ISSN 2039-1676


23 dicembre 2016 |

La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sui trattenimenti (e i conseguenti respingimenti) di Lampedusa del 2011

Corte E.D.U., Grande Camera, sent. 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia

Per leggere il testo (in lingua inglese) della sentenza qui annotata, clicca qui. Per la traduzione italiana, pubblicata sul sito internet del Ministero della Giustizia, clicca qui.

 

All’udienza pubblica del 15 dicembre 2016, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il caso Khlaifia e altri c. Italia, a seguito della richiesta di rinvio formulata dal Governo italiano avverso la sentenza resa dalla Camera tra le stesse parti il 1° settembre 2015, della quale la nostra Rivista già aveva dato a suo tempo conto.

 

1. I fatti oggetto del ricorso. I fatti da cui ha preso origine la vicenda giudiziaria sono legati all’ondata di sbarchi di migranti irregolari avvenuta nel 2011 in conseguenza dei gravi disordini politici dei quali erano a quel tempo teatro diversi Paesi nord-africani (cosiddetta “primavera araba”) e che avevano condotto numerosissimi migranti a tentare di raggiungere con ogni mezzo le coste europee. Il caso tratta in particolare delle vicende di tre cittadini tunisini e degli standard di trattamento offerti dall’Italia in occasione del loro trattenimento sull’isola di Lampedusa e del loro rimpatrio verso il Paese di origine.

Per una più completa sintesi dei fatti sia consentito rinviare alla scheda già pubblicata a commento della sentenza del 1° settembre 2015, oltre che ovviamente ai pertinenti paragrafi della sentenza resa dalla Grande Camera (§§ 10-31).

Basti qui ricordare che i tre ricorrenti, cittadini tunisini, erano giunti nel Centro di soccorso e di prima accoglienza di Lampedusa, Contrada Imbriacola, ove erano stati trattenuti in condizioni da essi definite inumane e degradanti fino a che una rivolta e il successivo incendio, scoppiati nel centro proprio in reazione alle condizioni di permanenza, lo avevano gravemente danneggiato e avevano costretto le Autorità italiane a rinvenire una diversa collocazione per gli oltre mille migranti presenti sull’isola. Essi erano quindi stati condotti a Palermo e imbarcati su tre navi, rimaste per diversi giorni attraccate al porto della medesima città. Dall’aeroporto palermitano, i migranti erano infine stati rimpatriati in Tunisia previo un sommario accertamento della loro identità avanti al console tunisino in applicazione dell’accordo italo-tunisino del 5 aprile 2011.

 

2. Le censure sollevate dai ricorrenti. Così come la pronuncia della seconda sezione, anche la Grande Camera, dopo aver offerto un ampio excursus delle fonti nazionali e internazionali pertinenti[1], tratta in maniera puntuale tutte le diverse censure svolte dai ricorrenti nel ricorso trasmesso alla Corte il 9 marzo 2012.

I ricorrenti, in opportuna sintesi, lamentano:

1) la violazione dell'art. 5, § 1, CEDU, per essere stati trattenuti in maniera incompatibile con i presupposti ai quali tale disposizione subordina ogni forma legittima di privazione della libertà personale, nonché dell'art. 5, § 2, per non aver ricevuto alcuna comunicazione circa le ragioni del loro trattenimento, e dell'art. 5, § 4, per non aver avuto la possibilità di contestare la legalità di tale privazione di libertà;

2) la violazione dell'art. 3 CEDU, per essere stati trattenuti in condizioni inumane e degradanti tanto nel CSPA di Lampedusa quanto a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo;

3) la violazione dell'art. 4, prot. 4, CEDU, per essere stati vittime di un'espulsione collettiva;

4) la violazione dell'art. 13 CEDU con riferimento a tutti i precedenti profili di censura, per non aver potuto beneficiare di un efficace rimedio giurisdizionale interno contro tali violazioni convenzionali.

 

3. L’esito del giudizio. La Grande Camera ha parzialmente riformato il giudizio espresso dalla seconda sezione, con particolare riguardo ai profili attinenti la violazione dell’art. 3 CEDU e quella dell’art. 4, prot. 4, CEDU.

La sentenza del 1° settembre 2015, infatti, aveva accolto integralmente le censure concernenti le violazioni dell’art. 5, §§ 1, 2 e 4, CEDU; aveva accolto in parte quelle relative alle violazioni dell’art. 3 CEDU; e accolto integralmente quelle fondate sull’art. 4, prot. 4, CEDU, aspetto quest’ultimo particolarmente rilevante stante l’esiguo numero di pronunce in materia. La Corte, infine, aveva attribuito ai ricorrenti un rilevante risarcimento del danno, la cui proporzionalità era stata fatta specifico oggetto di una delle opinioni dissenzienti allegate alla pronuncia.

La Grande Camera ha confermato la sussistenza delle violazioni dell’art. 5 CEDU e dell’art. 13 CEDU in relazione all’art. 3, escludendo però la violazione sia dell’art. 3 CEDU, sia dell’art. 4, prot. 4, CEDU.

