ISSN 2039-1676


07 aprile 2016 |

Caso MPS: la sentenza del Tribunale di Siena in materia di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità  di vigilanza

Nota a Tribunale di Siena, sent. 29 gennaio 2015, n. 762/2014, imp. Baldassarri

 

1. La sentenza in commento - con cui il Tribunale di Siena ha condannato i vertici di MPS per il delitto di "ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza" di cui all'art. 2638 c.c., secondo comma - si inserisce nella nota vicenda giudiziaria che ha visto protagonista l'istituto di credito Monte dei Paschi di Siena (MPS).

Al centro dei numerosi procedimenti celebrati in diversi tribunali d'Italia - come già illustrato in un precedente contributo pubblicato in questa Rivista[1] - vi è la realizzazione, da parte di MPS, di due specifiche operazioni, aventi ad oggetto l'acquisto di strumenti finanziari ad alto rischio.

Con la prima operazione, nel 2005, MPS aveva infatti acquistato da Nomura International, un intermediario finanziario, le cc.dd. notes Alexandria. Questo titolo, altamente aleatorio, nel corso del tempo si era drasticamente deprezzato, producendo per il MPS una perdita stimabile in circa 220 milioni di euro. Quattro anni più tardi, nel 2009, MPS e Nomura International avevano portato a compimento una seconda e ancor più complessa negoziazione, con cui l'istituto di credito senese aveva acquistato un diverso strumento finanziario: dei BTP con scadenza nel 2034. Anche questa volta l'operazione si era rivelata aleatoria e speculativa, e anche questa volta particolarmente onerosa per MPS.

Secondo la ricostruzione accusatoria, le due operazioni erano da considerarsi fra loro collegate. In particolare, la seconda sarebbe stata finalizzata ad evitare - nell'imminenza del rinnovo delle cariche sociali - l'evidenza della grave perdita gestionale causata dalle notes Alexandria, in modo da permettere al management di mantenere i vantaggi e le posizioni di privilegio fino ad allora godute. Nomura International, infatti, aveva accettato, con il secondo accordo, di farsi carico della resa negativa delle notes in cambio della stipula - nell'ambito del nuovo strumento derivato - di clausole nettamente sbilanciate in suo favore.

In ipotesi d'accusa, la prova del collegamento tra le due operazioni sarebbe ricavabile dal rinvenimento, nell'ottobre 2012, in seguito al cambiamento dei vertici di MPS, di un documento denominato "Mandate agreement", risalente al luglio 2009, intercorso tra MPS e Nomura e non esibito agli ispettori della Banca d'Italia responsabili degli accertamenti condotti sul comparto finanza di MPS tra il 2010 e il 2012.

Il procedimento penale poi sfociato nella sentenza in commento è incentrato proprio sulla condotta di occultamento del Mandate agreement nei confronti della Banca d'Italia, realizzata in concorso da Presidente, Direttore Generale e Direttore dell'area finanza di MPS e qualificata dal Tribunale come "ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza" ai sensi dell'art. 2638 comma 2 c.c., sebbene l'imputazione fosse formulata ai sensi del primo comma del medesimo articolo.

 

2. Il primo dato da segnalare nell'analisi della decisione del Tribunale di Siena concerne proprio la riqualificazione giuridica del fatto di reato operata dal Giudice.

Agli imputati viene contestato di aver occultato il contratto di Mandate agreement, attraverso il quale si realizzava un collegamento finanziario e giuridico tra le due operazioni già descritte, con mezzi fraudolenti consistiti nel celare il documento per circa tre anni nella cassaforte del Direttore Generale, così consapevolmente ostacolando le funzioni di vigilanza della Banca d'Italia.

Il fatto, così descritto nel capo di imputazione, è sussunto dalla Pubblica Accusa nel comma 1 dell'art. 2638 c.c., mentre il Tribunale condanna gli imputati ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, rilevando una sorta di "interferenza" nella formulazione dell'imputazione.

La norma, infatti, prevede, al comma 1, un reato di pericolo che si realizza allorquando "gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, nelle comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l'esercizio delle funzioni di vigilanza, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza". Il secondo comma dell'art. 2638 c.c. prevede, invece, un reato di danno, punendo i medesimi soggetti qualora "in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente ne ostacolino le funzioni".

La contestazione, dunque, sebbene l'unico riferimento normativo espressamente richiamato nel capo di imputazione sia il primo comma dell'art. 2638 c.c., è il risultato di una sorta di combinazione tra le due fattispecie, descrivendo una condotta connotata da mezzi fraudolenti in cui, però, il concreto ostacolo alle funzioni di vigilanza della Banca d'Italia realizzato dagli imputati viene inteso non solo quale oggetto verso il quale si rivolge il dolo specifico richiesto dal primo comma della norma, ma anche quale evento di danno consapevolmente cagionato dalla condotta criminosa ai sensi del comma 2, del quale è richiamato anche l'avverbio "consapevolmente".

