ISSN 2039-1676


20 maggio 2019 |

I matrimoni forzati presto previsti come reato anche in Italia?

Qualche approfondimento sul fenomeno ed un primo commento alla norma volta a contrastarlo, contenuta nel Disegno di Legge “Codice Rosso”

Per leggere il testo del disegno di legge, clicca qui.

 

1. È attualmente in discussione al Senato il D.d.l. n. S. 1200, approvato dalla Camera lo scorso 3 aprile e recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. Tra le importanti novità che il testo intende introdurre nel nostro sistema penale, vi è la nuova fattispecie di “costrizione o induzione al matrimonio”, che mira a tutelare le vittime dei cosiddetti matrimoni forzati. Si tratta di una piaga che affligge in modo particolare alcune regioni del mondo “in via di sviluppo – specialmente Africa e Asia[1] –, ma è riscontrabile sempre più spesso anche nelle odierne società multiculturali e multietniche, sia in Europa, sia oltreoceano. Qui le vittime sono principalmente, anche se non esclusivamente[2], giovani donne provenienti da comunità e famiglie immigrate, spesso di seconda generazione, di varia origine. Prima di soffermarsi sulla nuova disposizione conviene inquadrare e descrivere brevemente il fenomeno che essa intende reprimere e che ancora non sembra esser stato portato adeguatamente all’attenzione della pubblica opinione, sollecitata soltanto da eclatanti casi di cronaca[3].

 

2. Con l’espressione “matrimonio forzato” (dall’inglese forced marriage) si definisce un matrimonio rispetto al quale il consenso manifestato da almeno una delle due parti non era in realtà libero e pieno ed è stato estorto tramite violenze, minacce o altre forme di coercizione[4]. Con il termine “matrimonio”, d’altra parte, ci si deve riferire a qualsiasi unione, o anche solo convivenza more uxorio, che sia considerata tale nella comunità di riferimento, e non soltanto al matrimonio avente effetti civili in uno specifico ordinamento.

 

2.1. Il matrimonio forzato si distingue dai matrimoni combinati, nei quali, nonostante le famiglie dei nubendi assumano un ruolo decisivo nell’organizzazione e finanche nella scelta del partner, la decisione finale spetta comunque ai due sposi, che restano liberi di esprimere o meno il proprio consenso. Il confine tra le due forme, però, può risultare talvolta molto sottile, dal momento che le possibili modalità di coercizione di un matrimonio forzato si concretizzano in una vasta gamma di minacce e violenze, non soltanto fisiche, bensì nella maggior parte dei casi psicologiche. E queste ultime sono costituite spesso da pressioni molto sottili, fondate per esempio sull’autorità genitoriale, su ricatti economici o affettivi, o sulla colpevolizzazione della vittima, in un continuum di azioni che, di fatto, le impedisce anche solo di concepire un’alternativa rispetto a quella di accettare il matrimonio.  

 

2.2. Un fenomeno strettamente collegato ai matrimoni forzati è quello dei cosiddetti matrimoni precoci (o infantili, dall’inglese early/child marriages), come sono definite, nei documenti internazionali, tutte le unioni che coinvolgono un minore di anni 18. Essi sono talvolta considerati di per sé (ed a prescindere dalla presenza di una coercizione) come una forma di matrimonio forzato, sul presupposto che al di sotto dei 18 anni la maturità sia inesistente e dunque il consenso del minore debba presumersi invalido[5]. Tuttavia, questa affermazione deve trovare un contemperamento nel necessario coordinamento con le legislazioni nazionali che disciplinano la capacità matrimoniale: un aspetto da tenere presente in sede di incriminazione del fenomeno.