 

4. Le violazioni dell’art. 5, §§ 1, 2 e 4, CEDU (§§ 55-108, §§ 109-122, §§ 123-135 della sentenza). L’art. 5 CEDU regola i limiti sostanziali e procedurali entro i quali lo Stato può procedere a limitare la libertà personale di un soggetto sottoposto al suo controllo. Più in particolare, il § 1 enumera i casi, tassativi, nei quali tale privazione può avvenire; il § 2 impone allo Stato un dovere informativo nei confronti dell’arrestato, concernente le ragioni della privazione di libertà disposta in suo danno; il § 4 prevede che all’arrestato debba essere messo a disposizione un effettivo rimedio giurisdizionale idoneo a contestare le ragioni della privazione di libertà.

In ordine a tutte queste censure, le parti hanno sostenuto le medesime argomentazioni già offerte avanti alla sezione semplice e la Corte ha confermato integralmente la sentenza impugnata, avallando, spesso anche letteralmente, gli esiti cui la sezione semplice era pervenuta. Sia pertanto consentito rinviare in argomento a quanto illustrato nella scheda pubblicata su questa Rivista all’indomani della pubblicazione della pronuncia impugnata. Basti qui dire, in estrema sintesi, che la Corte ha confermato la riconducibilità della privazione di libertà subita dai ricorrenti all’ambito di applicazione della lettera f) dell’art. 5, § 1, CEDU, in quanto evidentemente finalizzata al controllo dell’ingresso degli stranieri sul territorio nazionale. Sulla base di tale premessa, la Corte ha rilevato l’assenza di idonea base legale per il trattenimento, constatando che, come sostenuto dai ricorrenti, nessuna norma interna prevedeva la privazione di libertà nei Centri di prima accoglienza come quello ove erano stati trattenuti i ricorrenti, ed escludendo altresì che potesse svolgere tale funzione l’accordo italo-tunisino dell’aprile 2011, sulla cui base erano stati eseguiti i rimpatri ma che non conteneva alcun riferimento alla privazione di libertà. La Corte ha pertanto ritenuto violato l’art. 5, § 1, CEDU.

Quanto all'art. 5, § 2, CEDU, concernente gli obblighi di informazione circa le ragioni del trattenimento, la Corte ha rilevato che, benché sia plausibile che i ricorrenti fossero a conoscenza del loro status di migranti irregolari, non vi è prova che abbiano ricevuto alcuna specifica informazione in ordine ai presupposti ed alla durata del trattenimento; per tale ragione la Corte conferma la violazione dell’art. 5, § 2, CEDU.

Quanto infine all’art. 5, § 4, CEDU, la Corte afferma recisamente che l’accertata violazione dell’obbligo informativo di cui all’art. 5, § 2, CEDU, comporta come logica conseguenza anche la violazione del diritto a un ricorso effettivo, rendendo superfluo accertare se i rimedi interni eventualmente esistenti ma - appunto - non portati alla conoscenza dei migranti possedessero le caratteristiche per soddisfare i requisiti di tempestività ed efficacia di cui all’art. 5, § 4, CEDU.

La Grande Camera pertanto conferma integralmente l’esito della sezione semplice, affermando la violazione dell’art. 5, §§ 1, 2 e 4, CEDU.

 

5. La violazione dell’art. 3 CEDU (§§ 136-211 della sentenza). L’art. 3 CEDU, norma cardine del sistema convenzionale, vieta la tortura e proibisce la sottoposizione dell’individuo a trattamenti inumani e degradanti. Esso rientra in quel ristretto novero di disposizioni per le quali l’art. 15 CEDU vieta ogni deroga all’applicazione della Convezione persino in caso di guerra “o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”.

La seconda sezione  aveva affrontato la doglianza suddividendo l’analisi nelle due fasi nelle quali si era articolato il trattenimento: la prima nel centro di soccorso e prima accoglienza di Contrada Imbriacola a Lampedusa, la seconda a bordo delle navi ormeggiate al porto di Palermo.

Quanto alla prima fase, la seconda sezione aveva ritenuto sussistente la violazione dell’art. 3 CEDU all’esito di una valutazione complessiva dei diversi parametri tradizionalmente valorizzati dalla propria giurisprudenza: il rilevante stato di sovraffollamento, le gravi carenze igienico-sanitarie e la condizione di particolare vulnerabilità dei migranti, appena sbarcati da un viaggio lungo e pericoloso e turbati dall’assoluta incertezza circa la propria condizione, avevano prevalso sulla rilevanza della breve durata del trattamento e sull’assenza di episodi di violenza o brutalità.

La seconda senzione aveva invece escluso la lamentata violazione convenzionale quanto alla seconda fase, rappresentata dalla permanenza sulle navi ormeggiate nel porto di Palermo, in quanto aveva ritenuto non provata la descrizione delle gravi condizioni di trattenimento riferite dai ricorrenti, ed aveva invece reputato attendibile la ricostruzione fattuale offerta dal Governo[2], secondo la quale in questa fase i migranti avrebbero goduto di buone condizioni igienico-sanitarie, di un minore grado di sovraffollamento rispetto al Centro di accoglienza e di idoneo accesso a cuccette, toilette, acqua e cibo.

