ISSN 2039-1676


11 giugno 2015 |

La Cassazione sul caso delle 'quote latte' (esclusi peculato e truffa)

Cass. Pen., Sez. VI, 16.10.2014 (dep. 12.1.2015), n. 897, Pres. Garribba, Rel. Di Stefano, ric. Barberis

1. La sentenza della Corte di Cassazione, che può leggersi in allegato, conclude una nota vicenda processuale relativa alle cd. "quote latte" e si segnala in particolare per aver escluso che l'omesso versamento del "prelievo supplementare" da parte del "primo acquirente" integri il reato di peculato, difettando - a parere della S.C. - tanto la qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo a quel soggetto, quanto la condotta di impossessamento di denaro della pubblica amministrazione.

 

2. E' opportuno, anzittutto, richiamare per sommi capi la complessa disciplina extrapenale sullo sfondo della sentenza qui segnalata. Per contenere la produzione del latte, e le conseguenti ricadute sui prezzi di un'offerta superiore alla domanda, l'Unione Europea ha imposto agli Stati membri un apposito sistema di controllo dal lato dell'offerta (cioè dei produttori di latte). A tale scopo, a ciascuno Stato membro viene attribuita una "quota" di produzione[1], il cui superamento comporta da parte del "primo acquirente" il pagamento di un "prelievo supplementare" parametrato al surplus di quantità di latte prodotta. L'applicazione di tale "prelievo supplementare" funge da deterrente e mira a rendere antieconomica la sovrapproduzione di latte[2].

La legge 119/2003 ha, quindi, introdotto un particolare meccanismo di individuazione delle quote latte spettanti a ciascun produttore, affidando la gestione e riscossione del "prelievo supplementare" all'Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Agea) e istituendo due appositi registri: l'elenco degli "acquirenti" di latte e l'elenco contenente il quantitativo individuale di "quote" attribuito a ciascun produttore[3]. Il meccanismo con cui viene effettuato il prelievo supplementare ai sensi della normativa nazionale è il seguente: l'acquirente, al momento dell'acquistotrattiene l'importo corrispondente al prelievo supplementare relativo al latte consegnatogli in esubero, per poi versarlo direttamente all'Agenzia per le Erogazioni[4].

 

3. Orbene, nel caso di specie, secondo la prospettazione accusatoria, gli imputati - produttori splafonatori di latte - si sarebbero associati in cooperative esercenti attività di "primo acquisto del latte" per poter assumere la qualifica di "primo acquirente" e, in tale veste, gestire gli importi del prelievo supplementare, omettendone il pagamento. La sentenza di primo grado del Tribunale di Milano[5] - già pubblicata in questa Rivista - aveva, per la prima volta nel panorama giurisprudenziale, ritenuto che la condotta di mancato versamento del prelievo supplementare integrasse il reato di peculatoTale conclusione si fondava essenzialmente su due presupposti: la qualità di incaricato di pubblico servizio del primo acquirente di latte (le cooperative di produttori nel caso di specie) e la natura "pubblica" del denaro destinato al pagamento del prelievo supplementare.

  • Con riferimento al primo profilo, il Tribunale aveva ritenuto la natura pubblicistica del ruolo assunto dal primo acquirente, nella sua sostanziale veste di "sostituto d'imposta" iscritto in apposito elenco. Si tratterebbe infatti di soggetto che ha la diretta disponibilità di somme destinate all'attuazione delle politiche di regolamentazione del mercato (ovvero le somme destinate al prelievo).
  • Circa la natura pubblica della somma destinata al "prelievo supplementare" invece, il Tribunale di Milano prima e la Corte d'Appello poi avevano ritenuto che l'importo corrispondente al prelievo assumesse "una connotazione [..] pubblicistica per la destinazione [...] impressa". In altre parole, la natura pubblica della somma sarebbe correlata alla sua destinazione vincolata, indipendentemente dall'effettivo pagamento dell'importo.

In tal modo, il Tribunale superava il precedente orientamento giurisprudenziale che per condotte analoghe aveva sempre escluso la configurabilità del reato di peculato[6], inquadrando piuttosto l'omesso versamento del prelievo supplementare da parte delle cooperative di produttori nel reato di truffa aggravata ai danni dello Stato e dell'Unione Europea[7].


