ISSN 2039-1676


20 dicembre 2011

L' "importanza di essere un minore non accompagnato"... oppure no?

Corte EDU, Prima Sezione, sent. 5 aprile 2011, Pres. Vajić, ric. n. 8687/08, Rahimi c. Grecia

La sentenza in commento - pubblicata in allegato - offre, tra l'altro, l'occasione per soffermarsi su una questione sempre più scottante nell'ambito di un tema già caldissimo quale è, e sempre più sarà, specialmente in tempi di crisi economica, l'immigrazione: si tratta dell'arrivo negli stati europei, in condizioni almeno inizialmente di irregolarità, di minori non accompagnati.

 

1. E' inevitabile richiamare subito per sommi capi la vicenda oggetto della decisione.

Il ricorrente è un sedicenne afghano, rimasto orfano per aver perduto i suoi genitori nei conflitti armati che insanguinano quel paese. Egli afferma di essere fuggito per timore di essere costretto ad arruolarsi nelle armate talebane e, comunque, perché la sua vita era in pericolo, considerato che lo stato afghano non si cura degli orfani.

Giunto in Grecia a 15 anni, nel luglio del 2007, senza documenti e arrestato in attesa di espulsione, rimane detenuto per 2 giorni nel centro di Pagani, che poi sarebbe stato chiuso nell'ottobre 2009 a seguito dei rapporti di organismi internazionali, fra cui quello del Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT), che aveva definito le condizioni di vita nel centro "abominevoli".

Al ragazzo, che parla solo la sua lingua madre, il farsi, viene consegnata - secondo quanto ammesso dallo stesso governo greco- una nota in arabo che illustra le possibilità di ricorso contro la detenzione, mentre l'ordinanza di espulsione, in lingua greca, è redatta secondo un modello standard dove risulta essere accompagnato da "un cugino", mentre egli afferma di non conoscere la persona ivi nominata e di aver avuto solamente un suo compatriota quale interprete occasionale. Nessuna informazione gli sarebbe stata data, inoltre, sulla possibilità di richiedere asilo.

Rilasciato dal centro di detenzione viene abbandonato a se stesso e arriva poi ad Atene dove trova l'assistenza di una ONG che lo ospita ed aiuta nella procedura per la richiesta di asilo.

Una vicenda che potrebbe sembrare banale, anche per la frequenza con cui, purtroppo, accade, ma che, letta dal punto di vista giuridico, presenta una sua complessità. Il protagonista è, infatti, un immigrato irregolare, in quanto tale detenuto in attesa di espulsione, un minore -non accompagnato-, in seguito un richiedente asilo: solo in seguito, dato che, fra le allegazioni contro lo Stato greco c'è, come si è appena ricordato, quella di non aver dato al ricorrente alcuna informazione in merito.

Dal punto di vista di un governo che vuole espellere gli "indesiderati" è un'omissione del tutto logica. Chi richiede protezione internazionale, infatti, non può, ovviamente, essere espulso nelle more della definizione del procedimento di accertamento dei requisiti per goderne, come sancisce la stessa Costituzione greca, citata tra il "diritto pertinente" dalla Corte EDU, che all'art. 79 recita "L'espulsione è vietata nel caso in cui lo straniero sia riconosciuto come rifugiato o abbia domandato asilo ai sensi degli articoli 32 e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 [...]". Si tratta, in effetti, di una pertinenza intesa in senso ampio, dato che la Corte non si occupa della violazione dei diritti di un richiedente asilo, che tale formalmente non era all'epoca della detenzione, dell'espulsione e dell'abbandono a se stesso, né vi è la possibilità per essa di sanzionare la violazione di un "diritto a ricevere adeguate informazioni sulla possibilità di richiedere asilo", che non è configurabile in alcun modo, dato che le norme internazionali ed europee non tutelano il "potenziale richiedente asilo", ma solo chi lo abbia effettivamente richiesto[1]. Si tratta, se si vuole, dell'altra faccia dell'abuso della richiesta di asilo da parte dei migranti "economici" o "clandestini".

Quello di cui, invece, la Corte nella sua valutazione tiene conto è il fatto che ci si trovi di fronte ad un minore, ed, in particolare, ad un minore non accompagnato.

2. Prima di entrare nel cuore dell'analisi, pare opportuno soffermarsi sulla definizione e sull'utilizzo dell'espressione "minore non accompagnato", che ormai ricorre frequentemente sia nella legislazione europea e, di conseguenza, nazionale, sia in diversi atti degli organi del Consiglio d'Europa.

La primogenitura risale alla Risoluzione del Consiglio dell'UE del 26 giugno 1997 sui minori non accompagnati, cittadini di paesi terzi (97/C 221/03), che contiene, in nuce, molti elementi che ancora oggi appartengono alla politica dell'UE in materia, primo fra tutti la ricerca di un difficile equilibrio tra le esigenze di controllo dell'immigrazione e la tutela dei diritti dei minori, in particolare non accompagnati (di seguito MNA): significativo, ad esempio, il rilievo che gli Stati possono rifiutare l'ingresso ai MNA sprovvisti di documenti e autorizzazioni, salve le garanzie per quelli richiedenti asilo. L'art. 1 definisce MNA i "cittadini di paesi terzi di età inferiore ai 18 anni che giungono nel territorio degli Stati membri non accompagnati da un adulto per essi responsabile in base alla legge o alla consuetudine e fino a quando non ne assuma effettivamente la custodia un adulto per essi responsabile" e i "minori, cittadini di paesi terzi, rimasti senza accompagnamento successivamente al loro ingresso nel territorio degli Stati membri". Con alcuni ritocchi, questa definizione è arrivata fino ad oggi, in particolare alle direttive che l'UE ha adottato negli ultimi anni in materia di immigrazione e asilo[2], a partire proprio dalla direttiva 2003/9/CE del 27 gennaio 2003 recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (c.d. direttiva accoglienza), dove la definizione è la seguente: "persone d'età inferiore ai diciotto anni che entrino nel territorio degli Stati membri senza essere accompagnate da un adulto che ne sia responsabile per legge o in base agli usi, fino a quando non siano effettivamente affidate ad un tale adulto; il termine include i minori che vengono abbandonati dopo essere entrati nel territorio degli Stati membri". Come si può vedere, l'unica differenza riguarda la sostituzione dell'espressione "cittadini di paesi terzi" con "persone", risolvendo, se non altro, il problema dei MNA apolidi.

