stavolta, però, lo fa nell'ambito di un processo caratterizzato da un impianto accusatorio più tradizionale, interamente imperniato sui delitti contro la persona, anziché su fattispecie poste a presidio dell'incolumità pubblica. La pronuncia in esame, con la quale la Suprema Corte ha confermato la condanna di tre ex dirigenti della Fincantieri di Palermo per il delitto di omicidio colposo plurimo, in relazione alla morte di alcuni ex dipendenti del cantiere navale del capoluogo siciliano, tutti deceduti per patologie asbesto-correlate, ha rappresentato, quindi, l'occasione, per i giudici di legittimità, per tornare a riflettere su alcuni temi caldi in materia di responsabilità penale per eventi lesivi derivanti dall'esposizione ad amianto, a partire dalla delicatissima questione relativa all'accertamento del nesso causale nel caso di esposizioni prolungate nel tempo e addebitabili a soggetti diversi, succedutisi negli anni nella titolarità della posizione di garanzia.

Di seguito si propone, quindi, una sintesi dei principali snodi argomentativi della sentenza.

 

2. La Cassazione si occupa in prima battuta delle censure rivolte dai ricorrenti alla sentenza d'appello in punto di nesso causale - che il giudice di seconde cure aveva ritenuto accertato per tutti gli eventi lesivi oggetto di contestazione (morti per mesotelioma pleurico e peritoneale, carcinoma polmonare e asbestosi polmonare) -, svolgendo, in via preliminare, una breve riflessione sui criteri che il giudice di merito deve applicare allorché nel processo emerga una contrapposizione tra diverse tesi scientifiche: "il giudice di merito può scegliere, tra le diverse tesi prospettate dal perito o dai consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia motivatamente conto delle ragioni della scelta, nonché del contenuto della tesi disattesa e confuti le deduzioni contrarie delle parti [...]: sicché, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità procedere a una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità" (pag. 10).

Ciò premesso, la sentenza chiarisce che, in tema di nesso di causa, i motivi di ricorso ruotano attorno a tre capisaldi tematici: (i) l'affidabilità delle diagnosi delle malattie che hanno provocato il decesso delle persone offese; (ii) il possibile intervento di fattori di rischio alternativi all'amianto, soprattutto per ciò che concerne il fumo di sigaretta in relazione al carcinoma polmonare; (iii) i meccanismi eziologici del mesotelioma e del carcinoma polmonare, e, in particolare, la sensibilità di ciascuna di queste patologie alle esposizioni successive a quelle che hanno innescato la malattia.

 

3. Quanto al primo tema, le censure dei ricorrenti investono in particolare le diagnosi di asbestosi e mesotelioma pleurico: riguardo all'asbestosi, a detta dei ricorrenti "difetterebbe il riscontro delle fibre di amianto nei tessuti polmonari delle persone offese", mentre, per il mesotelioma pleurico, "sarebbe stato omesso l'esame immunoistochimico che avrebbe potuto fugare qualsiasi ambiguità clinica" (pag. 12).

La Cassazione giudica entrambe le censure infondate, ritenendo che la Corte d'appello abbia adeguatamente motivato sia in ordine alla "generale affidabilità delle diagnosi formulate da consulenti e periti [...] che rispecchiavano la linea diagnostica dei maggiori protocolli internazionali che indicavano nell'anamnesi lavorativa e nell'esame radiologico il fondamento dell'indagine dell'asbestosi" (pag. 12), sia sulla correttezza della "metodologia diagnostica del mesotelioma pleurico seguita dai periti". In particolare, i giudici di legittimità condividono la scelta del giudice di merito di calibrare il giudizio di affidabilità delle diagnosi di mesotelioma tenendo conto "delle tecniche strumentali adoperate all'epoca della insorgenza delle malattie, non potendo pretendersi che la diagnosi di tale patologia fosse condizionata al rinvenimento di riscontri obiettivi come quello costituito dall'esame immunoistochimico, e ciò in conformità dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità" (pag. 13).