4. Avverso la sentenza d'appello, che aveva confermato l'impianto argomentativo della sentenza di primo grado, ricorrevano dunque per Cassazione gli imputati lamentando, per quanto qui interessa, l'erronea qualificazione giuridica dei fatti, non potendo il primo acquirente essere inquadrato come incaricato di pubblico servizio e dovendo ritenersi che la somma da versare fosse inquadrabile come cosa propria del "primo acquirente", e non altrui. Investita in questi termini del ricorso, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza che può leggersi in allegato, ha escluso che il caso di specie configuri il reato di peculato, nonché di appropriazione indebita e truffa, annullando senza rinvio la sentenza impugnata, per insussistenza del fatto.

Anzitutto, contrariamente a quanto ritenuto nei due precedenti gradi del giudizio, la S.C. esclude che il "primo acquirente" assuma la qualifica di incaricato di pubblico servizio: nessuna disposizione espressa o implicita consente di concludere nel senso della sussistenza della qualità di incaricato di pubblico servizio in capo a quel soggetto. La diversa conclusione adottata nei precedenti gradi del giudizio muoverebbe secondo la S.C. da una scorretta lettura dei compiti attribuiti alla figura e dall'erronea interpretazione della funzione e natura dell'albo degli acquirenti del latte. Infatti, osserva la Suprema Corte, la ricostruzione giuridica "normale" e "più immediata" del rapporto intercorrente tra primo acquirente ed ente pubblico non può che essere quella del soggetto privato che paga all'ente pubblico, in questo assimilabile a qualsiasi cittadino nei rapporti con il Fisco. Ritenere quindi il primo acquirente un incaricato di pubblico servizio condurrebbe all'assurdo logico di qualificare come tale anche il contribuente che paga le imposte, dovendolo qualificare come soggetto preposto alla tutela degli interessi della finanza pubblica.

E' chiaro inoltre - secondo la Suprema Corte - che l'albo degli acquirenti non può essere paragonato agli albi professionali, considerato, tra l'altro, che in questi casi è l'attività stessa di riferimento ad esser qualificata come pubblico servizio per previsione di legge. La funzione dell'elenco degli acquirenti, in verità, sarebbe quella, più limitata, di consentire la tracciabilità degli acquisti stessi e garantire la solvibilità dell'acquirente[8]. Pertanto, "il commerciante inserito nelle liste degli acquirenti autorizzati resta un comune privato".

Quanto poi al secondo argomento su cui si è fondata la decisione assolutoria, la Corte nega che la somma oggetto di versamento a titolo di prelievo supplementare possa considerarsi di pertinenza pubblica ed afferma conseguentemente la mancanza, nel caso di specie, della condotta di impossessamento di denaro della pubblica amministrazioneNon vi sarebbe alcuna ragione, infatti, di ricostruire la vicenda nei termini artificiosi fatti propri dalla sentenza di primo grado dovendo invece, più semplicemente, ritenersi che il primo acquirente sia un privato che ha un obbligo pecuniario nei confronti dell'ente pubblico, cui non adempie. Le somme destinate al pagamento quindi non assumerebbero una connotazione pubblicistica soltanto in ragione della loro destinazione, ma sarebbero semplicemente somme di un soggetto privato inadempiente verso un obbligazione pecuniaria[9]. E' quindi chiaro che in tal modo viene meno il requisito, indispensabile ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 314 c.p., dell'altruità della somma oggetto di appropriazione.

 

5. Quest'ultima precisazione consente alla S.C. di escludere altresì che la condotta degli imputati integri il delitto di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. Infatti, se il pagamento del prelievo supplementare è considerato non già somma ab initio di pertinenza pubblica ma solo l'oggetto di un'obbligazione pecuniaria del privato, la somma destinata al pagamento del prelievo non può essere qualificata come denaro altrui. Come è noto, questioni analoghe sono state affrontate dalla giurisprudenza in materia di contributi ed indennità previdenziali[10] o ritenute a titolo di imposta. In questi casi, infatti, il datore di lavoro trattiene gli importi destinati al pagamento del contributo e li versa direttamente all'Ente di riferimento, senza trasferirli prima al beneficiario. Il privato che omette tale pagamento dunque non si appropria di una somma di denaro altrui, poiché quest'ultimo è sempre rimasto nel suo patrimonio.