Su entrambi i punti le parti hanno mantenuto davanti alla Grande Camera l’approccio adottato avanti alla seconda sezione: quanto al centro di accoglienza, i ricorrenti hanno evidenziato le obiettive carenze di spazio, le importanti deficienze igieniche e la propria condizione di soggetti vulnerabili, mentre il Governo ha appuntato la propria attenzione sugli interventi di sostegno psicologico e sanitario offerto e sulla peculiare situazione di emergenza che si era trovato ad affrontare; quanto alla situazione presente sulle navi, il Governo ha ribadito la propria tesi circa l’equo bilanciamento tra esigenze di sicurezza e buone condizioni di permanenza, in uno con la breve durata del trattamento, mentre i ricorrenti hanno contestato l’attendibilità della ricostruzione accolta dalla sezione semplice e riproposto le doglianze inerenti lo spazio disponibile, i tempi di accesso all’aria aperta, le dotazioni igienico-sanitarie e l’accesso al cibo.

La Grande Camera richiama innanzitutto i capisaldi della propria giurisprudenza. Per primo il fatto che la denuncia di trattamenti inumani e degradanti deve attingere un minimo livello di gravità, da valutarsi in senso relativo e intrinsecamente legato alle circostanze del singolo caso, come le finalità soggettive del trattamento, il contesto nel quale esso si verifica e l’eventualità per la quale la vittima si trovi in stato di detenzione, dove – al di là di un minimo di ineliminabile sofferenza connessa con tale stato – le Autorità devono vigilare in modo particolarmente attento al fine di prevenire la violazione convenzionale in parola. La Corte ricorda poi il cruciale rilievo della condizione di vulnerabilità della vittima, nella quale è da ricomprendere lo status di migrante. Fondamentale punto di riferimento, in terzo luogo, è la consolidata giurisprudenza in materia di sovraffollamento carcerario: la Corte rammenta che, se l’assegnazione di uno spazio vitale inferiore a 3 mq è di per sé sufficiente a integrare la violazione dell’art. 3 CEDU, anche il godimento di uno spazio più esteso può non essere idoneo a escludere tale violazione qualora non si accompagni a un adeguato accesso all’aria aperta, a minimi standard di riservatezza, a condizioni sanitarie adeguate, a un comodo accesso ai servizi igienici. Da ultimo, la Corte rammenta il rigoroso standard probatorio che deve essere soddisfatto dal ricorrente che alleghi una violazione della norma in discorso, il che tuttavia non significa che debbano essere offerte evidenze medico-legali dei trattamenti subiti, che possono attingere anche solo la sfera morale della vittima.

Prima di procedere alla disamina dei due profili inerenti la violazione dell’art. 3 CEDU, la Grande Camera richiama alcuni fra i più importanti arresti della propria giurisprudenza (§§ 170-177 della sentenza) e affronta uno dei principali argomenti preliminari reiterati dal Governo italiano, la rilevanza dello stato di emergenza. Sul punto, la Grande Camera mostra una maggiore sensibilità circa l’argomento del Governo rispetto a quanto emergeva nella sentenza del settembre 2015: pur riaffermando, infatti, che la peculiare rilevanza dell’art. 3 CEDU nell’architettura convenzionale non consente di attribuire decisivo rilievo a qualsivoglia situazione emergenziale nella quale si sia trovato lo Stato in occasione delle supposte violazioni, la Grande Camera riconosce che la condizione dell’isola di Lampedusa nel corso del 2011 fosse eccezionale e imprevedibile e che abbia costretto il Governo italiano ad affrontare diverse e serie difficoltà, che devono essere tenute presenti nella disamina del caso.

Tanto premesso, la Grande Camera prende le mosse dai fatti relativi al trattenimento presso il centro di prima assistenza di Contrada Imbriacola (§§ 187-201).

In proposito, la Corte sofferma la propria attenzione sui seguenti profili:

a) le fonti di informazione. I report presi in considerazione dalla Corte circa lo stato del centro di accoglienza sono principalmente due (quello di una Commissione istituita dal Senato italiano e quello di una sotto-commissione dell’Assemblea generale del Consiglio d’Europa): tuttavia, mentre la  seconda sezione aveva valorizzato in particolare i dati provenienti dal primo, la Grande Camera appunta maggiormente la propria attenzione sul secondo, in ragione del fatto che il primo fa riferimento a dati raccolti nel 2009, mentre il secondo fa data a soli pochi mesi prima dei fatti lamentati dai ricorrenti. Quest’ultima relazione dà conto di una situazione “decente benché basilare”, dove numerosi enti umanitari avevano libero accesso alla struttura in un clima di generale cooperazione, erano soddisfatti minimi standard igienico-sanitari ed erano garantiti assistenza medica e controlli sanitari da parte della locale A.S.L;

b) il sovraffollamento. In assenza di dati precisi quanto alla capienza del centro e all’effettiva consistenza delle presenze nel periodo interessato, la Corte è costretta ad effettuare dei calcoli approssimativi, e tuttavia rileva come da essi si raggiunga una percentuale di sovraffollamento comunque non superiore al 75%, la quale, ulteriormente temperata da una pur minima libertà di movimento all’interno del centro, si rivela lontana dalla casistica che induce comunemente la Corte a rinvenire una violazione dell’art. 3 CEDU;