L'individuazione dei MNA come categoria a sé stante, un po' sottocategoria di quella dei minori, appare legata alla maggior facilità con cui essi possono diventare vittime delle organizzazioni criminali che agevolano l'immigrazione clandestina, un punto dove controllo e tutela, per una volta, si incontrano, tanto è vero che, da ultimo, particolare considerazione è riservata ai MNA dalla direttiva 2011/36/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI. Ivi si sottolinea che "E' opportuno dedicare un'attenzione particolare ai minori non accompagnati vittime della tratta di esseri umani, in quanto la loro situazione di particolare vulnerabilità richiede assistenza e sostegno specifici" (23esimo considerando), attenzione che si concreta nell'individuazione, nel quadro di tutela delle vittime di tali reati nel corso dei procedimenti penali, di misure di protezione specifiche per questa categoria (art. 16) ponendo l'accento sulla necessità di azioni di sostegno ad hoc e sulla nomina di tutori e rappresentanti del minore nel procedimento penale.

Da ciò potrebbe discendere, la tendenza, che si è osservata[3], a non accordare alla distinzione tra i minori che chiedono asilo e quelli che non lo richiedono "un'importanza decisiva", anche se poi, a livello nazionale, ad esempio in Italia, può accadere che le discipline siano separate, con una tendenziale maggiore tutela riservata ai richiedenti asilo[4]. Il che, in effetti, non dovrebbe sorprendere, considerato che in tale caso si verifica un cumulo di qualifiche cui è legato un grado diverso di protezione, e che, in virtù del suo radicamento nel diritto internazionale generale, lo status di rifugiato e, prima del riconoscimento, quello di richiedente asilo, può godere di una definizione e di un quadro di tutele ben maggiore di quello di MNA.

Non per nulla ultimamente si assiste ad una vera e propria valanga di atti internazionali che danno un rilievo centrale o comunque importante a questa "nuova" categoria di minori, auspicando una maggiore attenzione loro rivolta: il termine auspicio non è usato a caso, dal momento che si tratta di atti non vincolanti.

In effetti, come spesso accade, apparente paradosso, più si tratta di soggetti il cui stato di vulnerabilità è nell'essenza delle cose, più intervengono atti di varie entità sovranazionali, vincolanti o meno, a cercare di imporre o indicare agli stati un minimo di obblighi di tutela, che poi, anche qualora riescano ad essere tradotti in norme cogenti negli ordinamenti interni, facilmente vengono in varia misura disattesi. Ciò, in particolare, in carenza di risorse pubbliche: non per nulla la stessa Corte di Strasburgo ha dovuto più volte ribadire che le difficoltà di ordine economico non costituiscono una valida giustificazione per la violazione di obblighi convenzionali, segnatamente quelli connessi ad una protezione di carattere assoluto come quella dell'art. 3 CEDU [v. da ultimo la recentissima sent. M.S.S. c. Grecia e Belgio c. 30969/09, Grande Camera, 21 gennaio 2011, § 224].

Al momento, il perimetro effettivo - rectius: minimo cogente - della protezione dei MNA è disegnato dalle prescrizioni contenute nelle citate direttive UE[5], con l'inevitabile flessibilità sul quomodo connaturata a tale strumento normativo e, soprattutto, tenuto conto del fatto che i MNA di cui queste si occupano, a parte la direttiva 2011/36/UE, sono quelli richiedenti asilo. A loro favore, in nome del prevalente interesse del minore, che pare una sorta di mantra del diritto minorile - si spererebbe non richiamato di continuo per far da copertura ad una situazione che in pratica difetta non poco-, si devono adottare tutta una serie di misure: condizioni particolari di accoglienza,  assicurazione della rappresentanza e altre tutele procedurali, fra cui anche la possibilità per i minori di presentare per proprio conto domanda di asilo, un alloggio che tenga conto delle loro esigenze, presso familiari adulti, una famiglia affidataria o in centri con specifiche strutture per minori, oltre che l'attivazione per il ricongiungimento familiare ove sia possibile e, logicamente, nell'interesse del minore.

Quanto ai desiderata, sono contenuti soprattutto in vari atti non vincolanti degli organi del Consiglio d'Europa (di seguito CE), alcuni citati anche nella sentenza in commento.

Come la Raccomandazione n. 1703 (2005) dell'Assemblea parlamentare, che sollecitava a designare "rapidamente" un tutore legale, sottolineando come,  spesso, la legislazione degli Stati membri del CE non prevedesse una tutela adeguata e che, comunque, "i ritardi amministrativi mettono in grave pericolo la sicurezza dei ragazzi, che rischiano di essere esposti alla tratta o ad altre sevizie".

Punctum dolens, e non potrebbe essere altrimenti, è la detenzione dei minori separati "nel corso della procedura della domanda d'asilo" (verrebbe da dire "perfino" in pendenza di tale procedura), che - lamentava l'organo sovranazionale- è "una pratica corrente nella grande maggioranza degli Stati membri", contrariamente, fra l'altro, anche a quanto disposto dall'art. 37 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo[6].

