ISSN 2039-1676


04 luglio 2017 |

Le Sezioni Unite ridefiniscono la nozione di privata dimora ai fini dell’art. 624-bis c.p.

Nota a Cass., SSUU, sent. 23 marzo 2017 (dep. 22 giugno 2017), n. 31345, Pres. Canzio, Rel. Amoresano, Ric. D’Amico

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2017

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1. Sono state recentemente depositate le motivazioni della sentenza con cui le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a meglio delineare i confini dell’area di applicabilità della fattispecie di furto c.d. in abitazione di cui all’art. 624-bis c.p., hanno offerto una nuova definizione della nozione di “privata dimora” volta a risolvere, una volta per tutte, la vexata quaestio se rientrino o meno in tale concetto anche gli esercizi commerciali e gli altri luoghi di lavoro aperti al pubblico.

A tale quesito le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa, con la sola eccezione di quei casi in cui il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, in quanto “rientrano nella nozione  di privata dimora di cui all'art. 624-bis c.p. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del  titolare”.

 

2. Il caso sottoposto alla Suprema Corte riguardava un furto commesso dall’imputato introducendosi in un ristorante durante l’orario di chiusura pomeridiana, avente a oggetto una somma di denaro pari a duecento euro, sottratta dalla cassa, e una macchina fotografica, appartenente al titolare dell’esercizio. Sebbene al momento del furto nel locale non vi fosse nessuno, il proprietario era sopraggiunto proprio mentre il ladro fuggiva, uscendo dalla medesima finestra dalla quale era entrato rompendo il vetro: l’imputato era stato pertanto prontamente arrestato dalle forze di polizia, immediatamente allertate dal titolare del ristorante.

Dopo essere stato condannato in primo grado e in appello per il reato di cui all’art. 624-bis c.p., terzo comma (perché aggravato ai sensi dell’art. 625 c.p., primo comma, n. 2), l’imputato proponeva ricorso per cassazione, denunciando violazione di legge e vizi motivazionali nella parte in cui la sentenza di condanna considerava luogo di “privata dimora” il ristorante, rilevandosi in tale materia l’esistenza di significativi contrasti in giurisprudenza. Di conseguenza, la difesa chiedeva in via principale l’annullamento della sentenza impugnata, sostenendo che fosse da condividersi la tesi interpretativa secondo cui un esercizio commerciale non può essere considerato “luogo di privata dimora”, specialmente durante l’orario di chiusura, ossia in un momento in cui è da escludersi lo svolgimento al suo interno di “atti di vita privata”; in via subordinata chiedeva poi la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Tale seconda via è stata quella prescelta dalla Quinta sezione penale della Corte, la quale ha riconosciuto che, in effetti, sul punto oggetto di questione la stessa giurisprudenza di legittimità appariva fortemente divisa, accogliendo un’interpretazione di “privata dimora” – nelle varie fattispecie del codice penale e processuale penale in cui essa viene in rilievo – ora in senso estensivo, ora in senso restrittivo. Stante tale “incomprimibile divergenza di vedute”, un intervento delle Sezioni Unite era dunque a suo giudizio indispensabile, non soltanto per chiarire i limiti applicativi del delitto di cui all’art. 624-bis c.p., ma, più in generale, per individuare finalmente un concetto di “luogo di privata dimora” unitario e unificante per tutte le diverse fattispecie che lo evocano.

Per questi motivi, la Sezione semplice disponeva la rimessione alle Sezioni Unite, individuando lo specifico profilo di diritto controverso nella possibilità o meno di configurare la figura criminosa in questione quando l’azione delittuosa venga consumata “in esercizi commerciali, studi professionali, stabilimenti industriali, e in generale in luoghi di lavoro, specie allorché la condotta sia ivi posta in essere in orario di chiusura al pubblico della sede lavorativa e, in particolare, in assenza di persone dedite a una qualche attività o mansione all’interno di tali luoghi in detti orari”.