c) la condizione di vulnerabilità. Benché la Corte riconosca che lo status di migrante implica ex se una condizione di vulnerabilità, la Grande Camera osserva che i ricorrenti non appartengono a nessuna categoria di soggetti specialmente vulnerabili (richiedenti-asilo, anziani, minori) e che al contrario per sesso, età e nazionalità non presentano condizioni personali di particolare rilevanza;

d) la durata del trattenimento. La Grande Camera enfatizza poi la breve durata del trattenimento denunciato (tre o quattro giorni), e rileva come essa non si accompagni – come nella giurisprudenza pertinente – a condizioni particolarmente severe o allarmanti (ad es. impiego di violenza, ritardo nella prestazione di urgenti cure mediche, radicale assenza di servizi igienici, minore età della vittima);

e) l’assenza di violenze e maltrattamenti. La Corte osserva infine che nel presente caso mancano del tutto episodi di violenza o di deliberato maltrattamento.

Da una considerazione d'insieme dei precedenti rilievi, la Grande Camera, in riforma della pronuncia resa dalla seconda sezione, ritiene quindi che le doglianze avanzate dai ricorrenti non abbiano raggiunto quella minima soglia di gravità necessaria per la declaratoria della violazione convenzionale. Nessuna violazione dell’art. 3 CEDU è pertanto riscontrata per quanto concerne il trattenimento nel centro di accoglienza di Contrada Imbriacola.

La Grande Camera passa quindi ad analizzare sotto la medesima lente prospettica le condizioni di detenzione subite dai ricorrenti a bordo delle navi ormeggiate al porto di Palermo (§§ 202-211).

Il tema è affrontato dalla Corte su un piano eminentemente processuale. La Corte, infatti, prende le mosse con il ribadire che, quanto alle lamentate violazioni dell’art. 3 CEDU, incombe sul ricorrente il rigoroso onere della prova, a meno che si tratti di casi nei quali l’individuo sia stato preso in custodia dall’Autorità in buone condizioni di salute e ne sia uscito in condizioni deteriori, nel qual caso è il Governo a dover fornire convincenti spiegazioni del decorso degli eventi nel tempo in cui l’individuo era sotto la sua specifica custodia.

Nel caso dei ricorrenti, la Corte ritiene dunque di non potersi discostare da quanto descritto nel provvedimento di archiviazione pronunciato dal GIP di Palermo (cfr. supra, nota 2) ove si dà conto della notizia riportata dalla stampa della visita di un parlamentare italiano su una delle navi, all’esito della quale egli aveva dichiarato alla stampa di aver trovato i migranti in buone condizioni.

Sul punto i ricorrenti avevano obiettato, da un lato, che trattavasi di un riscontro fattuale doppiamente indiretto (il provvedimento riferiva della notizia di stampa la quale a sua volta riferiva del racconto del parlamentare), mai confermato in un’aula dal diretto interessato; e, dall’altro, come la visita era stata effettuata con l’accompagnamento delle forze dell’ordine, circostanza che avrebbe inficiato la credibilità e la genuinità delle risultanze.

La Corte tuttavia ritiene che tali obiezioni non abbiano la consistenza necessaria per raggiungere lo status di elementi di prova. Per tale ragione, fondando la propria decisione sulle risultanze già indicate, conferma sul punto l’esito della pronuncia del settembre 2015, ed esclude che le condizioni a bordo delle navi ormeggiate al porto di Palermo fossero tali da violare l’art. 3 CEDU.

Pertanto, la Grande Camera rigetta integralmente le domande svolte dai ricorrenti quanto alla violazione sostanziale dell’art. 3 CEDU.

 

6. La violazione dell’art. 4 del quarto protocollo (§§ 212-255 della sentenza). L’art. 4, prot. 4, CEDU, proibisce come è noto le espulsioni collettive.

Nel caso di specie, la seconda sezione aveva affermato la violazione di tale norma sulla base di una duplice considerazione: da un lato, i provvedimenti di respingimento da cui erano colpiti i ricorrenti erano del tutto identici fra loro, salvo per i dati anagrafici, e non riportavano alcuna informazione sulla situazione personale dei singoli migranti, né era stata fornita dal Governo alcuna prova che fossero stati condotti dei colloqui personali con ciascun ricorrente riguardo alla propria specifica condizione; dall’altro, il medesimo trattamento era stato riservato nel medesimo arco temporale a numerosi individui accomunati dalla medesima nazionalità, sulla base del citato accordo italo-tunisino, il cui scopo pareva proprio essere quello di determinare modalità semplificate per il respingimento e l’espulsione dei cittadini tunisini.