Situazione che non pare esser migliorata di molto a sei anni di distanza, dato che nella risoluzione adottata, assieme ad una raccomandazione avente lo stesso oggetto, il 15 aprile scorso, e dedicate specificamente ai MNA[7], l'Assemblea Parlamentare "invita" gli Stati membri al rispetto di una serie di quindici "principi comuni" , il cui cardine ispiratore è che i MNA devono essere trattati "prima e soprattutto come minori, non come migranti"[8], da tutelare come tali e indipendentemente dal loro status (punti 5.1 e 5.2).

Da ciò discende, fra l'altro, che "A nessun minore dovrebbe essere negato l'accesso nel territorio [...] dello Stato" (punto 5.3), che "L'accesso alle procedure di asilo e di protezione internazionale dev'essere reso incondizionatamente disponibile a tutti i minori non accompagnati" (punto 5.8) e che "Non dovrebbe essere permessa la detenzione dei minori non accompagnati sulla base del [solo] fatto della migrazione" (punto 5.9: "on migration grounds" nel testo originale inglese). Parole nobili, ma, trattandosi di inviti, alcuni, per di più, espressi con il condizionale...

Ancora, in una sua "posizione" del 25 giugno 2010, il Commissario del CE per i Diritti umani ricordava che "mentre la detenzione di minori per ore o giorni funzionale ad un'espulsione definitiva potrebbe eccezionalmente essere legittima alla luce dell'art. 5, comma 1, lettera f), una detenzione molto più lunga desterebbe seria preoccupazione" ed in ogni caso i minori dovrebbero essere detenuti separatamente dagli adulti - a meno che il contrario non sia nel loro interesse- mentre, poiché in linea di principio i minori non dovrebbero essere detenuti, è "imperativo" che ogni decisione di detenere i minori sia presa da un'autorità giudiziaria ("judicial authority" nel testo inglese).

Sul punto della detenzione, la tutela dei minori pare intrecciarsi con quella dei richiedenti asilo, se non altro perché per entrambi i gruppi la si vorrebbe, nei vari tipi raccomandazioni e risoluzioni, veder ridotta al minimo, però - e su questo si tornerà in seguito - come noto, la stessa CEDU, sempre all'art. 5, comma 1, lettera f), ma nella prima parte, laddove stabilisce tra le possibili eccezioni anche "il legittimo arresto o detenzione di una persona per impedire il suo ingresso non autorizzato nel paese", viene interpretata nel senso di permettere anche la detenzione dei richiedenti asilo[9]. Ed, in effetti, le preoccupazioni del Commissario CE per i Diritti umani sono non solo per i MNA[10], ma anche per i richiedenti asilo: in particolare in Grecia, il Commissario ha riscontrato "l'eccessiva applicazione di misure detentive e la mancanza delle garanzie di base nella procedura di asilo", il che lo ha, tra l'altro, portato ad intervenire nella citata causa M.S.S. c. Belgio e Grecia, concernente il rinvio verso la Grecia di un richiedente asilo da parte del Belgio, caso in cui lo stesso Commissario ha svolto per la prima volta un intervento orale quale "terza parte" avanti la Grande Camera della CEDU dove ha tra l'altro affermato che gli Stati europei dovrebbero fermare tali trasferimenti in quanto "la legge e la prassi sull'asilo non rispettavano gli standard per i diritti umani"[11].

Anche in ambito UE non mancano nobili propositi, pur se appaiono molto più temperati dalle preoccupazioni per il controllo dell'immigrazione. Non per nulla, infatti, nella citata Risoluzione 1810, l'Assemblea parlamentare del CE ricorda all'UE, dopo averla lodata per aver inserito quella sui MNA tra le politiche prioritarie nell'ambito del programma di Stoccolma per il periodo 2010-2014, la necessità che il Piano di Azione per l'attuazione di questo programma sia pienamente rispettoso della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo e la invita a considerare la possibilità di proporre nuovi standard legislativi "per colmare i gap esistenti nel diritto comunitario (sembrerebbe rectius: nella legislazione degli Stati dell'UE) in relazione a tutti i minori non accompagnati".

Il programma di Stoccolma[12], approvato dal Consiglio europeo nel dicembre 2009, enuncia, infatti, i suoi obiettivi quasi nella forma di contrappunto, parlando di  "rafforzamento dei controlli delle frontiere" e di garantire "l'accesso alle persone che necessitano di protezione internazionale e ai gruppi che si trovano in situazioni vulnerabili, come ad esempio i minori non accompagnati", di "diritti dei migranti" e di "rimpatrio efficace e sostenibile". Si afferma di voler garantire anche chi è vulnerabile, ma il proposito principale e più definito continua a guardare solo ai rifugiati, ovvero "l'istituzione di un sistema europeo comune di asilo (CEAS) entro il 2012", mentre si chiede alla Commissione di "esaminare misure concrete volte a facilitare il rimpatrio dell'elevato numero di minori non accompagnati che non necessitano di una protezione internazionale". E la Commissione, nel suo Piano d'azione sui minori non accompagnati (2010-2014), dopo aver enunciato la necessità di "un approccio comune basato sul rispetto dei diritti dei minori quali definiti nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo" e quindi della protezione del minore, della nomina di un rappresentante, dell'accoglienza in strutture adeguate, e dopo aver affermato che "il trattenimento dovrebbe essere applicato soltanto in casi eccezionali"[13], fra le prospettive del minore indica la "priorità al rimpatrio volontario nel pieno rispetto delle garanzie imposte dalla direttiva sul rimpatrio", a meno che non goda, ovviamente della "protezione internazionale".

Pare quindi di poter affermare, come prima conclusione, che, allo stato attuale delle cose, lo status "forte" quanto a tutele è, alla luce di quanto si è visto, quello del richiedente asilo, mentre l'essere un minore non accompagnato non aggiunge poi molto alla protezione che ad un minore dovrebbe essere offerta in quanto tale.

