ISSN 2039-1676


08 marzo 2019 |

R.E. Kostoris, Processo penale e paradigmi europei, Giappichelli, Torino 2018, pp. 1-256

Recensione – Alla ricerca di una nuova generazione di giuristi

 

1. Il volume di Roberto E. Kostoris Processo penale e paradigmi europei, nella ricchezza degli spunti offerti, si presta a diversi piani di lettura, cosa che – si può a buon diritto sostenere – lo rende particolarmente prezioso.

In primo luogo, esso raccoglie, rivisti e rimeditati alla luce di uno studio della materia sviluppatosi per oltre due lustri, diversi scritti pubblicati dall’Autore nel corso degli ultimi anni, tutti dedicati all’ambito della procedura penale europea. Tema, questo, di frontiera e di rottura per ogni penalista che vi ci sia cimentato (e proprio per tale ragione di particolare fascino). Ripercorrendo gli scritti che l’Autore ci propone, si ha modo di vedere come, passo dopo passo, la materia del processo penale abbia mutato volto, acquisendo una morfologia (e, direi, una natura) ben diversa da quella mostrata sino a poco tempo fa.

Ne muta, innanzi tutto, il quadro di riferimento, costituito non più solo, e forse addirittura non tanto, dalle previsioni normative nazionali ma dall’insieme dei principi e delle fonti sovranazionali, tutte improntate a un metodo di lavoro assai lontano da ciò che è proprio della nostra tradizione. Così il ragionare in chiave ermeneutica sul singolo lemma, tipico del giurista continentale, teso a sviscerare da ciascuna parola del diritto scritto ogni potenziale significato, cede il passo progressivamente a una argomentazione per principi e per problemi da risolvere. Detto altrimenti, dove prima regnavano regole astratte ed ermeneutica prevalentemente testuale, ora dominano, in ambiti sempre più vasti, casi e principi, problemi ed empirismo: talora congiunti ad obiettivi che l’interprete sembra chiamato a perseguire, spogliandosi del ruolo tecnico del quale, da oltre due secoli, era stato rivestito. Emblematico, a tal proposito, è il caso della revisione del giudicato iniquo, introdotta a seguito della sentenza n. 113 del 2011 della Corte costituzionale. In quella occasione, come noto, la Corte osservò, tra le altre cose, che, nel riaprire il processo con la revisione della condanna dichiarata iniqua dalla Corte europea dei diritti dell’uomo “il giudice dovrà procedere a un vaglio di compatibilità delle singole disposizioni relative al giudizio di revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato), prime fra tutte – per quanto si è osservato – quelle che riflettono la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato”.

Emergono chiare in queste parole i caratteri del nuovo volto assunto dal processo penale attraverso l’influsso delle fonti europee: il giudice non può più limitarsi a individuare il significato delle disposizioni vigenti, sia pure rimodellate da una declaratoria di illegittimità costituzionale; al contrario, esso deve porsi nell’ottica di ricostruire un sistema – nel caso di specie, quello del giudizio di revisione – perseguendo l’obiettivo indicato dalla fonte europea (fonte che è anche la causa per cui la normativa interna è stata posta nel nulla attraverso il giudizio di costituzionalità): obiettivo consistente nel porre il soggetto leso (“l’interessato”) nella posizione pristina in cui si sarebbe dovuto trovare, se non si fosse interposta l’iniquità (il comportamento in violazione della CEDU) occorsa durante la procedura nazionale.