 

2.3. È assai complesso tracciare una precisa mappatura della diffusione dei matrimoni forzati in Italia e in Europa, per l’esiguo numero di ricerche empiriche e statistiche disponibili e per la difficoltà di far emergere il fenomeno ed ottenere dati certi e pienamente rappresentativi. In assenza di studi condotti in Italia su scala nazionale[6], è necessario basarsi su quelli di altri Paesi europei, sebbene anch’essi riportino solo la punta dell’iceberg (costituita dai casi denunciati alla polizia o ad associazioni a tutela delle vittime). Nel Regno Unito, la Forced Marriage Unit (un ente governativo appositamente creato nel 2005 per monitorare il problema e prestare assistenza alle vittime) tratta ogni anno tra le 1.200 e le 1.400 situazioni di matrimonio forzato[7], anche se il numero effettivo di episodi è probabilmente più alto[8]. In Germania, invece, uno studio relativo al 2008 aveva rilevato 3.443 casi[9]. Di fronte a tale quadro, è auspicabile l’avvio di una raccolta sistematica di informazioni sul fenomeno, anche nel nostro Paese, come richiesto dalla stessa Convenzione di Istanbul (articolo 11).

 

2.4. Le caratteristiche principali dei matrimoni forzati, che emergono dalle indagini prima ricordate, sono:

a) le modalità coercitive con cui il consenso ad un matrimonio viene estorto: se a volte sfociano in violenza fisica, esse rimangono spesso entro i confini di violenze e pressioni psicologiche, economiche, emotive ed affettive, ricomprendendo anche fatti di per sé leciti (come il controllo del comportamento, dei movimenti, delle comunicazioni e delle frequentazioni della persona; i ricatti economici quali l’interruzione di aiuti e sostentamenti familiari o la confisca di denaro personale; l’interruzione degli studi e il ritiro dalle scuole; i ricatti “affettivi” basati sulla colpevolizzazione o sull’ostracismo sociale);

b) la dimensione prevalentemente familiare della coercizione matrimoniale, che viene esercitata quasi sempre da parte di genitori e parenti della vittima, generando quello che la letteratura francofona definisce “conflit de loyauté” (“conflitto di lealtà”): un sentimento di lealtà verso la propria famiglia, conflittuale con i suoi stessi interessi, in cui la persona si sente imbrigliata, non riuscendo ad intraprendere azioni di “autotutela” per il timore di cagionarle problemi. Questo, evidentemente, riduce molto la propensione alla denuncia in casi di matrimonio forzato;

c) la transnazionalità del fenomeno dei matrimoni forzati, la maggior parte dei quali ha luogo, o dovrebbe aver luogo, all’estero, a seguito del trasferimento o del trattenimento della vittima nel suo Paese d’origine (ivi condotta sotto costrizione, o semplicemente con la scusa di una vacanza o di fare visita ai familiari). Questo aspetto, denunciato anche da alcuni istituti scolastici italiani[10], rende difficile la repressione dei matrimoni forzati attraverso la normativa vigente, anche in virtù del principio di territorialità del diritto penale.

 

3. Nella normativa sovranazionale, l’obbligo di sanzionare penalmente i matrimoni forzati è sancito dalla Convenzione di Istanbul[11], il cui art. 37 impone agli Stati firmatari di assicurare la repressione penale delle condotte consistenti nel “costringere un adulto o un minore a contrarre un matrimonio” e nell’“attirare un adulto o un minore nel territorio di uno Stato estero, diverso da quello in cui risiede, con lo scopo di costringerlo a contrarre un matrimonio”.

 

3.1. In Italia, diversamente da molti altri Paesi europei[12], non era ancora stata introdotta alcuna disposizione ad hoc per queste condotte, la cui repressione penale poteva essere in qualche modo assicurata, de iure condito, attraverso il ricorso ad alcune fattispecie (in particolare quelle degli artt. 572, 605, 610, 609-bis, 609-quater c.p.), i cui estremi possono risultare integrati nell’ambito di una vicenda di matrimonio forzato. Si tratta, tuttavia, di una tutela poco uniforme, che non si rivolge in modo puntuale allo specifico bene giuridico della libertà di autodeterminarsi sulla propria vita sentimentale e matrimoniale e non riesce a cogliere compiutamente il fatto lesivo, come invece cerca di fare, attraverso un’incriminazione specifica, la proposta di legge oggi all’esame del Senato.