 

4. Neanche le censure relative alla possibile sussistenza di cause alternative all'amianto, in grado di spiegare l'insorgenza delle patologie nelle persone offese, in particolare del carcinoma polmonare - l'unica malattia, tra quelle oggetto di processo, rispetto alla quale può fondatamente sospettarsi l'intervento di fattori eziologici alternativi all'asbesto - meritano accoglimento: la Cassazione ritiene infatti che i giudici di merito abbiano correttamente escluso "la dipendenza della malattia del carcinoma polmonare (non del mesotelioma, strettamente ed esclusivamente collegato all'esposizione ad amianto [...]) da cause alternative ed autonome, quali il fumo (pag. 67-68 sent. impugnata), essendo stato riscontrato l'aumento del rischio di contrarre tale malattia in modo esponenziale per il fumatore esposto all'amianto e quindi l'effetto sinergico dell'amianto nell'insorgenza tumorale" (pag. 14).

 

5. Risolte in questi termini le questioni relative alle diagnosi e alle ipotesi causali alternative, la sentenza stringe quindi il fuoco dell'attenzione sul problema, ormai da tempo al centro di un acceso dibattito, non solo in ambito giuridico, ma anche (e soprattutto) in ambito scientifico, dell'individuazione delle dosi di amianto eziologicamente rilevanti nell'insorgenza e nello sviluppo delle patologie asbesto-correlate; problema che assume rilevanza decisiva, in ambito penalistico, allorché ci si confronti, come nel caso di specie, con lavoratori ammalatisi dopo lunghi periodi di esposizione, nel corso dei quali più soggetti si siano avvicendati nella gestione dell'azienda datrice di lavoro.

A tal proposito, la motivazione afferma anzitutto che "è stata confutata, sulla base delle valutazioni espresse dai periti, la tesi secondo cui l'innesco della patologia possa essere determinato anche da esposizione a bassissime dosi di amianto e possa aver quindi avuto luogo anche in ambito extra lavorativo ed in contingenze che non possono essere ricostruite" (pag. 15).

La sentenza prosegue sostenendo che la letteratura scientifica sarebbe "sostanzialmente convergente sulla circostanza che nella fase di induzione ogni esposizione ha un effetto causale concorrente, non essendo necessario l'accertamento della data dell'iniziale insorgenza della malattia" e che, "pur non essendovi certezze circa la dose sufficiente a scatenare l'insorgenza del mesotelioma pleurico", sarebbe stato "comunque accertato che il rischio di insorgenza è proporzionale al tempo e all'intensità dell'esposizione, nel senso che l'aumento della dose è inversamente proporzionale al periodo di latenza (ovvero l'intervallo temporale compreso tra l'avvio dell'esposizione ad amianto e la data della diagnosi o manifestazione clinica del tumore)" (pag. 15). "Insomma", sostiene la Corte, "la scienza medica riconosce un rapporto esponenziale tra dose cancerogena assorbita determinata dalla durata e dalla concentrazione dell'esposizione alle polveri di amianto e risposta tumorale" (ibidem).

"Analogamente", afferma ancora la Cassazione, "la sentenza impugnata ha mostrato la piena convergenza delle opinioni della comunità scientifica internazionale, al pari della giurisprudenza sulla teoria della 'dose dipendenza' o 'multistadio', senza che sia possibile comprendere a pieno le ragioni dell'isolato dissenso manifestato dai consulenti della difesa, propugnatori dell'opposta e superata teoria della 'trigger dose'" (ibidem).

Il problema dei meccanismi eziologici del mesotelioma pleurico e del carcinoma polmonare, osservano i giudici di legittimità, è stato oggetto di ampia disamina nella motivazione della Corte d'appello, ove in particolare si afferma che "il processo di formazione della patologia cancerogena [...] viene descritto come un'evoluzione a più 'stadi', la cui progressione è determinata dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno con la conseguenza che l'aumento della dose di amianto inalata è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Pertanto, secondo tale teoria, le patologie tumorali (sia il carcinoma polmonare che il mesotelioma pleurico) devono considerarsi dose-correlate, nel senso che il loro sviluppo, in termini di rapidità e gravità, appare condizionato dalla quantità di sostanza cancerogena inalata dal soggetto" (ibidem).