Non per nulla l’Autore, nel commentare la sentenza, definisce l’operazione condotta dalla Corte costituzionale come una “addizione di principio” (Gialuz in Cass. pen., 2011, aveva evocato il concetto di addizione “di istituto”), che “affida ai giudici l’arduo compito di sostituirsi di fatto al legislatore”. In sostanza, comunque si voglia definire il fenomeno, si riconosce che l’effetto cagionato dalla sentenza n. 113 del 2011 è quello di affidarsi in toto al giudice, affinché provveda secondo ragionevolezza, di volta in volta ritagliando la revisione sul rimedio che è chiamato a predisporre alla luce della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Un tema, quello del giudice tessitore (citando Vittorio Manes e Massimo Vogliotti), che viene sviluppato in altri passaggi del volume, ove si commenta il noto caso Taricco, che è parso a molti portare al livello di massima tensione il rapporto tra il diritto interno e sovranazionale in ambito penale. Di nuovo si torna a esaminare, in chiave critica, il tema costituito dai giudici “di scopo” (in una accezione critica, evocata da Massimo Donini in questa rivista, 2018 come “giurisdizione di lotta”): scopo, in questo caso, rappresentato dalla punizione efficace proporzionata e dissuasiva di comportamenti illeciti che affliggano gli interessi finanziari della Unione europea. Da qui il passo è breve per riflettere su due diverse concezioni del principio di legalità: l’una, quella appartenete alla nostra tradizione nazionale, tutta incentrata sulla fonte legislativa (“legalità normativa”); l’altra, quella europea, chiaramente improntata al metodo casistico e giurisprudenziale (“legalità giudiziale”). Lucida l’analisi, secondo la quale al centro della contrapposizione che, nel noto caso, ha visto “dialogare” la nostra Corte costituzionale con la Corte di giustizia dell’Unione europea, si ponga la tenuta del principio della sottoposizione del giudice solo alla legge: principio – citando l’Autore – “indubbiamente mitizzato”, ma, nondimeno, rappresentativo di “un modello in cui buona parte della nostra cultura giuridica continua ancora a riconoscersi profondamente” (sebbene da diversi decenni, già prima che esplodesse il fenomeno del diritto sovranazionale, se ne fosse messo in luce il superamento).

Giustamente, sulla scia di alcuni acuti precursori, come Paolo Grossi o Gustavo Zagrebelsky, l’Autore pone in evidenza come l’irrompere delle fonti sovranazionali riporti in vita, sia pur con sembianze diverse, “una diversa concezione del diritto, che affonda le sue radici nella antichità classica e altomedievale, nella quale il diritto costituisce “un sapere sempre applicativo orientato ai valori”. Non più dunque epistème, quanto piuttosto phronesis, non tanto scientia, quanto invece prudentia. Un diritto, in estrema sintesi, connotato da una forte impronta fattuale. E un ruolo del giurista non più degradato – parafrasando un noto saggio – “da legislatore ad interprete”, bensì eretto ormai a fonte del diritto (nella forma del precedente giurisprudenziale e della ratio estrapolabile dal caso deciso).

Non si può che condividere l’affermazione, rinvenibile nelle pagine finali del volume, per cui se il primo grande turning point istituzionale del nostro tempo – in ambito giuridico – è stato l’avvento delle Costituzioni del secondo dopoguerra, il secondo consista nell’affermazione sempre più pervasiva del diritto europeo, anche nel campo della giustizia penale. Un cambiamento talmente rilevante da richiedere ancora lungo tempo prima di essere adeguatamente metabolizzato, a causa del cambio di paradigma, che, efficacemente si afferma, “può apparire quasi antropologico”, capace di aprire prospettive in relazione alle quali “la nostra cultura non è ancora sufficientemente preparata”.

 

2. Il secondo piano di lettura cui il volume si presta è quello del percorso personale, a sua volta scomponibile in due rami: quello attraversato dall’Autore stesso, e quello che ciascuno di noi è chiamato a compiere, quando il mondo pare sovvertirsi.

In relazione al primo aspetto, il cammino condotto da Roberto E. Kostoris appare, ad ogni capitolo, più netto. Se nei primi scritti si avverte lo studioso di diritto nazionale che si cimenta nel confronto con il diritto europeo, entrandone in progressiva confidenza, vedendone – questo anche successivamente, in verità – i limiti e i pericoli, progressivamente al lettore è data l’impressione che l’approccio dell’Autore sia sensibilmente mutato. All’esperto processualista di formazione tradizionale si è progressivamente affiancato il giurista europeo, che ha accettato la sfida rappresentata dal cambio di paradigma. Il tema di tenere in armonia la tradizione nazionale con il nuovo metodo imposto dal sistema europeo è sempre presente. Tuttavia la questione non è più soltanto tecnica: non a caso, si giunge ad evocare “la prospettiva di una nuova classe di giuristi che si riconosca in una nuova cultura della ragionevolezza e in un’etica del limite, che non può essere disgiunta dai maggiori poteri creativi che la postmodernità giuridica assegna all’interprete”. La nuova realtà – appare evidente – è introiettata dall’Autore, che si pone nell’ottica di costruire un ponte culturale tra il vecchio e il nuovo metodo (vale la pena ricordarlo: i due manuali di Kostoris sulla procedura penale europea, nella versione italiana e in quella inglese di recente pubblicazione, costituiscono proprio lo strumento concepito per favorire un dialogo proficuo tra il “moderno” e il “postmoderno”). Rimane tuttavia la consapevolezza che sia necessario formare una nuova generazione di giuristi, cui affidare il compito di portare a termine il cambiamento cui abbiamo assistito, negli ultimi tre decenni. È questa, in fondo, la legacy che si affida al lettore, alla fine del volume.