3. Alla luce di quanto sopra, guardiamo ora più da vicino quanto sentenziato dai giudici di Strasburgo sul caso che ci occupa.

Innanzitutto, colpisce alquanto la pratica delle autorità greche di menzionare dei minori nelle ordinanze di espulsione riferite ad immigrati irregolari adulti indicati come loro accompagnatori senza che ciò risponda a verità. La Corte si sofferma, in effetti, ampiamente sul punto se il ricorrente fosse o meno accompagnato da un adulto, che rileva essere "un elemento importante della causa" [§ 63].

Meritano di essere richiamate le considerazioni svolte sul piano probatorio, anche se non si tratta di novità assolute, come testimoniano i riferimenti alla precedente giurisprudenza [§ 64].

La Corte, infatti, ricordando la specificità del proprio compito di assicurare che le Alte Parti contraenti riconoscano i diritti fondamentali come garantiti dalla Convenzione, sottolinea che "non esiste alcun ostacolo procedurale alla ricevibilità degli elementi di prova né delle formule predefinite applicabili alla loro valutazione", per cui la prova può derivare -e qui riecheggia il nostro Codice Civile, anche se la Corte è recisa nel negare la propria competenza in materia di responsabilità civile (e penale)- "da un insieme di indizi, o di presunzioni non confutate, sufficientemente gravi, precise e concordanti", che possono emergere non solo da quanto sostenuto dalle parti, e segnatamente dallo Stato convenuto, bensì provenire anche da "altre fonti affidabili ed obiettive, come per esempio [...] agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni non governative reputate per la loro serietà".

Viene richiamato altresì il principio per cui "il grado di convinzione necessario per giungere ad una certa conclusione e, a questo proposito, la ripartizione dell'onere della prova, sono intrinsecamente legati alla specificità dei fatti, alla natura delle allegazioni presentate ed al diritto convenzionale che viene in questione". Tale principio ha dato vita, dagli anni '90 in poi, ad un indirizzo, che sta tuttora avendo sviluppi, secondo cui, con particolare riguardo alle violazioni dirette dell'art. 3 CEDU, che garantisce una protezione assoluta nei confronti della tortura e di trattamenti inumani e degradanti, vi sarebbe una presunzione di responsabilità dello stato convenuto, configurandosi una vera e propria inversione della prova[14].

Applicati alla questione qui in esame, questi criteri portano la Corte a ritenere che il ricorrente fosse non accompagnato[15].

Per quanto riguarda il periodo dalla presentazione della domanda d'asilo in poi, per la Corte è sufficiente che in quest'ultima non sia indicato alcun accompagnatore e quanto affermato dall'ONG che lo ha assistito riguardo al suo arrivo assieme ad altri MNA, oltre alla mancata assegnazione di un tutore [§ 66: anche se, a rigore, l'assegnazione di un tutore viene in questione solo in quanto il minore non sia accompagnato, e non per dimostrare tale condizione].

Per il precedente periodo di otto giorni a decorrere dal suo arresto, i giudici si basano su quanto specificamente riscontrato nei rapporti del Commissariato ONU per i Rifugiati, del Commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa e da una ONG sulle "gravi lacune che persistono nella prassi in materia di tutela dei minori richiedenti asilo non accompagnati", formula in cui, forse con comprensibile zelo tutorio, si utilizza anche una qualifica che faceva difetto al ricorrente all'epoca dei fatti, ma che potrebbe vedersi anche come un lapsus che lascerebbe trasparire la tendenza ad aver riguardo del MNA più come richiedente asilo che non semplicemente come tale.

In effetti, l'essere il minore non accompagnato, nell'argomentare dei giudici di Strasburgo, si rivela importante più come elemento di fatto che di diritto, nel senso che, al di là dell'enfasi, non si ritengono sussistenti le violazioni allegate della CEDU in quanto il ricorrente è minore non accompagnato e quindi specificamente protetto come membro di tale "gruppo", ma il fatto che egli si trovi senza assistenza da parte di adulti concorre a definire una situazione di vulnerabilità che giustifica un'applicazione particolarmente attenta verso il ricorrente dei criteri di giudizio[16], a cominciare dalla valutazione sull'allegata violazione dell'art. 3 CEDU.

Il punto viene esaminato assieme alla questione del mancato esaurimento dei ricorsi interni di cui all'art. 35, comma 1, obiezione sollevata dal governo greco in punto di ammissibilità del ricorso e comunque già oggetto della parimenti allegata violazione dell'art. 13, relativo, come noto, all'obbligo di garantire un rimedio effettivo nell'ordinamento interno per la violazione dei diritti garantiti dalla CEDU.

Quanto a quest'ultima questione, logicamente prioritaria, la Corte richiama la sua consolidata giurisprudenza che vuole che i rimedi per essere considerati tali debbano essere "disponibili ed adeguati", effettivi ed accessibili, qualità che è onere dello Stato convenuto dimostrare e che devono essere possedute "in concreto", per cui devono essere valutate con riferimento alla situazione del ricorrente. Quindi, dopo aver evidenziato che non solo per la detenzione, avente carattere amministrativo, degli immigrati in attesa di espulsione non si applica la procedura garantita dal codice di procedura penale, ed ai tribunali non è permesso sindacare le condizioni di detenzione e, se del caso, ordinare la liberazione del detenuto, sottolinea la particolare importanza che riveste l'essere il ricorrente "minore senza rappresentanza legale nel corso della sua detenzione" cui le informazioni erano state fornite in una lingua per lui incomprensibile.