 

3. Nel rispondere a tale questione, le Sezioni Unite riconoscono di dover anzitutto procedere a una corretta definizione della nozione di “privata dimora”, alla quale il legislatore fa riferimento, oltre che nel delitto di cui all’art. 624-bis c.p., anche in altre norme sia di carattere sostanziale (agli artt. 614, 615, 615-bis, 628 co. 3, n. 3-bis, 52 co. 2 c.p.), sia di carattere processuale (e in particolare all’art. 266 co. 2 c.p.p.).

3.1. Come riconosciuto anche dal rimettente, in questo ambito l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità è quello estensivo, ossia quello che, partendo dalla considerazione che il concetto di privata dimora sia più ampio di quello di abitazione, vi ricomprende tutti i luoghi al cui interno un soggetto possa vantare un generico ius excludendi (vale a dire l’astratta possibilità di inibire l’accesso al pubblico, anche solo in determinati orari) e in cui egli si trattenga per compiere, anche in maniera transitoria e contingente, atti della vita privata, tra i quali pacificamente rientrano anche le attività lavorative di natura professionale, commerciale o imprenditoriale; il delitto di cui all’art. 624-bis c.p. è stato così configurato anche in relazione a furti commessi in luoghi quali un ristorante in orario di chiusura, un bar-tabacchi, sempre in orario di chiusura, un cantiere edile allestito all’interno del cortile di un immobile, un’edicola, uno studio odontoiatrico, una farmacia in orario di apertura, ecc.[1]

A giudizio delle Sezioni Unite, tuttavia, un simile ampliamento della nozione di privata dimora contrasta sia con il dato letterale, sia con la ratio, sia con un’interpretazione sistematica della norma incriminatrice de qua.

Sebbene, infatti, tale concetto debba sicuramente ritenersi più esteso di quello di abitazione, il significato letterale della norma di per sé esclude tutti i casi in cui la presenza in un luogo del soggetto debba ritenersi del tutto occasionale, ossia manchi un rapporto stabile tra il luogo e l’individuo (dal punto di vista etimologico, osserva infatti la Corte, la parola “dimora” richiama inevitabilmente il permanere, soggiornare, trattenersi in un determinato luogo); in favore di tale interpretazione depone anche il requisito della “destinazione” del luogo “a privata dimora”, che implica che tale rapporto debba essere quantomeno apprezzabile sotto il profilo cronologico.

L’esigenza di un’interpretazione restrittiva della norma, infine, si ricava anche dalla rubrica della fattispecie incriminatrice, che per l’appunto fa riferimento al “furto in abitazione”: dal che si comprende come anche nella nozione di dimora vadano ricompresi solo i luoghi che, benché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano comunque le “caratteristiche” dell’abitazione.

3.2. In alcune decisioni di legittimità, invero, la Suprema Corte ha in passato cercato di limitare la portata estensiva dell’interpretazione del concetto di privata dimora. Vanno in questa direzione, in particolare, quelle sentenze – riportate dettagliatamente anche nell’ordinanza di rimessione – che hanno escluso la configurabilità del reato di furto in abitazione nei casi in cui il soggetto si era introdotto all’interno di un esercizio commerciale in orario notturno (o, in generale, in orario di chiusura)[2], oppure quelle che in simili casi hanno richiesto l’accertamento della prevedibile presenza di persone all’interno del luogo intente allo svolgimento di atti della vita privata (a prescindere dall’orario in cui il fatto si è verificato)[3].

Tali soluzioni, tuttavia, secondo le Sezioni Unite risultano non condivisibili, in quanto produrrebbero l’inaccettabile effetto di far dipendere l’applicabilità di un trattamento sanzionatorio più grave (quale quello previsto per il delitto di cui all’art. 624-bis c.p.) dalla presenza o assenza di elementi estranei alla fattispecie, e per di più vaghi e accidentali, determinando peraltro una vera e propria “tutela a intermittenza”[4] a opera della norma incriminatrice in esame.