Tale impostazione, peraltro, sembra essere il frutto di una scelta consapevole dell'ufficio del Pubblico Ministero, laddove lo stesso organo dell'accusa chiedeva, nelle conclusioni presentate in esito all'istruttoria dibattimentale, che il danno di ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza fosse qualificato, in via principale, quale post factum non punibile ma valutabile ai fini del trattamento sanzionatorio in relazione al primo comma della norma, o, in subordine, qualora il Tribunale non avesse ritenuto integrato l'estremo dei mezzi fraudolenti, quale evento della fattispecie causalmente orientata di cui al secondo comma.

 

3. Il Tribunale, esaminando i rilievi avanzati sul punto dalle difese degli imputati nella prospettiva in cui il Collegio ritenesse applicabile l'ipotesi disciplinata dal secondo comma, chiarisce che una siffatta contestazione, "se certamente impone di sussumere il fatto per cui è processo entro una delle ipotesi delineate nell'imputazione", non si traduce in un pregiudizio ai diritti della difesa.

Il Collegio giudicante afferma, a tal proposito, che l'ipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Siena si sostanzia, ab origine, anche nella contestazione "in fatto" dell'illecito di cui al secondo comma dell'art. 2638 c.c., mentre al riguardo non assume rilievo che il capo di imputazione non contenga la formale indicazione della sua violazione, atteso che proprio la descrizione del fatto consente di evincere anche tale contestazione - peraltro espressamente considerata, come già rilevato, nelle conclusioni del Pubblico Ministero. Osserva inoltre il Tribunale che la formulazione accusatoria, con tutte le sue implicazioni, era stata esaminata dalle difese fin dagli atti preliminari del dibattimento, con il deposito di memorie che contemplavano anche la prospettiva che il Collegio ritenesse integrata proprio la fattispecie di cui al secondo comma.

Non vi è, di conseguenza, nel caso portato all'attenzione del Tribunale di Siena, alcun pregiudizio dei diritti di difesa degli imputati, atteso che, anche nella prospettiva valorizzata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel leading case Drassich c. Italia, il capo di imputazione in esame renderebbe "prevedibile per gli imputati una definizione giuridica intesa quale scelta, in esito all'istruzione dibattimentale, tra le due ipotesi accusatorie "evocate" fin dall'inizio dall'ufficio del Pubblico Ministero". Inoltre, la stessa giurisprudenza della Corte EDU sottolinea la possibilità per l'imputato - qualora, come nel caso in esame, la nuova qualificazione giuridica intervenga nella sentenza di primo grado - di far valere le proprie ragioni anche nel merito davanti al giudice nazionale, richiamando il potere del giudice dell'impugnazione di esaminare la vicenda processuale nella sua interezza, da un punto di vista sia procedurale sia sostanziale.

Il Tribunale esclude, dunque, la sussistenza di qualsiasi violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, sottolineando, in conclusione, come il potere di riqualificazione giuridica del fatto ex officio risulti, nel caso in esame, legittimamente esercitato anche nella prospettiva assunta dalla Corte di Cassazione, che valorizza sia "la possibilità nella fase di merito" per l'imputato o il suo difensore "di interloquire anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione avverso la sentenza di primo grado", sia la circostanza per cui "la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili (si potrebbe dire "non sorprendenti") epiloghi decisori del giudizio di merito o di legittimità, stante la riconducibilità del fatto storico ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l'eventuale esclusione dell'una comporta, inevitabilmente, l'applicazione dell'altra".

 

4. Come si è già anticipato, il Tribunale - in qualche modo approfittando dell'ambiguità del capo di imputazione - decide di ricondurre il fatto contestato agli imputati alla fattispecie di danno di cui al comma 2 dell'art. 2638 c.c. pur essendo in presenza di una condotta connotata dai requisiti più stringenti previsti dalla sola fattispecie di pericolo di cui all'art. 2628 comma 1 c.c. Il Collegio ritiene infatti che, essendosi verificato, nel caso di specie, l'evento di ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza, si sia realizzata la forma più intensa di lesione al bene giuridico descritta dal secondo comma 2 della norma.

Il provvedimento prosegue quindi con l'analisi, quanto mai opportuna se si considera l'assenza o quasi di precedenti, della fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 2638 c.c.

Particolare attenzione è dedicata dalla sentenza in commento - ed è questo il secondo profilo che merita di essere segnalato - all'individuazione della nozione di "ostacolo" agli organismi di vigilanza, evento naturalistico ed elemento centrale e caratterizzante della fattispecie a forma libera.