 

4. Il D.d.l. n. S. 1200 prevede l’introduzione nel codice penale dell’articolo 558-bis, rubricato “costrizione o induzione al matrimonio”. Questa norma, inserita grazie ad un emendamento all’originario testo, giunge dopo che altri tre progetti di legge, specifici sul tema, erano stati presentati in Parlamento[13]. Essa è espressione della volontà del legislatore italiano di allinearsi a quegli ordinamenti europei che hanno sanzionato con una norma apposita i matrimoni forzati, oltreché di lanciare un messaggio forte di disapprovazione di questa grave violazione dei diritti fondamentali. In questa prospettiva, non appare felice la collocazione sistematica del nuovo reato nel capo I (dei delitti contro il matrimonio) del titolo XI (dei delitti contro la famiglia), volendosi tutelare un bene giuridico che ha a che vedere con i più fondamentali diritti di libertà della persona e non con l’istituzione del matrimonio in quanto tale. Preferibile sarebbe, dunque, l’inserimento della disposizione tra i delitti contro la libertà individuale (titolo XII, capo III), ed in particolare contro la libertà morale (sezione III), per porre l’accento sulla tutela della libertà di autodeterminazione, che risulta offesa in questi casi.

 

4.1. Il nuovo articolo 558-bis c.p., composto da 5 commi, presenta un’articolazione piuttosto semplice e lineare e prevede due distinte ipotesi di reato (rispettivamente al primo ed al secondo comma), modulate in base al grado e alle modalità della coercizione.

a) La prima fattispecie (costrizione al matrimonio) ricalca il reato di cui all’art. 610 c.p., prevedendo unicamente la violenza e la minaccia come modalità di coercizione; la sola differenza è che il “fare” che costituisce l’evento del reato in questo caso è specificamente individuato nella contrazione di un matrimonio o di un’unione civile. Questa prima ipotesi, tuttavia, non deve considerarsi come una sterile replica del reato di violenza privata, come appare chiaro alla luce della seconda fattispecie, prevista dal comma successivo.

b) Il reato di induzione al matrimonio, soggetto alla stessa pena della reclusione da 1 a 5 anni, è commesso da “chiunque, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile”. In questo caso le modalità coercitive tipizzate sono state ampliate così da poter abbracciare tutte quelle ipotesi in cui il consenso della persona venga ottenuto attraverso violenze psicologiche più sottili e, in generale, abusando dell’autorità genitoriale o familiare. Ipotesi molto frequenti, se non addirittura “tipiche” del fenomeno in esame, che rendono difficile l’applicazione del reato di violenza privata e dunque parziale la tutela che questa norma sarebbe in grado di fornire. Inoltre, la scelta del termine “induzione” per descrivere la condotta dell’agente enfatizza l’idea di una coercizione “anomala” e più lata, perseguita con mezzi meno diretti rispetto alle classiche violenze fisiche e minacce, ma che comunque hanno lo scopo ed il risultato di condizionare e viziare il consenso di una persona a contrarre un’unione in realtà non voluta.

Il legislatore dunque, anziché prevedere in un’unica fattispecie tutte le possibili modalità di condotta con le quali si può imporre il matrimonio, ha preferito distinguere due forme, in base all’entità e alla tipologia della coazione esercitata, attribuendo però ad entrambe il medesimo trattamento sanzionatorio, a conferma del fatto che si tratti pur sempre, in entrambi i casi, di un consenso estorto con violenza.

 

4.2. Se la pena stabilita pare adeguata e non sproporzionata, in quanto coerente con ipotesi di reato simili, un limite della previsione normativa va ravvisato nell’individuazione dell’evento coercitivo nel “matrimonio o unione civile”, senza che sia chiaro se la fattispecie abbracci soltanto vincoli con effetti civili, o anche riti considerati come matrimonio dagli agenti. Il riferimento espresso all’unione civile, oltre che al matrimonio, indurrebbe a ritenere che vadano incluse nel novero delle ipotesi punibili unicamente le unioni dotate di effetti civili per l’ordinamento italiano. Una conclusione che, è evidente, rischierebbe di ridurre molto la portata applicativa della norma e la sua efficacia, posto che un gran numero di matrimoni contratti “forzatamente” – specialmente quelli celebrati all’estero – non ha effetti civili. Per evitare tale problema, è auspicabile una precisazione normativa che conferisca un’accezione più ampia al termine “matrimonio”, ricomprendendovi anche unioni valide ai sensi di ordinamenti stranieri, convivenze more uxorio e riti considerati come matrimonio nella comunità di riferimento, come del resto era previsto nel D.d.l. n. S. 174 (uno dei due già in discussione al Senato) attraverso la formula “vincolo di natura personale da cui derivano uno o più obblighi tipici del matrimonio o dell’unione civile”. Un’analoga soluzione è stata, ad esempio, adottata nel Regno Unito dall’Anti-social behaviour, crime and policing Act del 2014: “‘marriage’ means any religious or civil ceremony of marriage (whether or not legally binding)[14].