Neanche relativamente alle condizioni di detenzione, che sono ritenute aver integrato un trattamento degradante, la Corte offre spunti particolarmente innovativi. Vengono, infatti, ribaditi sia la necessità del raggiungimento di una soglia minima di gravità per ritenere sussistente la violazione dell'art. 3 CEDU, sia i principi in tema di prova, di cui si è detto supra.

Per la dimostrazione della "deplorabilità" di tali condizioni fa ancora riferimento ai rapporti di organizzazioni internazionali e ONG, nonché alle sue precedenti sentenze di condanna della Grecia per casi analoghi, riguardanti sia richiedenti asilo che un migrante irregolare[17] [§ 81ss.]: una situazione oggettivamente incompatibile con la dignità di qualunque essere umano, ma in particolare per il ricorrente che "in ragione della sua età e della sua situazione personale [ovvero il non essere accompagnato, il non poter comunicare...] si trovava in una situazione di estrema vulnerabilità". Cosicchè, trattandosi di una valutazione "relativa nell'essenza", la Corte, mettendo assieme oggettività e soggettività del ricorrente, ritiene raggiunta la soglia minima di gravità per aversi violazione dell'art. 3 CEDU indipendentemente dal fatto che la detenzione era durata appena due giorni[18].

Decisamente più interessante è, invece, anche considerato che su questo punto, come su tutti gli altri, si è avuta l'unanimità, l'aver fatto discendere dall'essere il ricorrente, come più volte ripetuto, giovane, abbandonato a se stesso in quanto non accompagnato, ma anche "straniero in situazione di illegalità in un paese sconosciuto", e perciò facente parte "incontestabilmente della categoria di persone le più vulnerabili della società", la sussistenza in capo allo Stato greco di obbligazioni positive nei suoi confronti discendenti dall'articolo 3 CEDU per il periodo successivo al suo rilascio. Qui, si noti, en passant, la Corte abbandona il riferimento all'asilo per porre l'accento sulla condizione di minore solo e, curiosamente, sul trovarsi egli in situazione di illegalità. Per vero, l'apparente individuare questo tratto - perché poi la Corte si affretta a svalutarlo, come ricordandosi di quanto di negativo è ad esso legato- come titolo che concorre a definire una situazione di vulnerabilità potrebbe ispirare riflessioni metagiuridiche che porterebbero lontano.

Tenendoci sul piano dell'argomentazione, riguardo a questa interpretazione dell'art. 3, la Corte ricorda un proprio precedente, piuttosto recente [sent. Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio, 12.10.2006, ric. n. 13178/03)], mentre, con più specifico riferimento all'appartenenza ad una categoria vulnerabile, una citazione è tratta dalla già citata sentenza M.S.S. c. Grecia e Belgio.

Ora, mentre la vicenda oggetto della prima sentenza, che riguardava una bambina di cinque anni, giuridicamente immigrata illegale, trattenuta per due mesi in un centro per adulti, seppure con contatti telefonici giornalieri con la madre e lo zio e con particolari attenzioni dello staff del centro, presenta, seppure con le debite differenze, affinità sui punti decisivi con quella in esame[19], il richiamo alla decisione resa in M.S.S. c. Grecia e Belgio pare non del tutto conferente.

In tale nota sentenza la Corte ha affermato la violazione dell'art. 3 CEDU da parte della Grecia, che aveva mantenuto in condizioni degradanti, sia durante che dopo la detenzione, un afghano che aveva richiesto asilo in Belgio, e da parte del Belgio, che lo aveva trasferito in Grecia in applicazione del Regolamento CE/343/2003, violando così il principio di non refoulement. Forse il richiamo nella pronuncia in commento è stato operato per il suo effetto potenzialmente dirompente, relativamente, però, alle politiche di asilo dell'UE[20], non in casi come quello in esame: in altri termini, è proprio il fatto di riguardare un richiedente asilo, per di più non minore, a poter ispirare un parallelo che invece di rafforzare, rischia di indebolire l'argomentazione.

In effetti, anche in questo caso il ricorrente era stato detenuto solo per poco tempo, undici giorni, per di più in due riprese, ma la Corte ha ritenuto raggiunta la soglia minima di gravità pure in considerazione del fatto che "la disperazione del ricorrente è stata accentuata dalla vulnerabilità intrinseca alla sua condizione di richiedente asilo", in particolare per come vengono generalmente trattati in Grecia [§ 233 della sentenza in citazione], ed anche in questo caso era stato abbandonato a se stesso nel periodo del rilascio, senza mezzi né alloggio.

Qui però si registra la differenza fondamentale: la Corte ha, infatti, ritenuto violato l'art. 3 pur precisando che l'obbligo di soddisfare i bisogni primari dei richiedenti asilo non discende dall'articolo stesso, ma dalla legge interna di attuazione della direttiva 2003/9/CE, il cui art. 13 impegna gli Stati membri a garantire loro una "qualità di vita adeguata per la salute ed il sostentamento".