La sentenza - pur rilevando l'esistenza in dottrina di posizioni che, rimarcando l'indeterminatezza di tale nozione, evidenziano la possibile frizione della norma con il principio di tassatività - ritiene possibile superare tali perplessità sfruttando la portata selettiva insita nell'oggettività giuridica della norma incriminatrice.

Il bene giuridico tutelato dall'art. 2638 c.c. viene individuato nel corretto esercizio delle funzioni di vigilanza delle autorità pubbliche, cui è affidato il controllo di singoli segmenti del mercato finanziario e, dunque, nella correttezza dei rapporti tra soggetto vigilato ed ente vigilante, al fine di consentire la piena legittimità ed efficacia dell'azione di vigilanza. La norma, in buona sostanza, tutela obblighi informativi che, se correttamente adempiuti, garantiscono il corretto esercizio delle funzioni di pubblica vigilanza.

La sentenza precisa, sul punto, la necessità di "concretizzare il bene giuridico così individuato in modo tale che l'ostacolo di cui al secondo comma possa essere integrato non da qualsiasi disobbedienza o scorrettezza meramente formale, bensì da una condotta che effettivamente leda l'esercizio delle funzioni di vigilanza strumentali e idonee al raggiungimento degli scopi alla cui salvaguardia è preposta l'autorità stessa".

L'ostacolo all'esercizio delle funzioni dell'autorità di vigilanza, ne deriva, deve essere "non momentaneo e non irrilevante, e cioè capace di sviare l'attività di indagine dell'autorità di vigilanza". Al tempo stesso, l'ostacolo di cui all'art. 2638 co. 2 c.c. non sembra richiedere l'esistenza di "un impedimento insuperabile o definitivo", essendo invece sufficiente "un quid valido a ridurre gli effetti e la portata dell'attività di vigilanza, ovvero anche a ritardarne in termini significativi il compimento". In altre parole, per ostacolo si intende qualunque forma di intralcio, ritardo, sviamento della funzione di controllo tale da "renderla meno efficace e pronta" o da "imporre all'autorità uno sforzo aggiuntivo per ottenere le informazioni veridiche e complete che avrebbe avuto il diritto di ricevere".

 

5. Passando all'esame della condotta, il Tribunale osserva che, poiché il delitto in esame è classificabile come reato d'evento a forma libera, deve ritenersi penalmente rilevante ogni condotta causalmente connessa all'evento di danno, e cioè all'impedimento alle funzione di vigilanza. È la stessa lettera della legge, d'altra parte, a incriminare le condotte che "in qualsiasi forma" ostacolano l'operato degli organi di vigilanza e a includere espressamente, tra le condotte rilevanti, anche ipotesi di carattere omissivo. Riprendendo le conclusioni cui erano già giunte giurisprudenza e dottrina precedenti, il Tribunale sottolinea che "si tratta di un catalogo eterogeneo ma non indeterminato di condotte", caratterizzato da comportamenti di ostruzionismo, opposizione o mancata collaborazione causalmente connessi all'evento di ostacolo, da intendersi nei termini già descritti.

Ai fini dell'art. 2638 co. 2 c.c., di conseguenza, conclude il Collegio, sarà punibile qualsiasi condotta, sia commissiva sia omissiva, che impedisca all'autorità pubblica di vigilanza di esercitare le sue funzioni in modo corretto ed efficace.

 

6. Il Tribunale termina l'analisi della norma cercando di definire "i contorni del fatto rilevante ai fini dell'esercizio dell'attività di vigilanza", e dunque "destinato, per sua stessa natura, ad essere comunicato".

Il Tribunale afferma infatti che "a prescindere dal rilievo che il secondo comma dell'art. 2638 c.c. preveda un reato a forma libera, integrabile anche una condotta meramente omissiva - senza indicazione di soglie di significatività oggettiva delle informazioni non comunicate (che possono anche consistere in aspetti ulteriori e diversi da quelli strettamente inerenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei vigliati)", la condotta concreta posta in essere dagli imputati "risponde anche al criterio selettivo di cui al primo comma", rendendo dunque opportuno l'esame di questo ulteriore elemento della fattispecie.

Secondo la ricostruzione dottrinale più diffusa, riportata in sentenza, i "fatti" sono espressione di un obbligo di comunicazione a carico del soggetto sottoposto a vigilanza, come emerge dal participio "dovuto" contenuto al comma primo dell'art. 2638 c.c. La norma, tuttavia, tace circa la fonte di tale obbligo, non essendo chiaro, in particolare, quale ruolo abbiano le richieste formulate dall'autorità di vigilanza.