In sostanza, il messaggio che il libro trasmette è, da un lato, che il diritto penale europeo appare ancora un edificio incompleto, con non poche zone oscure. Quanto alla incompletezza, si può certo pensare alla istituzione, ormai prossima, della Procura europea, cui non si affianca tuttavia una giurisdizione di pari livello sovranazionale (il dato è puntualmente messo in evidenza dall’Autore nell’esaminare il progetto dell’EPPO). Quanto alle zone d’ombra, deve essere menzionato uno sviluppo ancora insoddisfacente di standard uniformi dei diritti individuali (e, ancor più grave, la mancanza assoluta di standard processuali, come in fondo il Regolamento EPPO lascia emergere): aspetto, questo, capace di produrre o di rafforzare, se non sarà affrontato a fondo, forti pulsioni disgregatrici. Tuttavia, non vi è altra strada se non quella di completare l’opera: missione per la quale occorre intervengano figure nuove di giuristi.

 

3. Questa ultima riflessione coinvolge, alla fine, ciascun lettore, inducendolo a interrogarsi sui cambiamenti in atto, e sull’atteggiamento da assumere di fronte ad essi.

Non v’è dubbio che altre sfide, non semplici da affrontare, si pongano all’orizzonte nell’edificazione del diritto penale europeo. Tre mi paiono quelle più rilevanti (e forse anche più affascinanti). La prima concerne la fusione, inevitabile e già ampiamente avviata, tra sistema CEDU e sistema UE. Nell’ottica dello studioso sovranazionale (si pensi al manuale di André Klip, European Criminal Law) è un punto di partenza che i due ordinamenti costituiscano un unico sistema integrato, nel quale ha poco senso – o comunque è sempre meno rilevante – ricostruire l’origine della singola fonte normativa: per essere più chiari, posto che ancora, nella prospettiva nazionale, non è la stessa cosa se una disposizione sia di origine CEDU o UE, dal lato opposto, in una approccio integrato tipico del giurista sovranazionale, questa distinzione tra i due motori del sistema appare sempre meno utile.

Prendiamo un caso di scuola, nella sua banalità, per chiarire meglio il punto. Se ci si pone, da una prospettiva sovranazionale e multilivello, il quesito relativo a quale sia la disciplina del diritto, nel processo penale, all’interprete e alla traduzione degli atti, il quadro emergente conferma l’asserzione di partenza (CEDU e UE sono fuse in un unicum, e l’analisi volta a trovare la linea di confine tra l’una e l’altra è alla fine abbastanza inutile). Certo, dopo l’adozione della direttiva 64/2010/UE, la fonte primaria appare quella dell’Unione, che a sua volta si porta dietro il metodo comunitario e l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali. Dunque, dando preminenza allo ius positum, si potrebbe giungere ad affermare che ormai il predominio appartenga al diritto eurounitario. Tuttavia, se, al di là del dato formale, si desideri capire quale sia il contenuto del diritto in questione, non può che farsi riferimento ai casi sviluppati dalla giurisprudenza CEDU, e alle rationes che se ne possono trarre. Del resto, quel livello di tutela del diritto fondamentale, sviluppato dalla Corte di Strasburgo, finisce per costituire il livello minimo sotto il quale non è possibile scendere secondo quanto imposto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La ricerca identitaria, dunque, conduce alla conclusione opposta rispetto a quella formale, portando a propendere per una preminenza del diritto convenzionale su quello eurounitario.