Dopo avere analiticamente ripercorso le tesi in argomento delle parti e degli amici curiae ammessi ad intervenire, la Grande Camera (§§ 237-255) prende le mosse dalla considerazione delle finalità del divieto di espulsioni collettive, e cioè prevenire la possibilità che si verifichino espulsioni di stranieri sulla base della loro mera appartenenza ad un gruppo e senza la necessaria attenzione per le peculiarità del caso concreto, e ripercorre poi brevemente i principi affermati nei quattro casi nei quali sino ad oggi è stata riscontrata una violazione dell’art. 4, prot. 4, CEDU[3].

Venendo all’applicazione di tali principi al caso di specie, la Corte replica innanzitutto alla tesi del Governo italiano per la quale i casi dei ricorrenti,  destinatari di un respingimento differito ai sensi dell’art. 10, co. 2, T.U.Imm. e non di un’espulsione strettamente intesa, non rientrerebbero nell’ambito di applicabilità della norma in questione, e ribadisce che il concetto di “espulsione” non è in alcun modo connesso a dati formali derivanti dall’inquadramento giuridico proprio del diritto interno, ma risponde a una concettualizzazione più generale, nel senso di ricomprendere ogni ipotesi di allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato.

Al fine di valutare la sussistenza di un’espulsione collettiva, la Corte appunta la propria attenzione sui due momenti nei quali i ricorrenti hanno avuto modo di sottoporre alle autorità dello Stato ospitante le loro posizioni individuali, ossia il colloquio identificativo intrattenuto all’ingresso nel centro di accoglienza e l’incontro con il console tunisino avvenuto il giorno della partenza per la Tunisia. Che tale sia il focus dell’attenzione della Corte è passaggio fondamentale, e corrisponde alla sottolineatura circa la funzione del divieto in parola che la medesima Corte effettua pochi paragrafi prima: il divieto di espulsioni collettive si sostanzia nella tutela dall’arbitrio, e quindi – nella prospettiva della Corte – se il migrante ha avuto modo di far presenti le particolarità della propria condizione, lo spirito della norma è stato comunque rispettato.

Alla luce di ciò, e quanto in particolare alla prima identificazione, della quale non vi sono evidenze documentali, la Corte ritiene plausibile la spiegazione offerta dal Governo italiano in occasione dell’udienza dinanzi alla Grande Camera, secondo cui in tale occasione sono stati tenuti dei colloqui individuali in presenza di un interprete o di un mediatore culturale, ma i moduli compilati dai migranti sono andati distrutti nell’incendio che ha parzialmente danneggiato il centro di accoglienza. In ogni caso, la Corte rileva che la massiccia presenza nel centro di personale esterno e qualificato abbia offerto ai migranti sufficienti occasioni per evidenziare le eventuali peculiarità del loro caso. In proposito, la Corte precisa che l’art. 4, prot. 4, CEDU, non implica in ogni circostanza un vero e proprio diritto ad un colloquio individuale, ma solo che allo straniero venga offerta una possibilità reale ed effettiva di far valere gli argomenti contrari all’espulsione, e che questi siano esaminati in modo adeguato dalle autorità. Possibilità che, oltre che durante il soggiorno nel centro di Lampedusa, sarebbe stata fornita anche nel corso dell’incontro con il console tunisino.

Prova che i migranti hanno effettivamente avuto questa possibilità sarebbe fornita dal fatto che alcuni di coloro che erano trattenuti nel centro di prima accoglienza hanno effettivamente ottenuto l’apertura delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, garantendosi in tal modo la sospensione delle procedure di espulsione, e che alcuni degli stranieri condotti davanti al console tunisino non sono poi stati rimpatriati in ragione della loro età o della loro nazionalità.

Quanto agli argomenti valorizzati dalla sezione semplice (omogeneità e genericità dei provvedimenti espulsivi; grande quantità di espulsioni simultanee), la Grande Camera ritiene che essi non possano essere ritenuti di per sé decisivi.

Da ultimo, la Corte sottolinea come i ricorrenti non abbiano fornito concreti elementi per dimostrare che, qualora sentiti, avrebbero potuto ottenere la sospensione dell’espulsione e la permanenza in Italia, ponendosi quindi la questione dell’utilità concreta dell’esame individuale nel caso di specie.

Per tutte tali ragioni, la Corte – in riforma della pronuncia impugnata – dichiara che non sussiste nel caso di specie alcuna violazione dell’art 4, prot. 4, CEDU.

 

7. La violazione dell’art. 13 CEDU con riferimento agli artt. 5 e 3 CEDU e 4, prot. 4, CEDU (§§ 256-281). I ricorrenti avevano lamentato, da ultimo, la violazione dell’art. 13 CEDU, relativo al diritto ad un ricorso effettivo, in riferimento a tutte le norme convenzionali fin qui trattate.

La seconda sezione  aveva ritenuto assorbita la questione relativa all’art. 5 per il fatto che tale ultima norma già prevede un vincolo procedurale idoneo a garantire la medesima tutela offerta dall’art. 13, e che tale vincolo sia proprio quello rappresentato dall’art. 5, § 4, del quale la Corte aveva già rilevato la violazione.

Anche la Grande Camera giunge alla medesima conclusione, rammentando come l’art. 5, § 4, CEDU, costituisca una vera e propria lex specialis rispetto all’art. 13 CEDU.