Ne consegue, rileva ancora il giudice di merito, che "a prescindere dall'individuazione della dose-innescante, le esposizioni successive e, quindi, le ulteriori dosi aggiuntive devono essere considerate concausa dell'evento proprio perché esse abbreviano la latenza ed anticipano di conseguenza l'insorgenza della malattia, accorciano la latenza, aggravano la patologia e, nei casi estremi, anticipano la morte" (ibidem).

 

6. La Corte d'appello, nei succitati passaggi della pronuncia di secondo grado richiamati in sede di motivazione dalla Cassazione, sostiene dunque che esisterebbe una correlazione diretta tra aumento della dose di amianto inalata dal soggetto, da un lato, e accorciamento dei tempi di latenza della malattia e aggravamento degli effetti provocati dalla stessa sull'organismo, dall'altro lato; ciò detto, il ragionamento del giudice di merito procede in questi termini: "deve, quindi, affermarsi che in tutte le patologie per cui è processo, il rischio aumenta all'aumentare della dose e che indubbia rilevanza causale posseggono gli effetti cumulativi delle esposizioni successive rispetto a quella iniziale" (pag. 16). Il che significa, prosegue il giudice di seconde cure, che "sussiste un rapporto esponenziale della dose di cancerogeno assorbita in termini di risposta tumorale, per cui l'aumento della detta dose di cancerogeno assorbito non potrà che comportare evidentemente un accrescimento della frequenza con cui il tumore tende a manifestarsi e che, a contrario, un'eventuale riduzione dell'intensità e durata dell'esposizione lavorativa all'amianto avrebbe causato una riduzione del rischio di contrarre le patologie per cui oggi è processo" (ibidem).

In quest'ultimo passaggio della sentenza, l'argomentare del giudice di merito scivola, senza soluzione di continuità, dalla questione relativa alla rilevanza causale delle esposizioni successive a quelle che hanno determinato l'innesco della patologia - dosi che la Corte d'appello considera idonee a provocare un accorciamento dei tempi di latenza e un aumento dell'aggressività della patologia - alla diversa questione concernente l'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e aumento dell'incidenza delle patologie asbesto-correlate. Sembra peraltro di capire che la Corte d'appello ritenga che entrambe tali questioni troverebbero una soluzione comune nella tesi della natura "dose-dipendente" delle patologie asbesto-correlate, tesi che la sentenza di merito considera assolutamente dominante in ambito scientifico, e che - nella prospettiva della Corte d'appello, esplicitamente avallata dalla Cassazione - postulerebbe, indifferentemente, sia la capacità delle dosi successive a quelle di innesco di incidere sullo sviluppo della malattia, sia un aumento del rischio di contrarre la patologia a fronte di un aumento dell'esposizione ad amianto.

Sulla scorta di tali principi, la Corte d'appello - le cui valutazioni sul punto vengono espressamente condivise dai giudici di legittimità - conclude nel senso che "tutte le esposizioni alle sostanze nocive, cui pacificamente sono stati sottoposti i lavoratori deceduti, e quelli nei cui confronti è stata accertata la sussistenza di una patologia amianto correlata, hanno svolto un ruolo concausale, quantomeno nell'anticipare la data di insorgenza della malattia e/o della morte" (pag. 16).

 

7. Tali conclusioni, in tema di nesso causale, vengono poi ribadite dalla Corte di Cassazione nella parte conclusiva della sentenza, ove i giudici di legittimità passano in rapida rassegna le statuizioni della Corte d'appello in relazione a ciascuna delle imputazioni di omicidio colposo, condividendo per intero le valutazioni espresse dal giudice di merito in ordine alla sussistenza del nesso eziologico tra tutti gli eventi morte oggetto di contestazione e le esposizioni ad amianto concretamente addebitabili agli imputati; esposizioni che, nella maggior parte dei casi, oltre a corrispondere a una quota soltanto dell'intera esposizione sofferta dalla persona offesa, neppure coincidono con le prime esposizioni, e che, tuttavia, vengono riconosciute come causalmente rilevanti, quanto meno in termini di accorciamento del tempo di latenza o di aggravamento degli effetti della malattia, proprio in ragione dell'asserita natura "dose-dipendente" delle patologie oggetto di processo.