In realtà, la conclusione più ragionevole – e quella applicata dagli studiosi più attenti – è considerare il sistema come unico e integrato. Si può pensare che, col tempo, si possa tornare a distinguere formalmente ciò che sia di provenienza UE da ciò che invece permanga in ambito puramente convenzionale. Questo forse sarà possibile quando la Corte di giustizia sarà riuscita a sviluppare una giurisprudenza autonoma e corposa in materia processuale penale, partendo proprio dalle diverse direttive che, dal varo del Programma di Stoccolma, sono state adottate in riferimento alla tutela dei diritti individuali nel procedimento penale. Tuttavia, è assai probabile che l’approccio integrato si mantenga stabile ancora per molto tempo, considerato che l’intreccio tra UE e protezione dei diritti fondamentali, come riconosciuti dalla CEDU, sia, sin dall’origine, alla base della costituzione sostanziale della UE (e trovi menzione esplicita non solo nella Carta, ma altresì nel Trattato di Maastricht sin dalla versione del 1992).

Il secondo elemento di estremo interesse appare legato alla armonizzazione realizzata per via orizzontale, attraverso la strada dei limiti alla cooperazione giudiziaria. I sistemi penali interni, ad onta di quanto appena in precedenza osservato, rimangono sul piano formale a prevalente base nazionale; tuttavia, le fonti europee favoriscono una cooperazione sempre più stretta, sotto l’egida della reciproca fiducia e del mutuo riconoscimento. Nondimeno, vi sono dei limiti all’operatività di un modello basato sul riconoscimento automatico (e reciproco), tendenzialmente ricavati dai principi estrapolati dalle tradizioni comuni (il rispetto dei diritti umani, la proporzionalità, il metodo democratico e la separazione dei poteri). Tali limiti trovano attuazione attraverso le decisioni degli organi giurisdizionali degli Stati, che possono rifiutare la cooperazione: in tale maniera, gli ordinamenti vengono indotti a uniformarsi in concreto, caso dopo caso (pena il diniego della collaborazione da parte delle altre giurisdizioni nazionali). Quanto una forma di integrazione del genere, dal basso, in gran parte priva di una governance unitaria (problema di grande rilievo del nostro tempo, come insegnano studiosi quali Yascha Mounk e Daniel Innenarity), nonché così lontana dai paradigmi del passato, sia in grado di svilupparsi (o sia invece destinata a fallire clamorosamente) è questione sulla quale ogni previsione appare difficile.

Così come, da ultimo, e questo è il terzo elemento critico, rimane incerto il quesito legato alla espansione dell’area della “materia penale” intrapresa dalla CEDU da circa quattro decenni, e recepita dal diritto UE senza varianti significative: se tale fenomeno, detto altrimenti, sia in grado di elevare il livello delle garanzie in aree che per tradizione ne erano prive, o conduca piuttosto, nel tempo, a un diritto punitivo prevalentemente amministrativo, talora di marca preventiva, ove il segno della giurisdizione, che è simbolo proprio di ogni sistema penale, appaia sempre più sbiadito. Un punto critico legato a questo fenomeno è rappresentato dalla facile confusione, che a livello europeo è dato riscontrare di frequente, da un lato, tra autorità amministrativa e autorità giudiziaria; dall’altro, tra accusatore e giudice, all’interno del procedimento penale. Quanto al primo aspetto, si pensi alla direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, che consente l’adozione dell’omonimo provvedimento sia da parte di un magistrato quanto di una istituzione amministrativa deputata ad applicare il diritto pubblico punitivo (imposte, sanzioni stradali, ecc.). In merito invece alla confusione di ruoli tra pubblico ministero e organo giurisdizionale, è facile evocare la già richiamata figura del Pubblico ministero europeo. In tal senso, va rimarcato come, sin dal suo concepimento oltre vent’anni fa, l’emblema del massimo sviluppo istituzionale europeo in ambito penale sia stato legato alla creazione di un magistrato d’accusa, quando ancora non appare all’orizzonte il varo di un vero e proprio giudice sovranazionale. Del resto, il diritto vivente mostra anch’esso di trascurare la distinzione tra i diversi ruoli giocati dai protagonisti del procedimento penale: lo si nota nelle pronunce in cui una Corte è chiamata a intervenire per apprestare una più efficace tutela in materia di diritti fondamentali. Ad esempio, se si osservano le recenti sentenze della Corte di giustizia in materia di dati personali (Digital Rights; Tele 2 e Watson, Ministerio fiscal), ove il controllo sui limiti all’intrusione nella sfera individuale si afferma possa essere affidato, indifferentemente, a una “autorità indipendente”, senza distinguere se essa debba consistere in un giudice, un pubblico ministero o una istituzione amministrativa. Certo, in quei casi le decisioni della Corte avevano uno sguardo esteso oltre i soli confini del procedimento penale, e dunque qualche ambiguità sull’organo cui attribuire il potere di interferire con il diritto fondamentale in questione è comprensibile (e il tenore testuale della carta sul punto non aiuta a chiarire i dubbi). Tuttavia, ambiguità non lontane da quella menzionata si sono riscontrate, in passato (anche se ormai superate) nel concetto di autorità indipendente “dotata di funzioni giudiziarie” in materia di libertà personale.