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 13 in riferimento all’art. 3 CEDU, la sezione semplice – che aveva rilevato una violazione sostanziale dell’art. 3 limitatamente al periodo di detenzione nel centro di accoglienza – aveva affermato altresì che si fosse verificata la violazione dell’art. 13 in ragione dell’assenza di alcun mezzo di impugnazione o opposizione avverso le condizioni di trattenimento.

La Grande Camera, che come si ricorderà è invece pervenuta a negare la violazione sostanziale dell’art. 3 CEDU, osserva tuttavia come le censure sollevate dai ricorrenti quanto alla violazione dell’art. 3 non fossero manifestamente inammissibili e ponessero delle delicate questioni di fatto e di diritto. A prescindere quindi dall’esito della censura sostanziale, la Corte afferma che la serietà delle questioni addotte richiedeva la presenza di un’autorità deputata ad esaminarle.

Condivisi quindi i rilievi formulati nella sentenza del settembre 2015, la Grande Camera conferma esservi stata violazione dell’art. 13 CEDU, con riferimento all’art. 3 CEDU, in ragione dell’assoluta mancanza di alcun organo cui i migranti avrebbero potuto indirizzare doglianze relative alle condizioni del trattenimento.

Con riguardo alla violazione dell’art. 13 in riferimento all’art. 4, prot. 4, CEDU, infine, la sezione semplice aveva ritenuto violata la garanzia procedimentale poiché, pur essendo acclarato che l’ordinamento italiano preveda uno specifico mezzo di impugnazione avverso il provvedimento di respingimento (rappresentato dal ricorso al giudice di pace territorialmente competente), tale ricorso non possedeva efficacia sospensiva del rimpatrio, rendendo impossibile o eccessivamente difficoltoso il concreto accesso al rimedio giurisdizionale e, soprattutto, esponendo i migranti ai rischi derivanti da un rimpatrio eseguito senza prendere in considerazione la loro situazione individuale.

La Grande Camera muove dal medesimo presupposto: a differenza che per quanto concerne le condizioni del trattenimento, avverso il provvedimento di respingimento un rimedio esiste ed è potenzialmente effettivo, tant’è che il Giudice di pace di Agrigento ha accolto alcuni dei ricorsi presentati da altri migranti; la questione che si pone è allora unicamente quella della necessità che tale rimedio sia munito di efficacia sospensiva del rimpatrio.

Passaggio chiave del ragionamento della Corte (§§ 274-281) è la considerazione per la quale la necessità di efficacia sospensiva non è assoluta. Con riferimento alla sentenza della Grande Camera De Souza Ribeiro (sulla quale anche la sezione semplice aveva costruito il proprio ragionamento), la Corte ricorda che la necessità di efficacia sospensiva è strettamente connessa al rischio di maltrattamenti (art. 3 CEDU) o di danno irreversibile alla persona (art. 2 CEDU) derivanti dal rimpatrio, mentre si affievolisce in casi nei quali siano chiamate in causa violazioni di minore rilievo quali quelle connesse con il rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU).

Sulla base di questo principio, la Corte sottolinea come i ricorrenti non abbiano lamentato alcun rischio per la vita o l’integrità fisica nel caso in cui fossero stati rimpatriati in pendenza del procedimento di impugnazione, concludendo che nel caso concreto non vi fosse alcuno dei gravi rischi per i quali la propria giurisprudenza aveva affermato la necessità che il mezzo di impugnazione fosse dotato di efficacia sospensiva.

Per tale motivo, nel caso concreto il rimedio non doveva necessariamente essere dotato di efficacia sospensiva.

Poiché, quindi, il rimedio offerto dall’ordinamento italiano per censurare la legittimità del provvedimento di rimpatrio esiste ed è potenzialmente effettivo, non essendo richiesto che sia dotato di efficacia sospensiva in casi come quello dei ricorrenti, la Grande Camera giunge a riformare la sentenza impugnata e ad escludere la violazione dell’art. 13 CEDU con riferimento all’art. 4, prot. 4, CEDU.

 

8. Il risarcimento dei danni (§§ 282-285). All’esito del giudizio, la Grande Camera, in ottemperanza al disposto dell’art. 41 CEDU e alla luce delle violazioni riscontrate, determina in favore dei ricorrenti un’indennità di Euro 2.500 ciascuno. Sul punto ci si limita ad annotare che nel precedente giudizio l’indennità era stata commisurata in Euro 10.000 per ciascuno dei ricorrenti.

 

9. Le opinioni concorrenti e dissenzienti. Il Presidente Raimondi ha espresso un'opinione concorrente, mentre i Giudici Dedov e Serghides hanno respresso ciascuno un'opinione parzialmente dissenziente.