 

8. Esaurite le questioni attinenti all'accertamento del nesso causale, la sentenza esamina e risolve in modo estremamente sintetico le censure relative ai temi della colpa e della posizione di garanzia.

In punto di elemento soggettivo, la Cassazione condivide la valutazione della Corte d'appello, secondo la quale le risultanze processuali avrebbero smentito "le tesi circa l'imprevedibilità dell'evento attesa la piena consapevolezza della specifica pericolosità dell'assunzione per via aerea di microfibre di amianto e della loro correlazione con processi cancerogeni, nota fin dal 1964 e la prevedibilità degli eventi dannosi (pag. 125 e ss.) con richiamo alle sentenze di questa Corte" (pag. 19).

Quanto, invece, all'obbligo giuridico di impedire l'evento, la sentenza rileva che "gl'imputati, in quanto dirigenti, erano gravati da una posizione di garanzia derivante dal disposto del D.P.R. n. 547 del 1956, art. 4, (in materia di infortuni sul lavoro) ed D.P.R. n. 3030 del 1956, art. 4, (in materia di igiene sul lavoro), ove è previsto che i dirigenti devono attuare le misure di sicurezza e di igiene e fornire ai lavoratori i mezzi necessari di protezione, oltre che renderli edotti dei rischi specifici a cui sono esposti. Inoltre, in quanto presenti in stabilimento, erano coloro che avevano maggiore prossimità con i beni giuridici da tutelare e garantire". "Ne consegue", prosegue sul punto la sentenza, che "in quanto titolari di poteri di vigilanza ed attuazione delle misure di sicurezza ed igiene, nonché impeditivi anche a costo di interrompere l'attività produttiva [...], avevano una posizione normativa e funzionale di garanzia dell'incolumità dei lavoratori operanti nell'azienda" (ibidem).

Di talché, concludono i giudici di legittimità, bene hanno fatto i giudici di merito a ritenere "l'inottemperanza degl'imputati, quali titolari della predetta posizione di garanzia rispetto ai danni provocati ai propri dipendenti in quanto gestori dello stabilimento, all'onere di adottare serie misure di prevenzione per l'eliminazione o riduzione della polverosità delle lavorazioni (già note all'epoca e necessarie a captare ed eliminare le polveri di asbesto, quali mascherine con filtri speciali ed aspiratori), condotta che avrebbe evitato o ritardato o alleviato le malattie non mortali e evitato o ritardato quelle mortali (tutte dosi dipendenti) o allungato la relativa durata, spostandone in avanti l'infausto esito" (ibidem).

 

9. La sentenza in esame offre interessanti spunti di riflessione, che verranno senz'altro raccolti e sviluppati da commenti più approfonditi. Preme tuttavia richiamare l'attenzione sin d'ora - anche nell'ottica di un futuro e auspicabile riaccendersi del dibattito dottrinale attorno ai problemi (di natura medico-epidemiologica, ancor prima che giuridica) relativi all'accertamento del nesso di causa nei processi per amianto - su un aspetto critico dell'argomentazione della sentenza, in particolare in tema di individuazione delle esposizioni eziologicamente rilevanti ai fini dell'insorgenza e dello sviluppo delle patologie asbesto-correlate. Aspetto critico che, peraltro, si riscontra con una certa puntualità nella giurisprudenza di legittimità e di merito che in questi ultimi anni si è occupata di responsabilità penale per esposizione ad amianto.

Si fa riferimento, nello specifico, all'idea, che appare sottesa all'intero ragionamento svolto dai giudici di legittimità in tema di nesso di causa, che il dibattito scientifico attorno ai meccanismi eziologici delle patologie oncologiche asbesto-correlate si risolva nella contrapposizione tra due sole tesi: la tesi della c.d. trigger dose e la tesi della natura dose-dipendente di tali patologie. Più in particolare, la contrapposizione viene presentata in questi termini: da un lato, vi sarebbe chi sostiene che le dosi rilevanti sono solo le primissime (e bassissime) dosi cui il soggetto poi ammalatosi è stato esposto, con conseguente irrilevanza di tutte le dosi successive sia sotto il profilo del rischio di contrarre la patologia (nel senso che le esposizioni successive a quelle iniziali non aumenterebbero il rischio di contrarre la malattia) sia sotto il profilo dell'incidenza sullo sviluppo della patologia già insorta (nel senso che le esposizioni successive a quelle iniziali non influenzerebbero il decorso della malattia innescata dalle prime dosi inalate dal soggetto) (tesi della c.d. trigger dose); dall'altro lato, vi sarebbe chi invece sostiene che tutte le dosi hanno rilevanza causale, vuoi perché aumentano il rischio di contrarre la malattia, vuoi perché, a malattia già insorta, ne aggravano gli effetti o ne diminuiscono la latenza (tesi della natura dose-dipendente).

