ISSN 2039-1676


16 maggio 2016 |

Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni

Corte cost., sent. 12 maggio 2016, n. 102, Pres. Grossi, Red. Lattanzi e Cartabia

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1. Prima sentenza della Corte costituzionale sulla spinosa questione della compatibilità tra doppi binari sanzionatori e ne bis in idem alla luce della sentenza della Corte EDU Grande Stevens c. Italia, sulla quale anche la nostra Rivista ha ospitato ormai numerosissimi contributi[1].

Le questioni cui si riferisce la pronuncia sono quelle prospettate rispettivamente dalla quinta sezione penale e dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, che avevano ad oggetto entrambe la vigente disciplina sanzionatoria prevista dal t.u.f. (d. lgs. 58/1998) in materia di abusi di mercato. Deve invece ancora essere depositata la decisione di restituzione degli atti al giudice a quo per sopravvenute modifiche normative, preannunciata in un comunicato diffuso in esito alla camera di consiglio dell'8 marzo scorso, relativa alla questione proposta dal Tribunale di Bologna avente invece ad oggetto la compatibilità tra ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia tributaria, in particolare in relazione al delitto di cui all'art. 10 ter d. lgs. 74/2000[2].

Chi si attendeva - anche in considerazione dell'inusuale indicazione di due giudici relatori - una presa di posizione sul merito della questione da parte della Consulta è però rimasto deluso: la sentenza si limita infatti a dichiarare inammissibili tutte le questioni sottoposte al suo esame, senza sbilanciarsi - nemmeno obiter - sulla questione di fondo della compatibilità dell'attuale meccanismo di doppio binario con il diritto fondamentale al ne bis in idem, così come declinato dalla giurisprudenza di Strasburgo in sede di interpretazione dell'art. 4 prot. 7 CEDU.

 

2. La Corte dichiara anzitutto inammissibile la questione formulata in via principale dalla quinta sezione penale, con la quale si sollevava il dubbio sulla compatibilità dell'art. 187-bis co. 1 t.u.f. con l'art. 117 co. 1 Cost., in relazione all'art. 4 prot. 7 CEDU così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, nella parte in cui la disposizione impugnata prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato».

La Cassazione era investita nella specie di un ricorso contro una sentenza di condanna pronunciata dal giudice penale per il delitto di abuso di informazioni privilegiate di cui all'art. 184 t.u.f., in relazione al medesimo fatto storico per il quale il ricorrente era già stato sanzionato in via definitiva dalla CONSOB per il parallelo illecito amministrativo di cui all'art. 187-bis t.u.f.

La Cassazione rilevava come la stessa pendenza di un processo penale una volta divenuta definitiva la sanzione amministrativa irrogata dalla CONSOB rappresentasse una violazione del diritto al ne bis in idem ai sensi della disposizione convenzionale citata, dal momento che - secondo quanto affermato dalla Corte EDU nel caso Grande Stevens, avente ad oggetto proprio la disciplina sanzionatoria italiana degli abusi di mercato - le sanzioni irrogate dalla CONSOB, pur se formalmente qualificate come 'amministrative' nell'ordinamento italiano, devono invece essere considerate come sostanzialmente penali, sicché la loro irrogazione in via definitiva preclude la possibilità di celebrare o proseguire un ulteriore processo penale avente ad oggetto il medesimo fatto, sia pure diversamente qualificato.

In via principale, la Cassazione sottoponeva dunque alla Consulta questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la peculiare clausola di apertura dell'art. 187-bis t.u.f., che disciplina le sanzioni amministrative previste per l'abuso di informazioni privilegiate, facendo salve però le sanzioni penali eventualmente irrogabili per i medesimi fatti. Ciò che il giudice a quo chiedeva alla Corte costituzionale era di sostituire questo inciso con la clausola di sussidiarietà - usuale nelle sanzioni amministrative - "salvo che il fatto costituisca reato", in modo tale da raggiungere l'effetto, esattamente opposto a quello voluto dal legislatore, di escludere l'applicabilità delle sanzioni amministrative (e, quindi, del relativo procedimento) allorché il fatto costituisse anche un illecito penale, in particolare ai sensi della parallela disposizione di cui all'art. 184 t.u.f.