3.3. Piuttosto, ai fini della disciplina penalistica è per le Sezioni Unite evidente che il luogo destinato a privata dimora, per essere tale, debba possedere di per sé specifiche caratteristiche, poiché esso viene in rilievo, agli occhi del legislatore, “non tanto nella sua consistenza oggettiva, quanto nel suo essere proiezione spaziale della persona, cioè ambito primario e imprescindibile alla libera estrinsecazione della personalità individuale”.

Una tale asserzione è confermata non solo da un’interpretazione storico-sistematica dell’art. 624-bis c.p. (che, non a caso, contempla parallelamente il “furto in abitazione” e il “furto con strappo”, a riprova dell’intenzione del legislatore di ampliare la tutela penale non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche personale), ma pure da un’analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di privata dimora, che ancora la libertà di domicilio ex art. 14 Cost. – letta in stretta connessione con la libertà individuale – da un lato al diritto di ammettere o escludere chiunque altro da un determinato luogo, e dall’altro al diritto alla riservatezza su quanto nei medesimi luoghi si compia (cfr. in particolare le sentenze della Corte cost. n. 135/2002 e n. 149/2008, entrambe in tema di intercettazioni).

Sulla stessa linea, del resto, anche la precedente pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite Prisco del 28 marzo 2006 ha chiaramente affermato che “il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza”, e che anzi esso individua un peculiare “rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza”: rapporto che dunque deve essere “tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente[5].

 

4. Alla luce dei principi enucleabili tanto dalla giurisprudenza di costituzionalità, quanto dai propri precedenti in materia, le Sezioni Unite giungono quindi a ricostruire la nozione di privata dimora sulla base di tre indefettibili elementi: a) l’utilizzo del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (tra cui rientra anche l’attività lavorativa in genere) in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, che deve essere caratterizzato da stabilità e non da occasionalità; e c) la non accessibilità del luogo da parte di estranei senza il consenso del titolare.

La Suprema Corte ha così posto le basi per poter finalmente risolvere la questione di diritto rimessale dalla Quinta sezione, e dunque chiarire, alla luce dei criteri appena enunciati, se rientrino o meno nel delitto di furto in abitazione le ipotesi in cui il reato sia avvenuto in esercizi commerciali e altri luoghi di lavoro aperti al pubblico.

In linea con il proprio ragionamento, le Sezioni Unite precisano allora che, a dispetto di quanto affermato dall’orientamento interpretativo maggioritario, la possibilità di qualificare i luoghi di lavoro come luoghi in cui il soggetto compie atti della propria vita privata non è sufficiente ad attribuire loro il carattere di privata dimora: a una simile operazione, infatti, osta irrimediabilmente il fatto che gli stessi sono, nella generalità dei casi, accessibili a una pluralità di soggetti senza necessità del previo assenso dell’avente diritto, e risultano quindi privi del necessario requisito della riservatezza.

L’orientamento estensivo che ritiene tali luoghi di per sé ricompresi entro il concetto di privata dimora, di conseguenza, a giudizio delle Sezioni Unite si pone in contrasto con la lettera e la ratio della norma incriminatrice in rilievo; una conferma di tale fatto, tra l’altro, si ritroverebbe anche nell’art. 52 co. 3 c.p. (inserito dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59), che espressamente estende la disciplina prevista dal precedente comma per i luoghi di privata dimora anche ai luoghi in cui sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale: precisazione che, evidentemente, è stata ritenuta necessaria perché il legislatore non considera tale nozione in generale comprensiva anche dei luoghi di lavoro.

L’unico caso in cui le Sezioni Unite ritengono sia possibile considerare la fattispecie di cui all’art. 624-bis c.p. integrata anche rispetto a fatti di furto commessi all’interno di luoghi di lavoro è pertanto quello in cui questi ultimi posseggano le caratteristiche proprie dell’abitazione: accertamento che, tuttavia, dovrà essere compiuto caso per caso dai giudici di merito, in considerazione di specifici elementi del caso di specie che permettano di ritenere che all’interno del luogo di lavoro o in parte di esso il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (come, ad esempio, in relazione a retrobottega, bagni privati o spogliatoi o altre aree riservate).

