ISSN 2039-1676


05 dicembre 2016 |

Abolitio criminis e nuovi illeciti puniti con sanzione pecuniaria civile: le Sezioni Unite negano la possibilità per il giudice dell’impugnazione di pronunciarsi sulle statuizioni civili

Nota a Cass., SSUU, sent. 29 settembre 2016 (dep. 7 novembre 2016), n. 46688, Pres. Canzio, Est. Vessichelli, ric. Schirru

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1. La disciplina introdotta con il D.Lgs. 15 gennaio 2016 n.  7 è oramai universalmente nota: con l’atto normativo in questione, recante “Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili”, il legislatore delegato ha provveduto ad espungere dal codice penale alcune figure delittuose, reintroducendo nell’ordinamento – di fatto – le stesse fattispecie sotto forma di una nuova tipologia di illeciti, puniti con le inedite sanzioni pecuniarie civili.

L’applicazione pratica delle nuove norme, però, ha visto velocemente svilupparsi un animato contrasto giurisprudenziale relativo ai poteri del giudice dell’impugnazione in ordine alle statuizioni civili eventualmente espresse nelle sentenze di primo grado pronunciate prima dell’entrata in vigore del decreto poc’anzi menzionato[1]. In particolare, la giurisprudenza di legittimità – ben compendiata dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione n. 26092/2016, già pubblicata e annotata in questa Rivista[2] – si è chiesta «se, in caso di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato quale illecito civile ai sensi dell'art. 4 D.Lgs. n. 7 del 2016, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili ovvero debba revocare le statuizioni civili»: alternativa che le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, sciolgono definitivamente nel secondo senso.

 

2. Il caso portato all’attenzione del Supremo Collegio riguarda una fattispecie di danneggiamento semplice continuato, per la quale i due ricorrenti erano stati condannati – sia in primo grado che in appello –, oltre che alla pena pecuniaria, anche al risarcimento del danno e delle spese di giudizio in favore della parte civile costituita.

Dopo la proposizione del ricorso, una volta entrato in vigore il D.Lgs. 7/2016, il difensore ha depositato alla Corte dei motivi nuovi, con i quali ha dedotto – in via subordinata rispetto alle richieste principali di assoluzione nel merito – la sopravvenuta abolitio criminis e la conseguente necessità di revocare le statuizioni civili.

 

3. Dopo aver rapidamente ribadito il dovere del giudice penale di definire il procedimento dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato[3], le Sezioni Unite affrontano questione a loro rimessa, riepilogando – in primo luogo – le ragioni a sostegno dei due orientamenti contrapposti.

In particolare, il primo indirizzo interpretativo favorevole al mantenimento in capo al giudice dell’impugnazione del potere di definire il gravame in relazione agli effetti civili – si fonda principalmente sui seguenti argomenti:

- l’art. 2, secondo comma, c.p., nel prevedere la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali delle sentenze definitive in caso di abolitio criminis, consentirebbe di dedurre – argomentando a contrario – il perdurare degli eventuali effetti civili;

- l’art. 11 delle preleggi, statuendo che la legge non dispone che per l’avvenire, farebbe salvo il “diritto acquisito” della parte civile a vedere esaminata la propria azione già esercitata nel processo penale;

- la disciplina del “parallelo” D.Lgs. 8/2016, approvato contestualmente all’atto normativo in questione e in attuazione della medesima legge-delega, contiene una norma transitoria in tema di poteri del giudice dell’impugnazione che dovrebbe essere considerata di “valenza generale”, posto che le nuove forme di illecito civile si porrebbero in “continuità normativa” con i reati abrogati e – soprattutto – che non sarebbe possibile riscontrare differenze ontologiche tra i vari reati oggetto dei due decreti[4];

- similmente, le fattispecie generate dal D.Lgs. 7/2016 dovrebbero essere ricondotte a situazioni non dissimili da quelle disciplinate dall’art. 578 c.p.p., con conseguente possibilità di applicazione analogica della norma processuale richiamata[5];

- infine, l’indirizzo favorevole sarebbe fondato su un’interpretazione costituzionalmente conforme del D.Lgs. 7/2016, poiché l’orientamento negativo darebbe luogo alla violazione del principio di ragionevole durata del processo, cristallizzato nell’art. 111 della Costituzione.

Il secondo filone giurisprudenziale, di segno opposto, sostiene la propria posizione con argomentazioni che miravano a destituire il fondamento di quanto sostenuto dalle sentenze contrastanti: tale indirizzo interpretativo, in particolare, si basa sulle recenti affermazioni espresse dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 12/2016, per la quale l’azione civile esercitata nel processo penale ha natura meramente accessoria e subordinata alle finalità del processo penale stesso[6].