Sul punto, come correttamente riportato nella sentenza in commento, è intervenuta la Corte di Cassazione, affermando che "ai fini della sussistenza del reato di ostacolo di esercizio delle funzioni di vigilanza mediante occultamento dei fatti è necessario non solo che gli stessi siano rilevanti per la situazione economica, patrimoniale o finanziaria delle società, ma anche che la loro comunicazione sia effettivamente pertinente all'interpello dell'ente di vigilanza". La stessa richiesta formulata dall'autorità di vigilanza, di conseguenza, nella legittima applicazione dei poteri e delle prerogative a essa conferiti ex lege, ha una valenza selettiva del dato da comunicare sotto il profilo oggettivo (che, in ogni caso, per quanto riguarda la prospettazione di cui al solo primo comma, deve attenere alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria).

La comunicazione doverosa, in altre parole, acquisisce tale natura non in ragione del suo contenuto intrinseco, bensì in ragione della correlazione con l'esercizio delle funzioni di vigilanza, quale nesso tra la prospettazione offerta all'organo di vigilanza e le modalità nelle quali in concreto si è esplicata la funzione medesima. Tale impostazione comporta, di conseguenza, una lettura del patrimonio informativo non osteso all'autorità di vigilanza nella prospettiva della concreta inerenza alla vigilanza cartolare o ispettiva e, dunque, agli obiettivi perseguiti dall'autorità preposta.

 

7. Il Tribunale, una volta conclusa l'analisi della norma, dedica ampio spazio alle circostanze di ritrovamento del contratto - consegnato alla Banca d'Italia solo in seguito al cambio dei vertici di MPS - alle anomale modalità di protocollazione adottate e alle condotte fraudolente tenute dagli imputati nel corso delle attività ispettive dell'ente di vigilanza.

In particolare, il Tribunale, dopo aver ricordato che la condotta è stata realizzata dagli imputati, in concorso fra loro, celando alla conoscenza degli organi di vigilanza il Mandate agreement, osserva che il fatto assume penale rilevanza in ragione delle attività ispettive che si sono susseguite nei confronti di MPS tra il 2010 e il 2012 e che hanno reso attuale il dovere di esibizione del contratto, anzi dei suoi contenuti, rilevanti nella prospettiva dell'autorità di vigilanza.

Più precisamente, se la prima ispezione (c.d. ispezione Cantarella), risalente al 2010, rende attuale l'obbligo di consegna dell'accordo e segna il momento iniziale della penale rilevanza della condotta, l'ostacolo si consuma con l'ispezione Scardone, intervenuta negli anni 2011-2012, quando, secondo il Tribunale, "le informazioni foriere di scompenso valutativo ledono l'esercizio dell'attività di vigilanza, concludendo in tal modo l'iter criminis". L'ostacolo si concretizza, dunque, nella mancata acquisizione del Mandate agreement e nella conseguente impossibilità di conoscere, da parte della Banca d'Italia, l'accordo intervenuto tra MPS e Nomura e quindi il collegamento tra le due operazioni realizzate dai due istituti.

Si evince infatti, dalla ricostruzione dell'istruttoria dibattimentale, come gli ispettori della Banca d'Italia, nel corso delle diverse ispezioni, avessero chiesto ai vertici di MPS informazioni sulla natura della negoziazione dei BTP con scadenza nel 2034 e, soprattutto, sui rapporti in essere tra MPS e Nomura. In quello che la sentenza definisce un contesto di "opacità diffusa", "sintomatico del dolo di ostacolo", il Mandate agreement, contenente il cuore delle informazioni richieste dall'organo di vigilanza, era però rimasto celato nella cassaforte del Direttore Generale quando ormai asserite esigenze di riservatezza per la natura price sensitive dell'operazione e per i rischi di front running erano da considerarsi "superate e certamente non giustificabili nei confronti delle autorità di vigilanza".

La predetta ubicazione del documento, "neutra se ex se considerata", acquista allora un significato peculiare quanto alla conoscibilità da parte della Banca d'Italia sia in ragione dei criteri di collaborazione ai quali deve essere orientata la vigilanza cartolare e ispettiva, sia a causa del predettocontesto, "tale da impedire che l'interlocuzione diretta degli ispettori con aree e funzioni di MPS consentisse la rappresentazione del legame intercorrente tra le due operazioni nei termini pattuiti nel Mandate agreement".

Il Collegio giunge così a ritenere integrata l'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 2638 c.c. "essendo stato consumato l'ostacolo agli organi di vigilanza che rappresenta la massima lesione, in fatto, del bene-interesse tutelato dalla fattispecie incriminatrice oltre ad adattarsi pienamente al caso concreto".

 

 


[1] Sia consentito il rinvio a I. Gittardi, La prima pronuncia della Cassazione in materia di usura in concreto, in questa Rivista, 15 aprile 2015, a margine della pronuncia resa dal Supremo Collegio, in materia cautelare, nell'ambito del procedimento pendente nei confronti dei vertici di MPS e di Nomura International per i delitti di usura in concreto e truffa.