 

4.3. Il terzo e quarto comma dell’art. 558-bis c.p. prevedono due circostanze aggravanti nel caso in cui i fatti siano commessi in danno di un minorenne, differenziando l’incremento di pena in base all’età: la pena è aumentata (fino a un terzo, in base alla regola generale) quando il soggetto passivo del reato è un minore tra i 14 e i 18 anni; si prevede invece una pena diversa, da due a sette anni, quando il minore abbia meno di quattordici anni. Se l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per la minore età della vittima è certamente in linea con i principi del nostro ordinamento, resta da chiedersi se non fosse preferibile che il legislatore configurasse un’ipotesi delittuosa autonoma in cui, al di sotto di determinate soglie d’età, il reato fosse integrato a prescindere da condotte coercitive[15], anche alla luce del fatto che, come si è visto, i matrimoni precoci, contratti con persona minorenne, sono sempre considerati come “forzati” nei testi delle organizzazioni internazionali, salvo naturalmente le specifiche eccezioni disciplinate dalle leggi statali (ad esempio, in Italia, nei casi di “emancipazione”). Questa diversa soluzione – sul modello del reato di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.) – potrebbe fornire una tutela ancora più ampia ad un soggetto che, per via della sua minore età, non è in grado di esprimere un consenso pieno e libero rispetto ad un fatto della vita importante come un’unione coniugale.

 

4.4. Il quinto comma dell’art. 558-bis – molto opportunamente – introduce una specifica deroga al principio di territorialità del diritto penale, identica a quella prevista dall’ultimo comma dell’art. 583-bis c.p. (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili), prevedendo che le disposizioni precedenti si applichino altresì quando il fatto sia commesso all’estero non solo da o nei confronti di un cittadino italiano, ma anche da o nei confronti di uno straniero residente in Italia. Questa “apertura delle frontiere” del diritto penale si rende necessaria al fine di reprimere efficacemente un fenomeno caratterizzato da una grande transnazionalità: l’evento stesso dei reati previsti dalla norma, infatti, si realizza molto spesso all’estero, ai danni e ad opera di soggetti che risiedono stabilmente (e talvolta sono nati) nel territorio dello Stato. Tale deroga, del resto, è espressamente richiesta anche dalla Convenzione di Istanbul (art. 44, dedicato alla giurisdizione, par. 2).

 

4.5. Un’ultima considerazione è doverosa. L’articolo 37 della medesima Convenzione, come già segnalato, richiede ai legislatori nazionali non solo di sanzionare il fatto di costringere un adulto o un minore a contrarre matrimonio, ma anche di attirare il soggetto in un territorio diverso da quello in cui risiede, con lo scopo di costringerlo a contrarlo. Si tratterebbe, invero, di un’ipotesi autonoma e diversa da quelle precedenti, il cui disvalore sembra insito nella stessa conduzione (o adescamento) della vittima fuori dal Paese di residenza, ed in cui la conclusione di un matrimonio forzato diventa l’oggetto del dolo specifico. La tutela che la Convenzione richiede di apprestare, pertanto, si colloca in una fase anticipata rispetto allo stesso evento coercitivo, esattamente come avviene, per esempio, nella fattispecie delittuosa della tratta di persone (art. 601 c.p.), che pure incrimina la condotta di un trasferimento di persone. Va detto che quasi tutti gli ordinamenti europei che hanno introdotto il reato di matrimonio forzato hanno sanzionato autonomamente anche l’ipotesi del trasferimento all’estero con tale finalità (per esempio: Regno Unito, Norvegia, Germania, Francia, Spagna) e altrettanto era stato previsto in due dei tre progetti di legge già presentati in Parlamento: il D.d.l. n. S. 662 e la proposta n. C. 792. Quest’ultima, peraltro, è proprio quella confluita nell’emendamento al D.d.l. “Codice Rosso” e che il legislatore ha poi modificato giungendo alla formulazione attuale, in cui compare solo la deroga al principio di territorialità. Scelta, questa, che manifesta una certa cautela nel reprimere penalmente la controversa ipotesi in esame: è evidente la delicatezza di un’eventuale incriminazione autonoma del trasferimento di una persona all’estero con fine di matrimonio forzato, peraltro difficile da provare e comunque, ricorrendone i presupposti, perseguibile come tentativo di un matrimonio forzato all’estero. Ciononostante, alla luce dell’espressa richiesta della Convenzione e del successivo adeguamento ad essa di molte legislazioni europee, su questo aspetto è forse necessaria una più approfondita riflessione.