Come immediatamente rilevato dalle pagine di questa Rivista all'indomani dell'annuncio della decisione della Cassazione[3], la questione appariva però inammissibile per difetto di rilevanza, avendo ad oggetto una disposizione (l'art. 187-bis t.u.f.) che era già stata applicata una volta per tutte nell'ambito del procedimento amministrativo e giurisdizionale di irrogazione della sanzione CONSOB, e che non spiegava più alcun ruolo nel processo penale pendente avanti il giudice a quo, nel quale si discuteva piuttosto della disposizione di cui all'art. 184 t.u.f., che prevede il corrispondente illecito penale di abuso di informazioni privilegiate.

A tale argomento la Corte costituzionale aggiunge l'ineccepibile considerazione che un ipotetico accoglimento della questione non sarebbe valso a impedire la paventata violazione  del diritto convenzionale, posto che - anche nell'ipotesi ove la precedente sanzione CONSOB fosse stata revocata ex art. 30 co. 4 l. 87/1953 in conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale, come ipotizzato dal giudice a quoil processo penale instaurato nei confronti dell'imputato (già sottoposto a precedente procedimento amministrativo) si sarebbe comunque dovuto celebrare e concludere. Il che avrebbe vieppiù contribuito alla violazione dell'art. 4 prot. 7 CEDU, che vieta non già l'irrogazione di una doppia sanzione, ma la celebrazione di un secondo processo per il medesimo fatto.

 

3. In via subordinata, la quinta sezione penale della Cassazione aveva poi sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., anche in questo caso per contrasto con l'art. 117 co. 1 Cost. in relazione all'art. 4 prot. 7 CEDU, nella parte in cui la disposizione impugnata non prevede "l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale" ai sensi della CEDU e dei suoi protocolli.

Anche questa seconda questione è giudicata inammissibile dalla Corte costituzionale, in considerazione del "carattere perplesso della motivazione sulla sua non manifesta infondatezza".

Sottolinea la Corte come lo stesso giudice remittente consideri l'eventuale accoglimento della questione come una soluzione "di ripiego" per il caso di mancato accoglimento, per difetto di rilevanza, della questione prospettata in via principale; una soluzione, in particolare, di problematica compatibilità con i principi costituzionali di determinatezza e di legalità delle sanzioni penali, con i principi di ragionevolezza e di parità di trattamento e con gli stessi obblighi di principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, imposti dal diritto dell'Unione europea, in violazione, quindi, degli artt. 11 e 117 Cost. Ciò in quanto l'eventuale intervento additivo richiesto sull'art. 649 c.p.p. avrebbe unicamente l'effetto di impedire la celebrazione o la conclusione di un secondo procedimento o processo per il medesimo fatto, senza però determinare alcun ordine di priorità tra sanzione penale e amministrativa: affidando così la determinazione della concreta risposta sanzionatoria alla circostanza aleatoria di quale dei due procedimenti sanzionatori venga definito più celermente.

La soluzione derivante da un ipotetico accoglimento della questione avrebbe insomma semplicemente precluso l'inflizione di seconda doppia sanzione, ma non avrebbe fornito alcun rimedio strutturale contro la prospettiva di un doppio procedimento per lo stesso fatto, che solo potrebbe essere assicurato da un intervento legislativo di riforma dell'attuale sistema sanzionatorio degli abusi di mercato.

 

4. Inammissibile è, infine, giudicata anche la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla sezione tributaria della Cassazione, investita del ricorso contro l'ordinanza di una corte d'appello confermativa di sanzioni irrogate dalla CONSOB ai sensi dell'art. 187-ter t.u.f. per un fatto di manipolazione del mercato, per il quale i ricorrenti avevano già patteggiato una pena, divenuta nel frattempo definitiva, ai sensi della parallela disposizione incriminatrice di cui all'ar.t 185 t.u.f. La questione aveva qui ad oggetto l'art. 187-ter t.u.f., di cui ancora una volta si sospettava il contrasto con l'art. 117 co. 1 Cost. in riferimento agli artt. 2 e 4 [rectius, in riferimento al solo art. 4] prot. 7 CEDU.