 

5. Nel caso di specie, conclude la Corte, dall’analisi degli atti non emergeva che l’esercizio commerciale in cui il furto era avvenuto avesse le caratteristiche ora delineate; risultava chiaramente, anzi, che la somma di denaro si trovasse all’interno della cassa dell’esercizio, mentre la macchina fotografica era stata lasciata su un tavolo: entrambi i beni, dunque, erano custoditi in luoghi normalmente accessibili al pubblico

Di conseguenza, la fattispecie concreta in esame non poteva essere correttamente sussunta entro la figura di cui all’art. 624-bis c.p., dovendosi pertanto accogliere il ricorso proposto della difesa e, riqualificato il fatto come furto semplice aggravato ex art. 625 co. 1, n. 2 c.p., annullare la sentenza impugnata con rinvio per la rideterminazione della pena.

 

***

 

6. La pronuncia delle Sezioni Unite ora in esame si pone come ideale punto di arrivo di un percorso giurisprudenziale in realtà non poco travagliato, e che riguarda l’interpretazione attribuita al concetto di “privata dimora” ai fini dell’applicabilità non solo della norma incriminatrice di cui all’art. 624-bis c.p., ma anche di una serie di ulteriori figure delittuose (in primis, i delitti di violazione di domicilio e di interferenze illecite nella vita privata), oltre che della disciplina in materia di intercettazioni ambientali.

Potrebbe essere utile, pertanto, ripercorrere brevemente le principali tappe di tale percorso e ricostruire i termini del contrasto giurisprudenziale che ha spinto i giudici di cassazione a richiedere finalmente l’intervento del massimo organo di nomofiliachia.

 

7. È in particolare con riferimento al delitto di cui all’art. 614 c.p. che il concetto di “privata dimora” ha ricevuto una prima elaborazione da parte della giurisprudenza, venendo fin da subito considerato (come riconosciuto in apertura anche dalla sentenza in esame) più ampio di quello di abitazione, così da ricomprendere ogni luogo che risulti funzionale – in modo permanente o contingente – all’esplicazione della vita privata dell’individuo, comprensiva della sua vita politica, culturale, lavorativa e ricreativa. In tale cornice è stato allora ricondotto ogni ambiente all’interno del quale l’individuo estrinseca la propria personalità, anche attraverso lo svolgimento di attività lavorative di natura professionale, commerciale o imprenditoriale.

Nell’ambito di una progressiva estensione del concetto di “privata dimora” anche agli ambienti di lavoro, pertanto, la giurisprudenza ha riconosciuto configurabile il delitto di violazione di domicilio persino in relazione a luoghi aperti al pubblico, e in particolare a esercizi commerciali. A tal fine, si è valorizzata, quale criterio identificativo, la possibilità per l’interessato di esercitare uno ius excludendi in ordine al suddetto luogo, ossia il diritto di escludere, per vari motivi, l’ingresso o la permanenza nello stesso di determinate persone; in questo modo sono stati qualificati come “luoghi di privata dimora” non solo studi professionistici e uffici privati (cfr. ad es. Cass. pen., Sez. V, 27 novembre 1996, n. 206905, Lo Cicero), ma pure uffici di banche (es. Cass. pen., Sez. I, 2 maggio 1978, n. 139981, Maida), stabilimenti industriali (es. Cass. pen., Sez. V, 4 luglio 1985, n. 171090, Perini) ed esercizi commerciali, tra i quali ristoranti (Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 1984, n. 1353, Barbagallo), negozi (Cass. pen., Sez. V, 26 ottobre 1983, n. 161607, Logiudice, la quale ha peraltro precisato che i pubblici esercizi sono luoghi di privata dimora non solo quando sono aperti al pubblico, ma anche, a maggior ragione, in orario di chiusura), trattorie (Cass. pen., Sez. I, 9 maggio 1979, n. 143105, Mastropierro), tabaccherie (Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 1973, n. 124963, Spiritoso).