 

5. È possibile a questo punto trarre qualche breve conclusione sulla novità normativa attualmente in esame al Senato. L’introduzione di un reato autonomo di coercizione o induzione al matrimonio appare un risultato da accogliere con favore, consentendo di ovviare alle difficoltà interpretative che le vigenti disposizioni codicistiche avrebbero potuto comportare di fronte a vicende di matrimonio forzato e in definitiva ad un, seppur parziale, vuoto di tutela, specialmente nei casi avvenuti all’estero. Inoltre, l’affermazione chiara della rilevanza penale di questo fenomeno nel nostro ordinamento può costituire un fondamentale strumento di empowerment delle vittime, oltreché un ausilio per gli operatori sociali e le istituzioni scolastiche, che possono rivestire un ruolo chiave nella prevenzione del fenomeno. Tutto ciò potrebbe avere l’ulteriore effetto di contribuire all’emersione dei casi perseguibili nel nostro ordinamento.

È criticabile, tuttavia, oltre alla collocazione sistematica data alla nuova disposizione e alla mancanza di precisazioni sull’accezione del termine “matrimonio”, l’assenza di ulteriori disposizioni più ampie di prevenzione e monitoraggio del fenomeno, che pure erano previste in due delle precedenti proposte di legge (la n. S. 174 e la n. C. 792). Questi due aspetti appaiono infatti di rilevanza fondamentale, perché, ad esempio, mediante la creazione di un Osservatorio si potrebbero studiare i casi da un punto di vista qualitativo, raggiungendo una maggior comprensione del fenomeno e adottando quindi misure preventive extra-penali adeguate. Ciò soprattutto in considerazione del fatto che l’ipotesi delittuosa in questione rientra nel delicato ambito dei reati cosiddetti “culturalmente orientati” ed è, pertanto, auspicabile che la norma che lo introduca sia accompagnata da campagne di informazione e sensibilizzazione, affinché possa raggiungere concretamente i suoi destinatari ed esplicare pienamente i propri effetti general-preventivi.

 


[1] Cfr., in relazione ai matrimoni precoci, UNICEF Data, Child marriage, 2018 (clicca qui).

[2] Sia perché, come attestano le ricerche statistiche europee, alcune delle vittime (seppur in minoranza) sono di sesso maschile, sia perché non può escludersi (ed in più rari casi è stato anche riscontrato) che qualcuna di esse non provenga da background migratori.

[3] Per esempio, gli omicidi di Hina Saleem nell’estate del 2006 e Sana Cheema a maggio 2018, uccise dai propri familiari per aver rifiutato un matrimonio nel loro Paese d’origine. Oppure la più fortunata sorte di giovani vittime riuscite a denunciare le coercizioni. Per qualche articolo di cronaca v.: Nunzia Vallini, Uccisa perché non voleva sposare un cugino, Corriere della Sera, 14/08/2006 (clicca qui); Federico Berni, La ragazza pakistana «scomparsa» è tornata in Italia, Corriere della Sera, 20/09/2018 (clicca qui).