Di particolare interesse è l'opinione del Presidente Raimondi, che era parte della maggioranza che nella sezione semplice aveva ritenuto sussistenti le violazioni convenzionali che la Grande Camera ha invece escluso anche con la partecipazione del suo voto; l’opinione illustra quindi le ragioni per le quali il Giudice ha mutato avviso da un grado all’altro del giudizio. Quanto all’art. 3 CEDU, l’opinione saluta con favore la valorizzazione che la Grande Camera ha fatto della situazione di emergenza conseguente all’ondata migratoria. Quanto all’art. 4, prot. 4, CEDU, il Giudice rileva come, se è vero che il sistema congegnato per l’espulsione dei cittadini tunisini dall’accordo italo-tunisino consentisse, di fatto, alle Autorità di rimpatriare i migranti sulla sola base della loro appartenenza nazionale, deve essere valorizzata la circostanza che nel caso concreto i migranti avessero avuto modo di informare le autorità delle peculiarità della propria situazione; il Giudice afferma quindi di concordare con il livello di tutela garantito dalla Corte quanto alla non necessità di un colloquio individuale, quando lo straniero abbia comunque avuto la possibilità di far valere le ragioni che si oppongono al suo rimpatrio. Da ultimo, quanto all’art. 13 CEDU, letto con riferimento all’art. 4, prot. 4, CEDU, il Giudice ritiene pienamente condivisibile la statuizione della Grande Camera per la quale il ricorso deve avere carattere sospensivo solo quando il rimpatrio esponga lo straniero al rischio di violazioni particolarmente gravi.

La (brevissima) opinione parzialmente dissenziente del Giudice Dedov si sofferma invece sulla constatata violazione dell’art. 5 CEDU: il Giudice Dedov afferma che si sarebbe dovuta tenere in maggiore considerazione la situazione di emergenza connessa con l’arrivo in massa dei migranti, ciò che avrebbe dovuto condurre a concedere margini più ampi allo Stato per gestire la situazione, anche mediante il ricorso a forme di privazione della libertà degli stranieri. Egli tuttavia dichiara di condividere la decisione della maggioranza quanto alla violazione dell’art. 5, per inviare un segnale alle autorità italiane quanto alla necessità di migliorare la qualità della propria legislazione in materia, ma esprime il proprio dissenso quanto al riconoscimento ai ricorrenti di un’indennità a titolo di danno morale.

Per contro, molto articolata ed estesa è l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Serghides. Essa attiene alla violazione dell’art. 4, prot. 4, CEDU, e dell’art. 13 CEDU in relazione all’art. 4, prot. 4.

Il Giudice dissenziente osserva innanzitutto come nel caso dei ricorrenti l’Italia abbia pacificamente applicato la procedura semplificata concordata a livello bilaterale con la Tunisia, e come tale procedura mirasse evidentemente ad evitare l’esame individuale del migrante, escludendolo altresì dall’assistenza legale, e a promuovere la massima semplificazione procedurale dell’espulsione una volta verificata la (sola) appartenenza nazionale. Ciò allora basta ad affermare la violazione del divieto di espulsione collettiva, il quale per la sua estrema gravità deve essere interpretato in maniera quanto più stringente e precisa.

Il Giudice Serghides passa poi a trattare la questione della natura vincolante o meno dell’obbligo di condurre l’esame individuale, affermando che tale esame è indispensabile e intimamente connaturato allo scopo della disposizione convenzionale. L’argomentazione è molto complessa, e in questa sede non è possibile che una ricostruzione molto sintetica. L’estensore ritiene in sintesi che, una volta che - come fa la Grande Camera - non si ritenga necessario un colloquio individuale, si finisce per lasciare alla discrezionalità delle autorità di polizia la conduzione di un esame più o meno approfondito, spostando inoltre sul migrante la difficile prova di versare in una situazione idonea al conseguimento di una forma di protezione internazionale, ed introducendo implicitamente delle eccezioni non previste dalla norma in discorso. E' poi in linea generale errato subordinare un obbligo procedurale come quello sancito all’art. 4, prot. 4 alla violazione di diritti sostanziali riconducibili agli artt. 2 e 3, così come subordinare l’applicabilità del divieto di espulsioni collettive alla natura legale o illegale dell’ingresso del migrante; la negazione dell’obbligatorietà dell’esame individuale costituirebbe un passo indietro significativo rispetto ai principi affermati dalla Corte nelle altre occasioni in cui si è trovata a confrontarsi con l’interpretazione della norma in esame. Inoltre, le stesse formulazioni letterali tanto dell’art. 4, prot. 4, CEDU, quanto della definizione di espulsione collettiva offerta dalla Corte contengono in se stesse l’affermazione dell’indipendenza del profilo procedurale rispetto a quello sostanziale: senza l’esame individuale, il divieto di espulsione collettiva perde di contenuto perché si sovrappone alla valutazione della sussistenza in concreto delle condizioni per la permanenza dello straniero nello Stato, ossia di un profilo del tutto diverso per statuto e finalità. Infine, con argomento a contrario, il Giudice Serghides osserva che, qualora l’art. 4, prot. 4, CEDU, contenesse anche un obbligo sostanziale, nessuno dubiterebbe dell’autonoma rilevanza della violazione del solo profilo procedurale, come accade pacificamente per gli artt. 2, 3 e 8 CEDU. Per tali motivi, conclude il Giudice dissenziente, l’omissione dell’esame individuale deve essere sempre essere considerata una violazione dell’art. 4, prot. 4, CEDU.