La qualificazione penale di simili condotte ruota quindi principalmente attorno alla nozione di altruità della cosa nei termini che potrebbero così essere riassunti: può dirsi che la somma destinata ad un adempimento del privato a beneficio di un altro soggetto (pubblico) diventi "altrui" qualora il primo ne ometta il pagamento? La risposta fornita dalla S.C. nel caso di specie è negativa. Pervenendo a tale conclusione, si è aderito all'orientamento giurisprudenziale ribadito in una pronuncia delle Sezioni Unite del 2011: in quel caso il Supremo Collegio, nella sua composizione più autorevole, ha affermato che va esclusa la configurabilità dell'appropriazione indebita poiché in simili ipotesi non può considerarsi altrui la somma destinata al pagamento, trattandosi di somme mai fuoriuscite dalla sfera patrimoniale del soggetto[11].

 

6. Secondo la S.C., d'altra parte, non sarebbe ravvisabile nel caso di specie  nemmeno una truffa, non sussistendo gli estremi nè degli artifizi e raggiri nè della induzione in errore e di un conseguente atto di disposizione patrimoniale. Infatti, la condotta tenuta dagli imputati sarebbe priva del carattere fraudolento richiesto dall'art. 640 c.p.: dalle risultanze processuali è infatti emerso che la cooperativa di produttori operava effettivamente e non era fittizia. In secondo luogo, la pubblica amministrazione non sarebbe stata indotta in errore, in quanto la condotta è stata realizzata in modo 'trasparente'. 

 


[1] La cd. "quota latte" pertanto è il quantitativo massimo di latte, espresso in chilogrammi, producibile da ciascuna azienda.

[2] La funzione del prelievo supplementare è ben evidenziata dalla Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. VI, 25 marzo 2004, ove si afferma che "Il regime di prelievo supplementare mira a ristabilire l'equilibrio fra domanda e offerta sul mercato lattiero, caratterizzato da eccedenze strutturali, limitando la produzione lattiera. [..] Il prelievo supplementare sul latte costituisce una restrizione dovuta a regole di politica dei mercati o di politica strutturale" e non, quindi, una sorta di penalità.

[3] E' importante precisare, poi, che l'omesso adempimento degli obblighi previsti in capo al "primo acquirente" comporta, ai sensi dell'art. 5 del decreto, l'applicazione di una sanzione amministrativa.

[4] E'consentito, in ogni caso, sostituire l'immediato versamento con la prestazione ad Agea di una fideiussione bancaria a prima richiesta.

[5] Per un'analisi più approfondita della sentenza di primo grado, si veda Ascione M., Quote latte e responsabilità a titolo di peculato del legale rappresentante della società cooperativa, in Giur. Merito, fasc. 4, 2012.

[6] Si fa riferimento, in particolare, alla Sent. del Tribunale di Pordenone n. 308 del 4 maggio 2010.

[7] Nelle precedenti pronunce relative a casi analoghi, in particolare, erano stati individuati gli artifizi e raggiri nell'utilizzo indebito della qualità di primo acquirente e l'ingiusto profitto negli importi corrispondenti ai prelievi supplementari non versati. Cfr. Trib. Pordenone n. 308 del 4 maggio 2010; Trib. Saluzzo, sent. n. 411 dep. 15 luglio 2009;

[8] La conferma di questa conclusione potrebbe desumersi dai requisiti necessari per l'iscrizione nell'elenco, che fanno riferimento soltanto all'attività, privata, di esercizio commerciale. Non vi è quindi un riferimento all'esercizio di un attività "pubblica".

[9] D'altro canto, se così non fosse non avrebbe alcun senso la possibilità, prevista dalla normativa di settore, di sostituire il versamento con la prestazione ad Agea di una fideiussione bancaria a prima richiesta. Da ciò si desume che le somme destinate al pagamento sono, e restano, riconducibili al privato che acquista il latte.

[10] Si veda, a tal proposito, Finocchiaro S., Falsa dichiarazione all' I.n.p.s. e indebita compensazione: una fattispecie in bilico tra diverse qualificazione giuridiche, in questa Rivista.

[11]  Si legge nella sentenza, in particolare che "non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista - ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo - la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell'assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall'art. 36 Cost.; sicché non v'è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita". Per un commento alla pronuncia delle S.U., v. Romeo G., Le Sezioni Unite intervengono, di nuovo, sulla pretesa appropriazione indebita da parte del datore di lavoro, di emolumenti dovuti al dipendente, in questa Rivista.