[4] Cfr. United Nations General Assembly, United Nations Secretary General, In-depth study on all forms of violence against women – Report of the Secretary-General, A/61/122/Add.1, New York, 06/07/2006, pag. 40, par. 122; United Nations, Committee on the Elimination of Discrimination against Women, Committee on the Rights of the Child, Joint general recommendation No. 31 of the Committee on the Elimination of Discrimination against Women/general comment No. 18 of the Committee on the Rights of the Child on harmful practices, CEDAW/C/GC/31-CRC/C/GC/18, New York, 14/11/2014, pag. 27, par. 23; Home Office, Foreign and Commonwealth Office, Forced Marriage Unit Statistics 2017, 16/03/2018 (clicca qui), p. 4.


[5] Cfr. United Nations, Committee on the Elimination of Discrimination against Women, Committee on the Rights of the Child, cit. supra nota [4], p. 27, par. 20.

[6] Da una ricerca svolta nel 2008 in Emilia Romagna erano emersi 33 casi di matrimonio forzato: cfr. D. DANNA, Per forza, non per amore. Rapporto di ricerca sui matrimoni forzati in Emilia Romagna: uno studio esplorativo, Trama di Terre, Bologna, 2009 (clicca qui).

[7] Nel 2017 si contavano 1.196 vittime, di cui 930 di sesso femminile e il 48% minori degli anni 18: cfr. Forced Marriage Unit Statistics 2017, cit. supra nota [4], p. 3.

[8] Una ricerca del 2008 aveva esteso il campo di analisi agli episodi denunciati ad altre associazioni britanniche, stimandone complessivamente tra i 5.000 e gli 8.000: v. AA.VV., Forced marriage – Prevalence and service response, Department of Children, Schools & Families (DCSF), National Center for Social Research, Londra, 2009 (clicca qui), p. 24.


[9] Di cui l’8% vedeva coinvolti uomini e il 70% persone tra i 16 e i 21 anni: v. T. MIRBACH et al., Zwangsverheiratung in Deutschland – Anzahl und Analyse von Beratungsfällen, Hamburg: Bundesministerium für Familie, Senioren, Frauen und Jugend, 2011 (clicca qui).

[10] Che vedono ragazze spesso giovanissime interromperne da un giorno all’altro la frequentazione, senza che gli insegnanti ne abbiano più notizia: cfr. per esempio Claudia Brunetto, Le spose bambine di Palermo. L'allarme: decine i casi, poche denunce, La Repubblica, 09/09/2017 (clicca qui).

[11] Prima della Convenzione di Istanbul, il fenomeno era stato affrontato in molti documenti internazionali (dapprima come forma di schiavitù moderna e progressivamente come una manifestazione della violenza di genere), divenendo negli ultimi anni oggetto specifico di risoluzioni e raccomandazioni, di organi dell’ONU, dell’UE e del Consiglio d’Europa. Tuttavia, si trattava di atti di soft law, non vincolanti per gli Stati membri.

[12] Nel 2016 erano 19 gli Stati (su 34 analizzati, tra cui i 28 membri dell’UE) che avevano incriminato specificamente i matrimoni forzati: cfr. AA.VV., Forced marriage from a gender perspective, European Parliament, Directorate-General for Internal Policies, Policy Department C: Citizens’ Rights and Constitutional Affairs, Brussels, 2016 (clicca qui).

[13] La proposta di legge n. C. 792 (il cui esame non era ancora iniziato) e i disegni di legge nn. S 174 e S 662 (il cui esame, già in corso, è stato congiunto a quello del D.d.l. n. S. 1200 durante la seduta dello scorso 7 maggio).

[14] Anti-social behaviour, crime and policing act 2014, pt. 10, sez. 120, par. 4 (clicca qui). Per una critica alla diversa soluzione adottata in Germania, nella quale manca una tale precisazione, v. K. BRAUN, “I Don’t Take This Man to Be My Lawfully Wedded Husband”: Considering the Criminal Offense of “Forced Marriage” and Its Potential Impact on the Lives of Girls and Young Women with Migrant Backgrounds in Germany”, in German Law Journal, Vol. 16, n. 04, 2015, pp. 854-859.

[15] Riflessione sollecitata anche dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel febbraio 2019, con riferimento ai disegni di legge fino ad allora in discussione (clicca qui).