La Corte ha posto, quindi, in modo molto forte l'accento sull'essere il ricorrente un richiedente asilo, che, in quanto tale, "appartiene ad un gruppo di popolazione particolarmente sfavorito e vulnerabile che ha bisogno di una protezione speciale", sul che, sottolinea la Corte, vi è un ampio consenso internazionale, come risulta, fra l'altro dalla citata direttiva europea [§ 251 sent. cit.], che non è solo un supporto a questa affermazione, ma il presupposto indispensabile per configurare una violazione indiretta dell'art. 3 CEDU. Di per sé, infatti, l'assunto secondo cui i richiedenti asilo costituirebbero in quanto tali un gruppo particolarmente vulnerabile[21] è stato contestato anche in occasione di questa sentenza. Nella sua opinione dissenziente, infatti, il giudice Sajò osserva che "la nozione di gruppo vulnerabile possiede un significato preciso nella giurisprudenza della Corte" in ragione della "stigmatizzazione sociale" dei suoi membri, che hanno "sofferto di una notevole discriminazione in passato", il che non è il caso dei rifugiati in quanto tali, e che, tra l'altro, nel "sistema di Dublino" la definizione di "persone o gruppi particolarmente vulnerabili" riguarda "certe categorie particolari di rifugiati, come le vittime di tortura e i minori non accompagnati e la loro classificazione non ha alcuna incidenza sul trattamento", mentre, viceversa, nella giurisprudenza CEDU l'appartenenza ad un tale gruppo restringe notevolmente il margine d'apprezzamento degli stati che vogliano imporre una qualche restrizione dei diritti fondamentali delle persone che ad esso appartengano. Il rilievo ha un suo fondamento, poichè, come si è visto, le direttive comunitarie effettivamente individuano tra i rifugiati delle categorie particolarmente meritevoli di protezione, come i MNA. L'argomento fondante della ritenuta violazione dell'art. 3 poggia, in definitiva, su quella della direttiva comunitaria in tema di rifugiati[22], non sul riguardare un soggetto appartenente ad un gruppo vulnerabile. Non solo la decisione sarebbe probabilmente stata diversa se la direttiva 2003/9/CE non avesse avuto particolare riguardo per i richiedenti asilo, ma anche se il ricorrente non fosse stato tale: in tal caso, viste le premesse del ragionamento, la decisione favorevole non sarebbe stata scontata neanche se fosse stato un minore.

 

Ancora una volta la categoria dei rifugiati pare, quindi, aver guidato il ragionamento della Corte a favore del ricorrente, anche se la giurisprudenza di Strasburgo non pare sempre sensibile alle esigenze di questo gruppo che pure ha definito "particolarmente vulnerabile".

In particolare, riguardo alla detenzione dei richiedenti asilo, la CEDU sembra piuttosto comprensiva nei confronti delle esigenze del controllo dell'immigrazione, dal momento che considera sufficiente ai fini della sua legittimità che essa sia funzionale agli accertamenti nel quadro della procedura di concessione di asilo o di altre forme di protezione, indipendentemente dal fatto di essere ragionevolmente ritenuta necessaria per esempio per evitare che l'interessato commetta reati o si dia alla fuga [ex multis, Chalal c. Regno Unito, Grande camera, 25.10.1996, § 112] così come è legittimo trattenere un richiedente asilo per "accelerare le procedure"[23].

Era proprio quest'ultimo il caso della sentenza Saadi c. Regno Unito, [Grande Camera, 11.7.2006], la prima sulla specifica questione[24], in cui i giudici  si sono riferiti ai principi elaborati dalla stessa Corte in tema di detenzione in attesa di espulsione, affermando che anche chi ha avuto un permesso di soggiorno temporaneo in vista di una decisione sul proprio status può essere comunque destinatario di misure atte a prevenire il suo ingresso non autorizzato nel paese  ai sensi dell'art. 5, comma 1, lettera f) CEDU.

Tale applicazione estensiva, in verità, ha incontrato delle resistenze, dal momento che ben sei giudici, nella loro opinione dissenziente, hanno stigmatizzato il fatto che nell'affermare che, essendo lo scopo della detenzione quello di decidere "in modo veloce ed efficiente" sulla richiesta di asilo del ricorrente, essa era "strettamente connessa con l'obiettivo di prevenire il suo ingresso illegale (v. § 77, in fine) la Corte non ha esitato a fare un passo ulteriore ed assimilare tutti i richiedenti asilo a potenziali immigrati illegali", il che è contrario al principio di diritto internazionale recepito nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 secondo cui la richiesta di asilo legittima il soggiorno sul territorio. Nonostante questa autorevole obiezione, anche nella citata sentenza M.S.S. c. Grecia e Belgio il trattenimento del ricorrente è stato ritenuto ammissibile sotto il profilo dell'art. 5.1, mentre ad essere violato è stato solo l'art. 3 con riguardo alle condizioni di detto trattenimento[25].

Anche nella sentenza in commento è stato sollevato il profilo della violazione dell'art. 5 CEDU, in relazione sia alla legittimità della detenzione del ricorrente ai sensi del comma 1 lettera f), sia del comma 4 quanto al controllo di tale legittimità[26].

Per giungere ad una statuizione favorevole al ricorrente in un quadro la cui ispirazione prende le mosse "[dal]l'innegabile diritto sovrano di controllo sull'ingresso ed il soggiorno degli stranieri sul proprio territorio" [sentt. Chalal e Saadi, cit.] da parte degli Stati, scontata, come si è appena visto, anche dai richiedenti una protezione internazionale, la Corte si richiama alla Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo e alle norme di attuazione della direttiva 2003/9/CE - che, però, come più volte ricordato, riguarda i richiedenti asilo-per sostenere che nel diritto internazionale vi è un "ampio consenso" sull'idea che, ogni volta si tratti di minori, il loro interesse debba prevalere. La conclusione è quindi nel senso che, nel caso di specie, non essendo stata la detenzione del ricorrente una misura di ultima ratio, essa, anche in considerazione delle pessime condizioni di vita nel centro in cui era stato trattenuto[27], è da considerarsi illegittima.

Decisivo è qui il fatto che il ricorrente sia un minore, indipendentemente dall'essere non accompagnato.

Infine, nell'affermare la violazione anche del comma 4 dell'art. 5 CEDU[28], la Corte osserva che "anche a supporre che i ricorsi [previsti] fossero stati efficaci [...] non vede come l'interessato avrebbe potuto esercitarli" considerato che era stato registrato come minore accompagnato, per cui i relativi poteri sarebbero spettati al tutore [§120].