 

4. Le Sezioni Unite optano, come si è preannunciato, per il secondo degli orientamenti che si contendevano il campo.

Il Supremo Collegio, innanzitutto, esplicita immediatamente come la questione sia agevolmente risolvibile mantenendo fede alla lettera della normativa. In particolare, secondo la Corte, vi sono due chiari dati letterali da tenere necessariamente in considerazione:

- il primo è determinato dalla presenza nel D.Lgs. 7/2016, all’art. 12, di una disciplina transitoria in cui il legislatore – pur avendo provveduto a disciplinare alcune questioni di diritto intertemporale – ha omesso ogni riferimento ai poteri del giudice dell’impugnazione in relazione alle statuizioni civili pregresse;

- il secondo è individuabile nella norma (l’art. 8 del decreto) che attribuisce la competenza ad irrogare le nuove sanzioni pecuniarie civili al giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, ossia il giudice civile.

Ciò posto, le Sezioni Unite osservano come «quest’ultima disposizione si ponga in linea di stretta correlazione col silenzio normativo precedentemente evidenziato, potenziandone la eloquenza nella direzione del brocardo ubi noluit non dixit, atteso che se si riconoscesse in capo al giudice dell’impugnazione penale – in sede di declaratoria di abrogazione – il potere di pronunciarsi anche sugli interessi civili, si dovrebbe ammettere che gli è conferito anche il potere-dovere di irrogare al responsabile del danno la sanzione pecuniaria civile, la quale soggiace a criteri di commisurazione involgenti accertamenti e giudizi di fatto che sono assolutamente impropri nella sede di legittimità».

 

5. La sentenza prosegue con quella che viene definita una «verifica controfattuale del silenzio del legislatore»: in altre parole, le Sezioni Unite analizzano le disposizioni del D.Lgs. 7/2016 parallelamente a quelle del D.Lgs. 8/2016, evidenziando come le diversità tra le discipline transitorie previste dai due decreti – ricordate poc’anzi – siano inequivocabilmente il frutto di una scelta legislativa ponderata. Ciò si deduce, in particolare, dal fatto che «con le norme confluite nel D.Lgs. 7/2016 il legislatore ha inteso eliminare dall’ambito della rilevanza penale alcune ipotesi delittuose che hanno la caratteristica di incidere su interessi di natura privata e di essere procedibili a querela, ricollocandone il disvalore sul piano delle relazioni private»; mentre le fattispecie depenalizzate per mezzo del D.Lgs. 8/2016 tutelavano beni giuridici a preponderante rilevanza pubblica ed erano procedibili d’ufficio.

Di qui la conclusione: «il complesso normativo [del decreto n. 7] può […] dirsi frutto di una coerente valutazione degli effetti della novella sui fatti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore, destinati ad un esito processuale certo ed immediato, nella sede penale, per quanto riguarda la rilevazione della abrogazione […] e ad un futuro solo eventuale per quanto riguarda l'accertamento del diritto al risarcimento e l'applicazione della sanzione pecuniaria civile, strettamente correlati sul piano della competenza ed entrambi subordinati alla investitura del giudice civile ad opera della parte interessata alla riassunzione; può confermarsi, in altri termini, che la mancata previsione del potere del giudice della impugnazione, avverso sentenza di condanna dell’imputato, di pronunciarsi sulla impugnazione di questo agli effetti civili, dopo avere dichiarato la abrogazione, sia l'ordinario sviluppo dello scenario processuale delineato».

 

6. Sul piano dei principi generali del processo penale, d’altra parte, la Corte osserva come «la regola generale oggi configurata [sia] quella del collegamento in via esclusiva della decisione sulla domanda della parte civile alla formale condanna dell’imputato»: tale principio – cristallizzato nell’art. 538 c.p.p., recentemente confermato nella sua struttura dalla già citata sentenza n. 12/2016 della Corte Costituzionale – integra la concreta attuazione processuale dell’art. 185 c.p.[7], norma dalla quale – affermano le Sezioni Unite – «si desume che la domanda della parte civile nel processo penale è legittimata con riferimento ai danni cagionati da un fatto integrante reato […], non essendo sufficiente, di regola, una sentenza di proscioglimento, pur se includente l’accertamento del fatto-reato».

La soluzione opposta costringerebbe ad ancorare il risarcimento del danno non tanto alla fattispecie prevista dall’art. 185 c.p., quanto a quella – decisamente più ampia – contemplata dall’art. 2043 c.c., per la quale difetterebbe però la competenza del giudice penale.

 

7. Quanto alla pretesa possibilità di applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p., il Supremo Collegio sottolinea come il precetto invocato costituisca un tipico esempio di “eccezione a regole generali o ad altra legge” rilevante ai sensi dell’art. 14 delle preleggi: «il carattere del precetto […] rende evidente che [esso] non si applica oltre i casi e i tempi in esso considerati, senza considerare che, comunque, la norma dell’art. 578 c.p.p. abilita il giudice a tanto, sul presupposto non di una pronuncia di assoluzione dal reato (come nel caso della abrogazione) ma di riconoscimento di causa di estinzione di un fatto-reato dopo la condanna [in primo grado]»[8].