 

8. In materia di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.) e di intercettazioni ambientali (art. 266 comma 2 c.p.p.), nella giurisprudenza di legittimità si è nondimeno affermato – come osservato anche in dottrina[6] – un orientamento più restrittivo, volto a escludere dal concetto di “privata dimora” quegli ambienti in cui il titolare possa sì vantare uno ius excludendi, ma non anche un diritto alla riservatezza. In tale contesto, due sono fondamentalmente i criteri cui si è fatto ricorso: da un lato, quello della pubblica accessibilità dei luoghi, che di per sé escluderebbe la riservatezza; dall’altro, quello dell’occasionalità o temporaneità della presenza nel luogo.

Sul punto sono intervenute, come già anticipato, le stesse Sezioni Unite Prisco, che, pronunciandosi in materia di intercettazioni, hanno sottolineato come la nozione di “domicilio” accolta dal codice penale sottintenda “un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza”; sulla base di tale principio esse hanno dunque negato che potesse attribuirsi la qualifica di “luogo di privata dimora” al privè di un locale notturno, in cui alcuni clienti si recavano per appartarsi e commettere attività delittuose. Similmente, altre pronunce hanno successivamente escluso che potessero configurare una privata dimora luoghi come una toilette pubblica (es. Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 2009, n. 11522, Fabro), l’abitacolo di un’autovettura (es. Cass. pen., Sez. V, 6 marzo 2009, n. 28251, Pagano), oppure le docce di una piscina comunale (cfr. Cass. pen., Sez. V, 15 maggio 2015, n. 28174, Capanna)[7].

 

9. Con riferimento alla numerosa casistica concernente gli esercizi commerciali, però, è comunque generalmente prevalsa una lettura ampia della nozione in esame; in tema di art. 615-bis c.p., ad esempio, la Cassazione ha in un caso riconosciuto che il luogo di lavoro aperto al pubblico costituisce privata dimora solo rispetto alle persone che (a differenza dei clienti) vi si trovano stabilmente per ragioni di lavoro, sicché commetterebbe interferenze illecite nella vita privata chi, attraverso la vetrina di un negozio, fotografi un soggetto intento allo svolgimento della propria attività lavorativa (così in Cass. pen., Sez. V, 5 dicembre 2006, n. 10444, Teli).

Anche ai fini dell’applicabilità della fattispecie di cui all’art. 624-bis c.p. è stato spesso considerato determinante il fatto che l’ambiente in cui il furto era stato perpetrato avesse, per la sua struttura o per l’uso che ne veniva fatto in concreto, una destinazione legata e riservata alla esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché si trattasse di attività professionale; in questo senso, la norma incriminatrice in esame è stata ad esempio ritenuta applicabile rispetto a un furto avvenuto in una farmacia ai danni di un dipendente (Cass. pen., Sez. IV, 25 giugno 2009, n. 37908, Apprezzo); a un furto commesso in un bar introducendosi nei locali retrostanti riservati al personale (Cass. pen., Sez. V, 2 luglio 2010, n. 30957, Cirlincione); alla sottrazione di un portadocumenti contenente denaro da un cassetto all’interno di uno studio odontoiatrico (Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2011, n. 10187, Gelasio).