4. In conclusione, riprendendo le osservazioni fatte nel corso dell'analisi, si può dire che l'uso della categoria dei MNA per individuare soggetti destinatari di una particolare protezione presenta delle perplessità quanto alla sua utilità. Innanzitutto, perché la si è definita con più riguardo al contrasto all'immigrazione irregolare che non alle specifiche esigenze di tutela, poi perché il nucleo "forte" di questa tutela, cioè quello garantito da atti cogenti, aggiunge ben poco a quella di cui sono destinatari i minori in quanto tali, limitandosi, in sostanza, a misure connesse con la necessità di rappresentanza del minore, alla cui previsione si poteva giungere senza bisogno di individuare un "gruppo" particolare di minori. Necessità, quest'ultima, che potrebbe presentarsi anche, come ha ricordato l'UNHCR, per minori che pur essendo formalmente accompagnati, lo sono da adulti non in grado di provvedere ad essi o che li mettono in situazioni di pericolo, per cui collegare l'obbligo di nominare un tutore all'appartenenza ai MNA potrebbe creare difficoltà nell'affrontare queste situazioni[29].

Il problema è, in effetti, comune all'uso di categorizzazioni, dato che se i passaggi sono: verifica dei presupposti di appartenenza dell'individuo alla categoria - inclusione nella stessa - riconoscimento all'individuo delle tutele in quanto appartenente alla categoria, si rischia di creare delle zone d'ombra per quegli individui che non hanno tutti i requisiti per appartenere a quella certa categoria ma, nei singoli casi, possono trovarsi in situazioni per far fronte alle quali sono state pensate alcune delle tutele previste per gli appartenenti alla categoria.

Non a caso, il ragionamento della Corte EDU, in questa sentenza ma non solo, qualora decida a favore del ricorrente, pone l'accento più sulla qualificazione della condizione in cui questo si trova in termini di "vulnerabilità" che non sull'essere egli MNA o richiedente asilo, a meno che non siano ben chiari e cogenti gli obblighi di tutela connessi all'appartenenza alla categoria, il che, come si è osservato, accade più per i richiedenti protezione internazionale che non per i MNA. Quella di soggetti vulnerabili non viene intesa come una "super-categoria", che sarebbe troppo eterogenea, non come un predicato del soggetto in quanto membro di un gruppo ma in quanto si trovi in una certa situazione. Guardare all'individuo nel contesto della situazione è forse la soluzione nei casi in cui non siano sufficientemente delineati e riconosciuti gruppi e tutele loro accordate, o in cui, magari, l'individuo "quasi" appartenga ad uno o più gruppi tutelati, come può essere il caso di chi, potenzialmente, avrebbe i requisiti per richiedere asilo ma non lo ha potuto fare, come il ricorrente della vicenda qui considerata, che ha però, almeno in sede di Corte EDU, avuto la "fortuna" di essere un soggetto vulnerabile per eccellenza, un minore, e quindi vedere in fine riconosciute le proprie esigenze di protezione.

 


[1] Per completezza, dalla sentenza risulta che la domanda di asilo poi presentata dal ricorrente era stata rigettata ed era pendente appello.

[2] Il riferimento, oltre alla direttiva 2003/9/CE è alla direttiva 2004/83/CE, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (c.d. direttiva qualifiche) e alla direttiva 2005/85/CE, del 1 dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (c.d. direttiva procedure). La direttiva 2008/115/CE, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (c.d. direttiva rimpatri), dà per scontata la definizione e inserisce i minori ed i minori non accompagnati fra le "persone vulnerabili" assieme a "i disabili, gli anziani, le donne in gravidanza, le famiglie monoparentali con figli minori e le persone che hanno subìto torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale" (art. 3), una sorta di "macrocategoria" che veniva individuata già dalla direttiva 2003/9/CE come destinataria di particolare considerazione nell'applicazione delle disposizioni generali sulle condizioni di accoglienza di cui al capo II della stessa. Sulla disciplina comunitaria dell'immigrazione si può vedere De Pasquale P., "Respingimenti, rimpatri e asilo: la tutela degli immigrati irregolari nell'UE" in Dir. Un. Eur. 1/2010 , 19ss. [testo tratto dalla banca dati DeJure]

[3] Bichi R., Introduzione: separated children, un fenomeno europeo, in Separated children: i minori stranieri non accompagnati, Milano, 2008, 9ss.. Sul punto, però, vedi infra.

[4] In effetti, in Italia, la prima definizione di MNA era contenuta nel DPCM 9 dicembre 1999 n. 535 (Regolamento del Comitato per i Minori stranieri), tuttora vigente, che lo individua con riferimento all'essere privo di assistenza e rappresentanza ai sensi del vigente ordinamento italiano ed al non aver presentato domanda di asilo.

Il Comitato è l'organo tuttora deputato a decidere tra la permanenza ed il rimpatrio del minore che non sia richiedente asilo: pur vigendo, infatti, nel nostro ordinamento, il divieto di espulsione del minore, salvo per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello stato e adottato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell'art. 31, comma 4, del T.U. Immigrazione, e salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi ai sensi dell'art. 17 del medesimo TU, è stato introdotto il "rimpatrio assistito". Il DPCM 535/99 lo configura in funzione del "riaffidamento alla famiglia o alle autorità responsabili" per "fini di protezione e di garanzia del diritto all'unità familiare" del minore. E' stato rilevato, però, come la possibilità di riaffido alle autorità del paese di origine, la mancata definizione di criteri per valutare se il rimpatrio è nell'effettivo interesse del minore e la sottrazione del sindacato a riguardo all'autorità giudiziaria, affianchi alla politica di protezione le esigenze di controllo dell'immigrazione [SAVY G., La legislazione, in Separated children.., cit., 29ss.] In modo più tranchant, MIAZZI L., Minori non accompagnati nella legge 189/2002: un passo avanti e mezzo indietro sulla strada dell'integrazione, in Dir. Immigrazione e Cittadinanza, 3/2002, p. 77, osserva che "Il rimpatrio assistito infatti altro non è che una forma di allontanamento dal territorio dello Stato per via amministrativa: in pratica, come hanno detto in molti, un'espulsione mascherata". Ivi anche una ricostruzione delle disposizione del TU Immigrazione dopo le modifiche operate dalla L. 30 luglio 2002, n. 189.