Come già chi scrive aveva avuto modo di osservare nella brevissima nota di presentazione dell'ordinanza di rimessione, a suo tempo pubblicata sulla nostra Rivista, il petitum della questione era rimasto del tutto oscuro: il che non poteva che condurre la Corte a una dichiarazione di inammissibilità della questione, supportata anche in questo caso dalla sottolineatura del carattere "dubitativo e perplesso" della motivazione dell'ordinanza, che non scioglie in particolare i dubbi se la soluzione apparentemente imposta dalla Corte EDU risulti compatibile con gli obblighi di repressione degli abusi di mercato imposti dal diritto dell'Unione europea, "dubbi che dovevano invece essere superati e risolti per ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata".

 

* * *

 

5. Giusto un paio di osservazioni in primissima battuta, in attesa di ospitare commenti più articolati.

Anzitutto, la Corte ha qui evidentemente deciso... di non decidere, almeno per ora, una questione spinosa, verosimilmente in attesa di ulteriori sviluppi sul fronte della legislazione nazionale (è ormai imminente l'esercizio della delega conferita con la legge n. 114/2015 per la riforma della disciplina in materia di abusi di mercato[4]) nonché sul fronte della giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale dovrà presto esprimersi sul problema della compatibilità con il diritto al ne bis idem dell'attuale sistema di doppio binario in materia di illeciti tributari, e segnatamente in materia di evasioni dell'IVA[5]. Se, infatti, le ragioni di inammissibilità della questione principale sollevata dalla quinta sezione penale nonché di quella sollevata dalla sezione tributaria erano onestamente difficili da superare, la questione subordinata sottoposta dalla quinta sezione relativa all'art. 649 c.p.p. era invece certamente rilevante nel giudizio a quo, oltre che assolutamente precisa nel petitum, sicché avrebbe probabilmente meritato di essere decisa nel merito dalla Corte, al di là del carattere più o meno 'perplesso' della motivazione; anche perché i problemi ivi sollevati erano tutt'altro che futili, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte EDU.

Intendiamoci: la Corte costituzionale, e prima ancora lo stesso giudice a quo, hanno ragioni da vendere nel sottolineare come il proposto intervento additivo sull'art. 649 c.p.p.[6] varrebbe a tutelare la posizione soggettiva del singolo imputato di un fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via formalmente 'amministrativa', ma non risolverebbe le incongruenze create dell'attuale sistema di doppio binario, che prevede come eventualità fisiologica lo svolgimento di un doppio procedimento avanti rispettivamente alla CONSOB e alla giurisdizione penale per lo stesso fatto; sì che il blocco del secondo procedimento una volta conclusosi il primo - senza alcuna indicazione normativa su quale dei due debba prevalere - finirebbe per determinare un inutile dispendio di energie e di risorse pubbliche, lasciando comunque esposto l'interessato alle sofferenze e ai costi di un doppio procedimento, uno dei quali destinato a concludersi con un nulla di fatto. Tali incongruenze potrebbero essere eliminate soltanto da un accorto intervento legislativo, che regoli i rapporti tra i due illeciti (penale e amministrativo) e i relativi procedimenti in modo da evitare inutili duplicazioni, assicurando comunque il rispetto degli obblighi sanzionatori discendenti dal diritto dell'Unione europea.

Ciò che forse è sfuggito alla Corte costituzionale, tuttavia, è che - in attesa di un intervento legislativo, e comunque con riferimento ai fatti pregressi - chi sia stato già sanzionato in via definitiva dalla CONSOB o dal giudice penale ha, già oggi, un diritto fondamentale a non essere sottoposto a un nuovo procedimento sanzionatorio, o comunque a essere immediatamente prosciolto da un procedimento che sia ancora pendente nei suoi confronti; diritto fondamentale che deve trovare, oggi, tutela da parte dei giudici italiani, con gli strumenti esistenti nell'ordinamento, eventualmente integrati da pronunce additive della Corte costituzionale.