D’altra parte, le pronunce che hanno escluso l’applicabilità dell’art. 624-bis c.p. in simili casi hanno invece fatto leva sulla pubblica accessibilità dell’esercizio commerciale (così nel caso di un panificio, in ragione dell’assenza nel locale di zone riservati ai dipendenti e interdette al pubblico, in Cass. pen., Sez. V, 22 dicembre 2015, n. 13088, Susic; di un negozio negli orari di apertura, in un caso in cui il furto era peraltro avvenuto ai danni di un cliente, in Cass. pen., Sez. VI, 8 maggio 2012, n. 18200, Padolecchia; di una chiesa), oppure sull’impossibilità per il titolare di vantare un vero e proprio diritto alla riservatezza rispetto allo stesso (così rispetto a un ufficio postale – in materia di rapina aggravata ex art. 628 comma 3, n. 3-bis c.p. – in Cass. pen., Sez. II, 21 aprile 2016, n. 20200, Ademaj; o a una banca, in Cass. pen., Sez. II, 5 aprile 2012, n. 28045, Foglia).

 

10. Le Sezioni Unite accolgono ora espressamente questo secondo orientamento più restrittivo.

Nel fare ciò, esse giustamente scelgono di non dar credito a quegli orientamenti che, nel tentativo di evitare un’eccessiva dilatazione del campo di applicazione della fattispecie incriminatrice del furto in abitazione, volevano ancorarne la punibilità a elementi tuttavia estranei alla figura di reato, quali l’orario in cui il furto era stato consumato.

La stessa questione di diritto posta dal giudice rimettente, in effetti, problematizzava espressamente il fatto che, in tema di art. 624-bis c.p., parte della giurisprudenza avesse riscontrato nell’essere il furto avvenuto in orario di chiusura al pubblico della sede lavorativa un ostacolo alla possibilità di qualificare la stessa quale privata dimora, richiedendo in simili casi la prova della concreta configurabilità all’interno del luogo di persone intente allo svolgimento della propria vita privata.

 

11. Per comprendere le ragioni di questa linea interpretativa, può essere utile partire da un’analisi teleologica della norma in esame.

Come già osservato in passato dalla stessa Suprema Corte, ratio della previsione di cui all’art. 624-bis c.p. “è quella della tutela della sicurezza fisica della vittima che si trovi all'interno di luoghi nei quali essa soggiorni, sia pure per breve tempo, per attività privata” (così Cass. pen., Sez. IV, 13 novembre 2014, n. 51749, Iorio, §2.2). Alla base della figura coniata nel 2001 (ma anche della precedente aggravante prevista dal vecchio art. 625 n. 1 c.p.) sta infatti un’esigenza di tutelare la c.d. sicurezza domestica della persona offesa: nello specifico, il maggior disvalore della fattispecie dipende proprio dalle evidenti ripercussioni ultrapatrimoniali di questo tipo di furto, che si caratterizza tanto per una maggiore gravità dell’offesa (tale da suscitare “un senso di frustrazione e di insicurezza di rilievo ben superiore allo stretto danno economico” [8]), quanto per una più elevata pericolosità dell’agente, il quale non arretra di fronte alla possibilità di ritrovarsi davanti alla vittima.

La più elevata pena comminata dall’art. 624-bis c.p. (in specie, si passa dalla reclusione da sei mesi a tre anni prevista per il furto semplice alla pena della reclusione da uno a sei anni: un aggravamento assai rilevante, ora non più suscettibile di giudizio di bilanciamento), pertanto, si giustifica in relazione all’esigenza di reprimere fatti di furto che destano maggiore allarme sociale, configurandosi come di per sé pericolosi non solo per il patrimonio, ma anche per la persona, ossia per l’integrità fisica e psichica dell’individuo; non è un caso, del resto, che il furto in abitazione sia stato accostato al c.d. furto con strappo, in cui il pericolo per la persona creato dal fatto di furto è certamente più evidente.

 

12. Un tale pericolo per la persona, però, andrebbe escluso in radice nel caso in cui il furto avvenga in un esercizio o stabilimento commerciale in orario di chiusura al pubblico, ossia in un momento in cui, per definizione, nessun soggetto intento ad attività di vita privata – integrata in tali casi dallo svolgimento dell’attività lavorativa – può trovarsi sul luogo del delitto.