Il volume di Roberto E. Kostoris ci fa rivivere in definitiva i cambiamenti cui abbiamo assistito, negli ultimi quattro lustri, nella materia del processo penale. Al tempo stesso, nel tratteggiare il sistema giuridico postmoderno che va affermandosi anche nell’area penale evoca gli scenari che già sembrano profilarsi nel prossimo futuro. Si tratta, come è evidente, di cambiamenti estremamente rilevanti, che mettono in gioco alcuni pilastri sui quali si è fondata l’evoluzione del diritto penale continentale. Nel fare ciò, indica la strada da intraprendere, sin d’ora: dedicarsi a formare giuristi con un metodo nuovo, in cui la capacità di scelta, il ragionare empirico e casistico, l’uso ampi spazi discrezionali destinati ad allargarsi sia frutto di una opzione consapevole, responsabile e coerente quanto al metodo seguito. Cercando di mantenere, per quanto possibile, i principi non negoziabili del sistema.

Leggendo il volume, si è sospinti a ricordare il monito del Principe di Salina nel Gattopardo. L’ottica tuttavia, è rovesciata rispetto al cinismo tradizionalmente attribuito a quella frase dai commentatori (fare soltanto finta di cambiare per mantenere tutto com’è): che si possa, in un determinato contesto sociale, cambiare molto, anche tutto, sul piano delle strutture formali, a condizione di non perdere il nucleo identitario nel quale ci riconosciamo (rispetto della dignità umana, proporzionalità nel metodo, prevedibilità e decifrabilità del sistema, accountability per le decisioni assunte).

Viene meno, in sostanza, l’impalcatura formale del diritto penale moderno, e, nel postmoderno, si riscoprono strumenti del mondo a ben vedere premoderno, tutti incentrati sul ruolo giocato dall’essere umano. Non a caso alcuni studiosi, come Mireille Delmàs-Marty (Sortir du pot au noir. L’humanisme juridique comme bussole, di prossima pubblicazione, marzo 2019), richiamano la necessità di un nuovo umanesimo giuridico, ricordando quello che partì quasi mille anni fa con la nascita delle Università in Occidente. Non basterà, tutto ciò, a tamponare le perdite. Senza un apparato istituzionale all’altezza, e regole adeguate, il rischio di una regressione delle garanzie individuali è davvero forte. Ma, sembra dirci l’Autore, non v’è altro modo di governare un simile rivolgimento se non affrontandolo, contaminandosi, cercando di incanalarlo nei giusti binari. È dunque solo intraprendendo il viaggio che vi sarà modo di “non cambiare nulla”, cioè più che altro di mantenere ciò che, del mondo in cui eravamo cresciuti, e che non c’è più, anche se ancora ne vediamo i riflessi, costituiva l’essenziale identitario. Guardando a un mito archetipico, il modello è quello dell’esodo biblico, anche se la terra promessa non sembra certo profilarsi all’orizzonte; siamo, al contrario, lontani dai nostoi omerici, i cui protagonisti, del resto, in quegli stessi racconti, difficilmente al ritorno riescono a ritrovare quello che in fondo non è mai stato un paradiso perduto.