A detta dei giudici di legittimità, peraltro, ormai da tempo la dialettica scientifica si sarebbe risolta nel senso della definitiva affermazione della tesi della dose-dipendenza del mesotelioma e del carcinoma polmonare; tanto che la Cassazione si dichiara stupita dal tentativo dei consulenti della difesa di riproporre la tesi della trigger dose.

Ebbene, l'impressione è che la Cassazione, in questo verosimilmente fuorviata dall'uso ambivalente che gli stessi consulenti tecnici spesso fanno del concetto di dose-dipendenza - a volte utilizzato per segnalare l'esistenza di un rapporto esponenziale tra aumento dell'esposizione e aumento del rischio di contrarre la patologia, altre volte invece utilizzato per affermare la capacità delle dosi successive alle prime di incidere sullo sviluppo della malattia -, non abbia compreso che, in realtà, un conto è affermare che chi è più esposto ad amianto ha più probabilità di ammalarsi di mesotelioma o carcinoma polmonare rispetto a chi è meno esposto a tale sostanza; tutt'altro conto è invece affermare che, una volta innescatosi il processo cancerogeno, l'aumento dell'esposizione comporta un'accelerazione dello sviluppo della malattia (e, conseguentemente, un'anticipazione dell'evento morte) ovvero un aggravamento degli effetti della patologia.

Queste due affermazioni, a ben vedere, fanno riferimento a problemi eziologici completamente diversi, che non risultano in alcun modo collegati tra loro, e rispetto ai quali la stessa comunità scientifica ha maturato, nel tempo, riflessioni e valutazioni profondamente differenti.

Se, infatti, può convenirsi con la sentenza allorché afferma che, in ambito scientifico, pare ormai prevalere la tesi secondo cui l'aumento della dose provoca un aumento dell'incidenza delle malattie asbesto-correlate e che dunque coloro che sono più esposti ad amianto si ammalano di mesotelioma e carcinoma polmonare con maggiore frequenza rispetto a coloro che sono meno esposti, è invece del tutto errato sostenere, come fanno i giudici di legittimità, che la comunità scientifica sarebbe altrettanto coesa nel sostenere la rilevanza causale delle dosi successive a quelle di innesco.

In primo luogo, in ambito scientifico non è chiaro quali siano le dosi che provocano l'innesco della malattia: esiste, infatti, ancora oggi, una forte incertezza sui meccanismi di avvio del processo di cancerogenesi, anzitutto per ciò che concerne i tempi necessari per arrivare al momento di formazione inevitabile della patologia (c.d. periodo di induzione).

In secondo luogo, a quanto ci consta, non esiste alcuno studio scientifico che abbia mai osservato (né a livello sperimentale, né a livello epidemiologico) un'effettiva accelerazione dell'insorgenza della malattia ovvero una sua maggiore aggressività nei soggetti più esposti ad amianto.

Senza contare, da ultimo, che - come peraltro già opportunamente evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione nella nota sentenza Cozzini -, quand'anche esistesse evidenza scientifica a supporto della tesi che, in linea generale, l'aumento dell'esposizione è in grado di incidere sullo sviluppo della patologia, resterebbe in ogni caso da verificare se, nel singolo caso, l'esposizione protratta ha effettivamente provocato un'abbreviazione dei tempi di latenza o un aggravamento degli effetti della malattia. Verifica che non pare essere stata condotta nel processo in esame, ove i giudici - di merito e di legittimità - hanno invece ritenuto di desumere la rilevanza causale delle esposizioni addebitate agli imputati sulla base della sola natura dose-dipendente delle patologie contratte dalle persone offese.