Dai diritti fondamentali, così come in generale dalle garanzie costituzionali, certo non ci si possono aspettare prestazioni eccessive - in particolare, non ci si possono aspettare soluzioni 'di sistema', che spettano soltanto al legislatore, chiamato istituzionalmente a individuare soluzioni equilibrate, in esito a bilanciamenti tra tutti gli interessi in gioco. Allorché, però, un dato assetto positivo risulti incompatibile con le ragioni di tutela di un diritto fondamentale - come accade ora, per effetto delle sentenze della Corte europea, rispetto al sistema di doppio binario in materia di abusi di mercato, e forse anche in materia di illeciti tributari - il dovere della giurisdizione è, nell'immediato, evitare che si producano, o continuino a prodursi, lesioni di tale diritto ad opera dell'azione dei pubblici poteri; lasciando poi che sia il legislatore a intervenire per correggere eventuali ripercussioni sistematiche create da questo intervento, necessitato, di tutela del diritto fondamentale in gioco.

Un principio, questo, che la Corte del resto non aveva esitato ad affermare nella sentenza n. 113/2011, allorché dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva la possibilità di una revisione della sentenza di condanna quando ciò fosse necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU: "Posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa - tanto più se attinente a diritti fondamentali - la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. Né, per risalente rilievo di questa Corte (sentenza n. 59 del 1958), può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina - reale o apparente - che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti. Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall'altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione"[7].

È un peccato che la Corte, oggi, non abbia ritenuto di seguire la stessa strada.

 

6. Comunque sia, il non liquet della Corte costituzionale pone ora i giudici comuni - compresa la stessa sezione rimettente della Cassazione nel caso di specie - di fronte alla ineludibile responsabilità di evitare l'ulteriore prodursi di violazioni convenzionali da parte dello Stato italiano, che non mancherebbero di essere sanzionate a Strasburgo.

Il che ripropone con urgenza la questione se, in assenza di intervento da parte della Corte costituzionale, il giudice comune abbia la possibilità di assicurare direttamente tutela al diritto convenzionale in questione, in particolare arrestando il processo penale non appena abbia contezza dell'esistenza di un provvedimento sanzionatorio della CONSOB definitivo irrogato per il medesimo fatto che è oggetto del processo penale.

Sul punto, ho già avuto modo in più occasioni di esprimere l'avviso che il giudice comune abbia già de lege lata tutti gli strumenti per pervenire a tale risultato. Quel che occorre è, soltanto, un po' di coraggio.

 

7. Una prima via, praticabile ogniqualvolta la disciplina sanzionatoria di doppio binario ricada entro l'ambito di applicazione del diritto UE - ed è questo certamente il caso degli abusi di mercato, oggetto di una fitta regolamentazione di fonte UE, così come dell'evasione dell'IVA, alla luce di sentenze come Akenberg Fransson e Taricco -, passa attraverso l'applicazione diretta dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (di seguito: CDFUE), e cioè della disposizione corrispondente all'art. 4 prot. 7 CEDU.

Come in altra sede ho più distesamente argomentato[8], infatti, l'art. 50 CDFUE incorpora - in forza della generale di equivalenza di cui all'art. 52 par. 3 CDFUE - il contenuto minimo dell'art. 4 prot. 7 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo, ampliandone semmai la portata applicativa - confinata, nella previsione convenzionale, al divieto di essere sottoposti a processo per lo stesso fatto nel medesimo Stato - anche ai fatti giudicati in via definitiva in altro Stato membro dell'Unione. L'integrale richiamo dell'acquis di Strasburgo in materia di ne bis in idem comporta, allora, l'importante conseguenza che la celebrazione o la prosecuzione di un secondo processo sarà senz'altro preclusa, ove il primo procedimento - conclusosi con provvedimento definitivo - avesse natura sostanzialmente penale in base ai criteri Engel, indipendentemente dalla sua formale qualificazione.

D'altra parte, l'art. 50 CDFUE è - in forza dell'art. 6 TUE - disposizione avente lo stesso valore giuridico dei trattati, come tale idonea a produrre effetti diretti nell'ordinamento degli Stati membri: anche, se necessario, previa disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti.