A questo punto, il Giudice tratta del concreto adempimento dell’obbligo di esame individuale, ritenuto “probabile” dalla Grande Camera in base alle deduzioni del Governo italiano: a seguito di un puntuale esame dei singoli argomenti utilizzati dalla maggioranza dei giudici, il Giudice Serghides afferma che non vi sia alcuna prova dell’effettiva conduzione di esami individuali, e che i ragionamenti in proposito seguiti nella sentenza appaiano illogici, apodittici e contraddittori, precisando poi che – anche a voler concedere che un primo esame sia stato effettuato – ciò che manca è la prova del contenuto di tale esame e del suo esito, del quale non a caso non si fa alcun cenno nei decreti di respingimento differito. In due chiose finali, il Giudice precisa che quando uno Stato operi delle espulsioni “di massa” deve operare una presunzione di violazione del divieto di espulsioni collettive e l’onere della prova contraria deve quindi gravare sullo Stato e non sull’individuo; inoltre, il Giudice rivendica lo stretto legame logico-consequenziale tra la prova della violazione dell’art. 5, § 2, CEDU, e quella dell’art. 4, prot. 4, CEDU, essendo improbabile che lo Stato che non ha informato il migrante delle ragioni del suo trattenimento lo informi invece dei suoi diritti a fare valere le ragioni che si oppongono al rimpatrio.

Segue poi un lungo e articolato excursus circa l’interpretazione dell’aggettivo “collettivo”, all’esito del quale il Giudice dissenziente afferma l’assoluta irrilevanza del numero di individui “collettivamente espulsi”, dal momento che la norma si focalizza sulle modalità di espulsione e non sull’estensione aritmetica nel fenomeno[4].

Ancora, l’opinione in discorso - a indiretta replica al rilievo (negativo) attribuito dalla maggioranza dei giudici al fatto che i ricorrenti fossero meri “migranti economici” - illustra come la garanzia dell’art. 4, prot. 4, CEDU si applichi, in quanto garanzia procedurale, indipendentemente dalla legittimità dell’ingresso o del soggiorno del migrante.

Infine, il Giudice Serghides osserva come, accanto a requisiti meramente procedurali come l’esame individuale, l’art. 4, prot. 4, CEDU preveda la necessità di indagare il contesto e il contenuto della decisione di espulsione, per verificare se – nonostante il rispetto del profilo procedimentale – la decisione sia di fatto unicamente fondata sull’appartenenza al gruppo, arrivando ad affermare che l’accertamento della violazione della norma in discorso debba essere condotto con un doppio test, rivolto a verificare il rispetto di entrambi i profili.

Sulla base di tutte le considerazioni qui riassunte, il Giudice Serghides conclude nel senso della violazione dell’art. 4, prot. 4, CEDU nel caso di specie.

Quanto infine alla violazione dell’art. 13 CEDU in combinazione con l’art. 4, prot. 4, CEDU, infine, il Giudice afferma che la rilevanza dell’effetto sospensivo del mezzo di impugnazione non può essere vincolata alla gravità dei rischi cui il migrante andrebbe incontro una volta espulso in pendenza dell’impugnazione, poiché ciò comporterebbe che l’effetto sospensivo dovrebbe essere determinato discrezionalmente dalle autorità amministrative in base alla ragionevolezza delle doglianze proposte dal singolo migrante. Del resto, che l’effetto sospensivo sia necessario anche rispetto al divieto di espulsioni collettive è maggiormente compatibile con il carattere assoluto della protezione contro l’arbitrio offerta dall’art. 4, prot. 4, CEDU.

 

[1] Per vero, la Grande Camera si sofferma molto più a lungo su questa premessa, enumerando fonti non richiamate dalla sezione semplice, fra le altre la direttiva rimpatri (dir. 2008/115/CE), del tutto pretermessa dalla sentenza di “prime cure”. Basti osservare il diverso spazio riservato a tale scopo: nove paragrafi (§§ 27-35) nella prima sentenza, diciannove (§§ 32-50) nella seconda.

[2] Il Governo fondava tale ricostruzione sul contenuto di un’ordinanza di archiviazione per i reati di abuso d’ufficio e arresto illegale pronunciata dal GIP di Palermo nell’aprile 2012 in ordine ai medesimi fatti sottoposti allo scrutinio della Corte di Strasburgo, nella quale ordinanza si dava conto delle risultanze di una visita effettuata da un membro del Parlamento italiano a bordo di una delle navi in questione, che risultava in buone condizioni di affollamento, igiene e sicurezza.

[3] Čonka c. Belgio, ric. n. 51564/99; Hirsi Jamaa e altri c. Italia, Grande Camera, ric. n. 27765/09; Georgia c. Russia (I), Grande Camera, ric. n. 13255/07; e Sharifi e altri c. Italia e Grecia, ric. n. 16643/09.

[4] Ciò non perché la Grande Camera abbia statuito il contrario, ma perché – a dire del Giudice Serghides – essa non ha esplicitato questa caratterizzazione, a fronte di due opinioni dissenzienti che avevano trattato in tal senso l’argomento a margine della sentenza della sezione semplice.