ISSN 2039-1676


23 luglio 2011 |

Importanti precisazioni della Corte EDU sul principio del non refoulement

Nota a Corte EDU, sez. IV, sent. 28.6.2011, pres. Garlicki, ric. nn. 8319/07 e 11449/07, Sufi ed Elmi c. Regno Unito

Chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato da due cittadini somali residenti in Inghilterra che lamentavano la violazione potenziale dell'art. 3 Cedu in relazione al loro eventuale rimpatrio nel Paese d'origine, la quarta sezione della Corte EDU ha effettuato alcune importanti precisazioni in merito al divieto (di estradizione e) di espulsione verso Paesi nei quali l'individuo corra il rischio di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti

Essa ha ribadito, anzitutto, che la protezione offerta dalla norma in questione è assoluta, e che dunque non rilevano le ragioni di ordine pubblico alla base del provvedimento di espulsione: laddove l’espellendo corra il rischio di essere sottoposto a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu, il suo eventuale rimpatrio darà luogo a una violazione di detta disposizione indipendentemente dalla pericolosità sociale dello stesso e dal rischio per la sicurezza nazionale che la sua permanenza sul territorio dello stato ospitante comporta.

Per valutare se il pericolo cui l’espellendo va incontro oltrepassi la soglia minima di gravità richiesta perché sia integrata la violazione dell’art. 3 Cedu, la Corte ha ribadito la necessità di un accertamento ex nunc, condotto sulla base di tutte le evidenze disponibili. All’esito di tale accertamento deve risultare, alternativamente: a) che nel Paese di destinazione vi è una situazione di mera instabilità, cui si accompagnano tuttavia condizioni personali del ricorrente che rendono la sua posizione maggiormente critica rispetto a quella della generalità dei cittadini; b) che  vi è una situazione di violenza di intensità tale da porre a rischio l’integrità fisica di tutti coloro che si trovano in quella regione.

Nel soffermarsi in particolare su questa seconda ipotesi, la Corte ha ritenuto di dover chiarire in via preliminare il rapporto intercorrente tra l’art. 3 Cedu e l’art. 15 lett. c) della direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.

Tale disposizione considera come danni gravi, necessari per poter beneficiare della protezione sussidiaria, la condanna a morte o all’esecuzione (lett. a), la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine (lett. b); e, appunto, la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (lett. c).

A differenza di quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia dell’UE nella sentenza  Elgafaji (C-465/07), la Corte è giunta alla conclusione che l’art. 3 Cedu offra una protezione non inferiore, ma del tutto equivalente a quella garantita dall’art. 15 lett. c)  della direttiva 2004/83/CE, e che, in casi eccezionali, la soglia di gravità necessaria per integrare la violazione di entrambe le disposizioni debba ritenersi raggiunta a fronte di una situazione di violenza generalizzata di intensità tale che la sola presenza della persona nell’area in questione determini un rischio per la sua vita e per la sua integrità fisica.

Sempre in via preliminare, la Corte ha precisato che i report internazionali sulla situazione in un determinato Paese che si basano su fonti anonime necessitano di adeguati riscontri fattuali, non potendo altrimenti essere utilizzati ai fini della valutazione sulla violazione potenziale dell’art. 3 Cedu.

I giudici di Strasburgo si sono soffermati, in terza battuta, sul livello di intensità che la violenza generalizzata nell’area di riferimento deve raggiungere perché possa dirsi integrata una violazione dell’art. 3 Cedu, rilevando come la propria giurisprudenza precedente non abbia fissato i criteri per determinarlo. Pur chiarendo che  tale elenco non ha carattere tassativo, essi hanno mostrato di condividere quelli utilizzati dall’Asylum and Immigration Tribunal (il tribunale britannico con giurisdizione in materia di immigrazione e asilo, instaurato nel 2005 e sostituito nel 2010 dalla Asylum and Immigration Chamber) nel caso AM & AM (Somalia) del 2008, ovverosia: a) l’impiego di metodi e strumenti di guerra tali da accrescere il numero delle perdite tra i civili, o addirittura l’individuazione di obiettivi civili; b) la diffusione dei suddetti metodi tra le parti belligeranti; c) le dimensioni del conflitto; d) il numero dei civili uccisi, feriti o sfollati all’esito del conflitto medesimo.

Applicando i suddetti principi di diritto al caso di specie, la Corte ha ravvisato una violazione potenziale dell’art. 3 Cedu in relazione alla posizione di entrambi i ricorrenti.

In particolare, con riferimento alla possibilità che, una volta rimpatriati in Somalia, essi potessero trovare accoglienza in un campo per i rifugiati, essa ha ritenuto che le condizioni dei campi medesimi fossero talmente precarie da non consentire il soddisfacimento adeguato dei bisogni primari secondo gli standard dettati dalla grande camera nella sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia, e che tale circostanza non potesse dunque valere ad escludere la violazione potenziale dell’art. 3 Cedu.