Da ciò deriva la piana conseguenza per cui il giudice penale italiano dovrà assicurare diretta applicazione al diritto di cui all'art. 50 CDFUE, pronunciando sentenza di non doversi procedere per ne bis in idem in forza, appunto, di tale disposizione, in ogni caso in cui abbia contezza dell'esistenza di un provvedimento definitivo sul medesimo fatto concreto, che abbia natura penale ai sensi dei criteri Engel. Nulla di diverso, del resto, di ciò che il giudice già abitualmente fa allorché deve pronunciare sentenza di non doversi procedere per ne bis in idem internazionale ai sensi dell'art. 54 della Convenzione di Schengen, essa pure direttamente applicabile nell'ordinamento degli Stati membri.

Nel fare ciò, il giudice penale non dovrà temere di violare gli obblighi di fonte UE di tutela effettiva, proporzionata e dissuasiva degli interessi di volta in volta protetti dalla norma italiana, la cui applicazione nel caso concreto venga preclusa dalla necessità di rispetto del diritto al ne bis in idem, dal momento che tale diritto - in quanto principio fondamentale dello stesso diritto UE - si pone esso stesso quale limite invalicabile all'adempimento di quegli obblighi. Tanto che la stessa direttiva 2014/57/UE, che impone oggi agli Stati membri di incriminare i fatti più gravi di abuso di mercato, ammonisce gli Stati medesimi, nel considerando n. 23, a vigilare affinché non venga violato il principio del ne bis in idem in seguito alla contestuale irrogazione di sanzioni penali e amministrative in esito ai rispettivi procedimenti.

Nulla vieterà, naturalmente, al giudice penale italiano di interpellare la Corte di giustizia attraverso un rinvio pregiudiziale: ma si tratterebbe verosimilmente di un rinvio inutile, posto la posizione del diritto UE, sul punto, è già del tutto chiara. Dalla nuova direttiva 2014/57/UE discende l'obbligo di apprestare sanzioni penali per i fatti più gravi di abusi di mercato; un obbligo di cui spetta però al legislatore nazionale assicurare l'efficacia nell'ordinamento interno, eliminando tutti gli ostacoli - tra cui quelli opposti dal principio del ne bis in idem, che costituisce un limite invalicabile alla stessa azione dell'Unione e degli Stati membri nell'attuazione del diritto dell'Unione - che possano frapporsi all'esecuzione dell'obbligo medesimo. Compito del giudice dello Stato membro non potrà che essere nel frattempo, quello di assicurare il rispetto del diritto fondamentale in gioco, allorché - a causa dell'inadeguatezza del sistema attuale - si verifichino nel caso concreto i presupposti normativi che determinano la violazione di tale diritto, così come disegnati dall'art. 50 CDFUE (da interpretare, ripeto, alla luce dell'art. 4 prot. 7 CEDU).

 

8. Ma anche al di fuori dell'ambito di applicazione del diritto UE, dove non possono essere invocati i diritti riconosciuti dalla CDFUE (come, ad es., nella materia dell'omesso versamento di ritenute d'imposta), non vedo perché il giudice comune non possa assicurare diretta applicazione all'art. 4 prot. 7 CEDU, che è - dopo tutto - convenzione ratificata e resa esecutiva con la legge 9 aprile 1990, n. 98, che ne ha determinato l'incorporazione nell'ordinamento italiano con il rango di norma primaria[9].

Che le norme della CEDU (e dei suoi protocolli) siano suscettibili di diretta applicazione da parte del giudice comune è, in effetti, acquisizione che la nostra giurisprudenza penale ha compiuto sin dagli storici casi Polo Castro e Medrano, risalenti a più di vent'anni fa[10]; ed è acquisizione che non è stata scossa dalle sentenze gemelle 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale, le quali hanno bensì escluso che le norme della CEDU e dei suoi protocolli possano essere direttamente applicate in luogo di disposizioni contrastanti del diritto nazionale, ma non hanno certo inteso escludere la loro diretta applicazione in tutte le ipotesi in cui esse si inseriscano in spazi giuridicamente 'vuoti', non regolati cioè in modo antinomico da una disposizione di diritto interno.