Questa considerazione è, plausibilmente, quella che ha spinto parte della giurisprudenza a elaborare una diversa soluzione interpretativa della norma incriminatrice, limitando l’applicabilità della fattispecie in questione ai soli casi in cui sia stata accertata in giudizio la presenza al momento della commissione del reato di qualcuno intento al compimento di atti di vita privata all’interno dell’esercizio, richiedendo ora una presenza effettiva di persone (come Cass. pen., Sez. V, 21 dicembre 2015. N. 10440, Fernandez, cit.), ora la concreta possibilità che parte del personale si intrattenesse nel luogo in orario di chiusura (così Cass. pen., Sez. IV, 26 gennaio 2016, n. 12256, Cirulli, cit.).

 

13. Tale soluzione, tuttavia, desta diverse perplessità, non solo in ragione dell’estrema vaghezza degli elementi cui pur si vorrebbe ancorare la punibilità per il delitto in questione, ma anche in relazione al fatto che a un simile accertamento sul piano oggettivo non potrebbe non corrispondere, in virtù del fondamentale principio di colpevolezza, una parallela valorizzazione sul piano dell’elemento soggettivo, in termini cioè di consapevolezza in capo all’agente della presenza (effettiva o potenziale) di persone sul luogo del delitto[9].

 

14. Piuttosto che una frammentazione della tutela sulla base di criteri poco certi (le stesse Sezioni Unite parlano di “tutela a intermittenza”), perciò, appare ben più coerente con la funzione attribuita al domicilio penalmente tutelato – che deve porsi, come già si è ricordato, in stabile rapporto con l’individuo che ivi svolge la propria personalità – l’adozione di un’interpretazione della norma incriminatrice costituzionalmente orientata e restrittiva, come per l’appunto avviene a opera della sentenza in commento.

In questo modo, peraltro, si evita in radice il rischio – già denunciato in dottrina – che un’interpretazione lata della nozione di privata dimora comporti in realtà un pericoloso scivolamento verso il terreno dell’analogia in malam partem, che come ben si sa costituisce limite invalicabile per il giudice penale[10].

Ciò comunque non esclude, come chiariscono le stesse Sezioni Unite, che in alcuni casi il giudice di merito possa essere chiamato ad accertare se uno specifico luogo, che costituisca esercizio commerciale o altro luogo di lavoro, rappresenti in concreto privata dimora per un determinato individuo; si pensi, ad esempio, alla parte retrostante un bar o ristorante, cui non è ammesso l’accesso del pubblico e in cui i dipendenti depositano i propri oggetti personali; o ancora all’esempio – piuttosto pittoresco – della taverna/abitazione, in cui la famiglia dell’oste comunemente si trattenga per svolgere le proprie occupazioni.

Ebbene, in tali ipotesi la pronuncia delle Sezioni Unite non preclude affatto che, sulla base di specifiche caratteristiche del caso concreto, detti luoghi (seppur in tutto o in parte aperti al pubblico) possano essere ricondotti all’interno della nozione di privata dimora. Il che appare un esito pienamente ragionevole, considerando che la nozione di privata dimora (specie se interpretata secondo gli ampli parametri costituzionali) è un concetto di per sé relativo, in quanto contrassegna – come sostenuto anche dalle Sezioni Unite Prisco – un peculiare rapporto tra persona e luogo, a prescindere dall’inclusione entro schemi generali (si pensi, a tal riguardo, alla giurisprudenza di legittimità che ha riconosciuto che anche l’autovettura va ritenuta privata dimora se vi è prova della sua destinazione ad uso abitativo[11]).

 

15. Da ultimo, alcune brevissime considerazioni di ordine sistematico.

È evidente che l’intento delle Sezioni Unite, nella pronuncia in esame, sia stato quello di gettare le basi per un’applicazione unitaria e coerente della nozione di privata dimora all’interno dell’intero sistema penale. La sentenza, nondimeno, non può che rimanere vincolata alla specifica quaestio iuris oggetto della richiesta del remittente: e non sfugge che, in molti passaggi, la Suprema Corte abbia apertamente fatto leva sulle specificità del delitto di cui all’art. 624-bis c.p., senza mai spingersi a considerare le diverse norme, pur evocate, che a loro volta richiamano il medesimo concetto.