Similmente, la sentenza rileva come il medesimo divieto di applicazione analogica posto dall’art. 14 delle preleggi sia destinato ad operare «anche con riferimento alla proposta applicazione del disposto dell’art. 9, comma 3, D.Lgs. 8/2016 al sistema delineato dal D.Lgs. 7/2016», giacché «la sequenza procedimentale delineata nel decreto legislativo n. 8 è differente da quella del d.lgs. n. 7, avendo dato vita ad un sistema che prevede l'articolazione del potere del giudice penale come esaurimento, dinanzi ad esso, tanto del procedimento penale […] quanto della accessoria domanda della parte civile […]: un potere aggiuntivo che ben può ritenersi mantenuto riproponendo — con disposizione normativa ad hoc — il sistema già collaudato con l'art. 578 c.p.p. per ragioni di economia processuale, ma che proprio con questo condivide la natura di norma che pone una eccezione alla regola dell'art. 538 c.p.p. e che dunque non è suscettibile di applicazione analogica».

 

8. Quanto, infine, ai supposti dubbi di costituzionalità sollevati in relazione al principio di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., il Supremo Collegio richiama la recente sentenza n. 12/2016 della Corte costituzionale, rammentando che «nel sistema vigente l'inserimento dell'azione civile nel processo penale dà vita ad una situazione processuale sostanzialmente diversa da quella determinata dall'esercizio dell'azione civile nella sede civile; e ciò in quanto quella azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale ed è perciò destinata a subire “tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”». Su queste basi la Corte Costituzionale ha escluso la sussistenza di profili di irrazionalità nell’impostazione del vigente codice di procedura penale «in ragione della preminenza delle predette esigenze [del processo penale, n.d.a.] rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti civili, sicché, una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli, scelga di esercitare l'azione civile nel processo penale anziché nella sede propria, non gli è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono». In sostanza, secondo la Corte Costituzionale e le stesse Sezioni Unite, «ogni separazione dell'azione civile dall'ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale giacché la configurazione di quest'ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore».

Se, quindi, l’orientamento della Corte Costituzionale è nel senso di riconoscere la violazione del principio di ragionevole durata dei processi solamente in relazione a norme che comportino dilazioni non sorrette da alcuna esigenza logica, le Sezioni Unite traggono le debite conclusioni in relazione al problema qui in discussione: «se è vero che la preclusione della decisione sulle questioni civili comporta il procrastinare la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, si rinviene la quadratura della impostazione nel carattere accessorio e subordinato dell'azione civile proposta nell'ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest'ultimo».

 

9. Un rapidissimo accenno deve essere fatto ad un’ultima questione, affrontata solo incidentalmente dalle Sezioni Unite, relativa alla sorte dell’eventuale ricorso proposto dalla parte civile – ovviamente, ai soli effetti civili – nei confronti di una sentenza di assoluzione per uno dei reati oggi abrogati. Tale questione è risolta dalla Corte di legittimità nel senso dell’inammissibilità dell’impugnazione per carenza di interesse.

 

10. In conclusione, le Sezioni Unite condensano le proprie argomentazioni nel seguente principio di diritto: «in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili».

Il ricorso in esame, dunque, viene definito con un annullamento senza rinvio e con la revoca delle statuizioni civili precedentemente previste dalle sentenze di merito.

 

[1] La questione era stata rimessa una prima volta alle Sezioni Unite già il 9 febbraio 2016 (ossia appena tre giorni dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 7/2016): in quell’occasione, però, a seguito del provvedimento con il quale il Primo Presidente evidenziava l’insussistenza dei presupposti per la rimessione, il Supremo Collegio si pronunciò in composizione semplice.

[2] Si legga D. Sibilio, Abolitio criminis e nuovi illeciti puniti con sanzioni pecuniarie civili: alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibile decisione del giudice dell'impugnazione in merito agli effetti civili, in questa Rivista, 7 luglio 2016.

[3] Il Collegio, sul punto, ha ricordato – anche attraverso il riferimento a precedenti giurisprudenziali consolidati (Cass. Sez. IV, sent. 16 maggio 2002, n. 22334/03) – come la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”, nei casi di sopravvenuta abolitio criminis, debba essere adottata soltanto dopo la pronuncia di una sentenza di primo grado assolutoria per insussistenza del fatto.

[4] Il D.Lgs. 8/2016, pare opportuno ricordarlo, detta «Disposizioni in materia di depenalizzazione» e prevede, per i giudizi di impugnazione relativi ai reati derubricati in sanzioni amministrative, il potere-dovere del giudice del gravame di decidere sulla domanda risarcitoria della parte civile costituita.

[5] L’art. 578 c.p.p., lo si ricorda, dispone quanto segue: «Quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».

[6] In questa sede, si preferisce limitarsi a riportare in nuce il principio di diritto espresso dal Giudice delle leggi, rinviando ai paragrafi seguenti – nonché alla lettura della sentenza citata – per un quadro più completo.

[7] Ai sensi del quale «ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento».

[8] La Corte, ancor di più, fa notare come la giurisprudenza di legittimità sia sempre stata rigorosa in relazione alle pretese di applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p., ricordando come tale norma «non [sia] stata ritenuta applicabile neppure al caso di estinzione del reato per oblazione o per morte dell’imputato».