Il che, mi pare, è proprio ciò che accade nel caso ora all'esame: nella misura in cui, secondo l'interpretazione fornitane dal 'suo' giudice autentico, l'art. 4 prot. 7 CEDU ha un'area applicativa eccedente quella coperta dall'art. 649 c.p.p. - precludendo un secondo giudizio sul medesimo fatto già oggetto di un precedente procedimento sanzionatorio avente natura sostanzialmente penale, ancorché non formalmente qualificato come tale -, tale disposizione opera in quell'ambito come l'unica norma applicabile per il giudice penale italiano. Il quale, senza dover disapplicare alcuna norma interna contrastante, e senza dover sollecitare alcun intervento additivo della Corte costituzionale, potrà dunque tranquillamente pervenire - anche in questo caso - a una sentenza di non doversi procedere fondata direttamente sull'art. 4 prot. 7 CEDU, che è norma incorporata nell'ordinamento interno in forza della legge n. 98/1990 poc'anzi citata.

 

9. La pronuncia di inammissibilità ora commentata si rivela dunque, a ben guardare, come un prezioso assist per il giudice comune italiano, che avrà ora la possibilità (e il dovere) di mostrare di essere all'altezza del proprio compito di tutore dei diritti fondamentali dell'individuo nei confronti della potestà punitiva statale, così come riconosciuti nel comune spazio giuridico europeo.

Un assist che sarà anzi opportuno raccogliere al più presto, possibilmente prima che il governo eserciti la delega sulla riforma degli abusi di mercato: in modo da porre il governo medesimo di fronte alla propria responsabilità di confezionare un prodotto legislativo che non produca - contro le esplicite indicazioni del legislatore UE - quel rischio sistematico di violazioni del diritto al ne bis in idem, connaturato invece al quadro normativo oggi vigente.

 


 

 

 

[1] Si vedano tutti i documenti elencati nella colonna a destra. Per un recentissimo sguardo d'assieme sulla questione  cfr., volendo, Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, 8 febbraio 2016

[2] Su quest'ultima questione cfr. Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell'Iva: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, in questa Rivista, 18 maggio 2015.

[3] Cfr. Scoletta, Il doppio binario sanzionatorio del market abuse al cospetto della Corte costituzionale per violazione del diritto fondamentale al ne bis in idem, in questa Rivista, 17 novembre 2014.

[4] Sulla quale cfr. ampiamente Mucciarelli, La nuova disciplina eurocomunitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, in questa Rivista, 17 settembre 2015.

[5] Cfr. sul punto Viganò, Ne bis in idem e omesso versamento dell'IVA: la parola alla Corte di giustizia, in questa Rivista, 28 settembre 2015.

[6] Intervento che chi scrive aveva già prospettato pressoché nei medesimi termini in un intervento pubblicato poco dopo il deposito della sentenza Grande Stevens: cfr. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta? (a margine della sentenza Grande Stevens della Corte EDU), in Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 34-4/2014, p. 228.

[7] Corte cost., sent. n. 113/2011, considerato in diritto n. 8. Lo stesso principio, in termini ancor più lapidari, era stato espresso dalla sentenza n. 317/2009 (considerato in diritto n. 9), ove pure la Corte era intervenuta a sanare una violazione sistemica della Convenzione europea, determinata dalla nostra disciplina processuale penale: "Qualunque decisione di accoglimento produce effetti sistemici; questa Corte non può tuttavia negare il suo intervento a tutela dei diritti fondamentali per considerazioni di astratta coerenza formale".

[8] Da ultimo in Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato, cit., p. 12 ss., e ivi ult. rif.

[9] Per una più ampia motivazione della tesi, cfr. ancora Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato, cit., p. 16 ss.

[10] Cfr., rispettivamente, Cass., sez. un., 23 novembre 1988, Polo Castro, in Cass. pen., 1989, p. 1418 ss., m. 1191 e Cass., sez. I, 12 maggio 1993, Medrano, ivi, 1994, p. 439 ss., m. 319.