Starà ai giudicanti, dunque, garantire l’esigenza di unità e la coerenza intrinseca dell’ordinamento penale anche al di fuori delle fattispecie di furto; tenendo però al contempo in adeguata considerazione i differenti interessi che le discipline in materia di violazione di domicilio, interferenze illecite o intercettazioni ambientali mirano a tutelare, e il diverso ruolo che all’interno di esse può rivestire il concetto in esame[12].

 


[1] Cfr. rispettivamente: Cass. pen., Sez. II, 26 maggio 2015, n. 24763, Mori; Cass. pen., Sez. V, 24 novembre 2015, n.6210, Tedde; Cass. pen., Sez. V, 1 ottobre 2014, n. 2768, Baldassin; Cass. pen., Sez. V, 17 dicembre 2014, n. 7293, Lattanzio; Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2011, n. 10187, Gelasio; Cass. pen., Sez. IV, 25 giugno 2009, n. 37908, Apprezzo.

[2] Così ad es. Cass. pen., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11490, Pignalosa.

[3] In questo senso, cfr. Cass. pen., Sez. V, 17 novembre 2015, n. 10747, Casalanguida; Cass. pen., Sez. V, 10 marzo 2015, n. 18211, Hadovic; Cass. pen., Sez. V, 20 ottobre 2016, n. 55040, Rover; Cass. pen., Sez. IV, 26 gennaio 2016, n. 12256, Cirulli; Cass. pen., Sez. V, 21 dicembre 2015. N. 10440, Fernandez.

[4] Come già affermato da Cass. pen., Sez. V, 30 giugno 2015, n. 428, Feroleto.

[5] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco, § 8.

[6] Cfr. G. L. Gatta, Delitti contro l'inviolabilità del domicilio, in F. Viganò (a cura di), Reati contro la persona, II ed., Torino, Giappichelli, 2015, p. 318 ss.

[7] In cui si escludeva il reato di interferenze illecite nella vita privata, riconoscendo invece integrata la fattispecie di violenza privata (art. 610 c.p.): cfr. il commento critico di F. Torlasco, Telecamera nascosta nello spogliatoio di una piscina: una discutibile sentenza della S.C. in tema di violenza privata, in questa Rivista, 5 luglio 2016.

[8] F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale II: Delitti contro il patrimonio, V ed., Padova, 2014, p. 87.

[9] Con il rischio, pertanto, di non poter comunque punire la maggior parte delle ipotesi di questo genere ai sensi dell’art. 624-bis c.p., essendo evidente che l’assenza di persone all’interno dell’esercizio commerciale è, nella maggior parte dei casi, il motivo che spinge l’autore a commettere il furto nell’orario di chiusura.

[10] In questo senso, cfr. ad esempio T. Quero, Gli esercizi commerciali quali luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p.: interpretazione estensiva o analogia in malam partem?, in Giur. mer., n. 2/2010, p. 484 ss.

[11] Cfr. ad es. Cass. pen., Sez. V, 22 aprile 2014, n. 45512, Toma.

[12] Si può ad esempio rimandare, in merito a tale profilo, alle osservazioni svolte da F. Torlasco, Telecamera nascosta nello spogliatoio di una piscina, cit., in relazione al caso delle telecamere nascoste all’interno di un bagno pubblico: un’ipotesi che sembra infatti rendere evidente, anche alla luce dell’inadeguatezza del delitto di violenza privata a reprimere casi simili, che il reato di interferenze illecite nella vita privata sembrerebbe prestarsi maggiormente a un’interpretazione estensiva della nozione di privata dimora (introdottavi mediante il richiamo ai “luoghi di cui all’art. 614 c.p.”).