Il minore richiedente asilo, invece, è preso in carico dal Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati ed in nessun caso può essere trattenuto presso le strutture di cui agli articoli 20 e 21, ovvero i centri di permanenza temporanea di cui all'art. 14 del TU Immigrazione (D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 26).

[5] Anche il Regolamento 343/2003/CE, c.d. Dublino II, dedica un cenno ai MNA richiedenti asilo, stabilendo che "Se il richiedente asilo è un minore non accompagnato, è competente per l'esame della domanda di asilo lo Stato membro nel quale si trova legalmente un suo familiare, purché ciò sia nel miglior interesse del minore". In mancanza di un familiare, è competente per l'esame della domanda lo Stato membro in cui il minore ha presentato la domanda d'asilo (art. 6). E' prevista l'attivazione degli Stati per permettere il ricongiungimento familiare.

[6] La detta Convenzione, all'art. 37, che comunque, guardando al suo tenore generale, pare aver riguardo più alla detenzione del minore accusato di reati che non a quello migrante, stabilisce che "Gli Stati parti vigilano affinché:

a) nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Né la pena capitale né l'imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore a diciotto anni;

b) nessun fanciullo sia privato di libertà in maniera illegale o arbitraria. L'arresto, la detenzione o l'imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa ed avere la durata più breve possibile;

c) ogni fanciullo privato di libertà sia trattato con umanità e con il rispetto dovuto alla dignità della persona umana ed in maniera da tener conto delle esigenze delle persone della sua età. In particolare, ogni fanciullo privato di libertà sarà separato dagli adulti, a meno che si ritenga preferibile di non farlo nell'interesse preminente del fanciullo, ed egli avrà diritto di rimanere in contatto con la sua famiglia per mezzo di corrispondenza e di visite, tranne che in circostanze eccezionali;

d) i fanciulli privati di libertà abbiano diritto ad avere rapidamente accesso ad un'assistenza giuridica o ad ogni altra assistenza adeguata, nonché il diritto di contestare la legalità della loro privazione di libertà dinnanzi un Tribunale o altra autorità competente, indipendente ed imparziale, e che una decisione sollecita sia adottata in materia."

[7] Si tratta, rispettivamente della Risoluzione 1810(2011) e della Raccomandazione 1969(2011)

[8] Già nella Raccomandazione CM/Rec(2007)9 del Comitato dei Ministri sui progetti di vita a favore dei minori non accompagnati del luglio 2007  si trova la precisazione che la raccomandazione in questione si riferisce a tale categoria di minori "quale che sia il loro stato, indipendentemente dalla causa della loro migrazione, che siano o meno richiedenti asilo". Vi sono, diverse previsioni internazionali che guardano al minore come tale: basti ricordare l'art. 24 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che riconosce ai minori il diritto a misure protettive, senza discriminazioni e, per tornare alla Convenzione sui Diritti del Fanciullo, l'art. 20 che stabilisce in capo agli stati firmatari l'obbligo di assicurare protezione e aiuti speciali "ad ogni fanciullo temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare".

[9] Così come la detenzione è espressamente prevista dalla direttiva 2003/9/CE, che non solo stabilisce, all'art. 7.2, la possibilità di stabilire per il richiedente asilo un luogo di residenza "per motivi di pubblico interesse, ordine pubblico o, ove necessario, per il trattamento rapido e il controllo efficace della domanda", ma, al successivo comma 3, che "ove risultasse necessario, ad esempio per motivi legali o di ordine pubblico, gli stati membri possono confinare il richiedente asilo in un determinato luogo nel rispetto della legislazione nazionale". La direttiva 2005/85/CE prevede che, comunque, "Gli Stati membri non trattengono in arresto una persona per il solo motivo che si tratta di un richiedente asilo".

[10] Il Commissario, nel suo Rapporto annuale sull'attività svolta nel 2010 [CommDH(2011)4 pubblicato il 13 aprile scorso] dedica un intera sezione ai "Diritti umani di richiedenti asilo e migranti", oggetto di suoi ripetuti interventi nei quali ha sottolineato la particolare vulnerabilità dei minori non accompagnati stigmatizzando il fatto che spesso l'obiettivo principale delle autorità è il rimpatrio dei minori verso i paesi di origine ma anche di transito.

[11] Questo, ricorda sempre il Commissario, avviene in un quadro europeo che, con il cosiddetto "Regolamento di Dublino" non garantisce in generale ai richiedenti asilo adeguate procedure per la determinazione dello status di rifugiato e dovrebbe quindi essere rivisto. In effetti, in presenza di notevoli disparità nelle percentuali di accoglimento delle domande di asilo fra gli stati UE, una disciplina come quella dell'art. 10 del Regolamento 2003/343/CE rischia di creare ingiustificabili disparità: tale articolo stabilisce infatti che: «quando è accertato, [...] che il richiedente asilo ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l'esame della domanda d'asilo».

[12] Le citazioni sono tratte dalla sintesi del programma reperibile sul sito http.//europa.eu/legislation_summaries/human_rights/fundamental_rights_within_european_union/jl0034_it.htm

[13] Per il testo del Piano si veda:

http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/fight_against_trafficking_in_human_beings/jl0037_it.htm

 

[14] Per considerazioni relative all'applicazione dell'inversione della prova nella sentenza M.S.S. c. Grecia e Belgio,  si veda BEDUSCHI L., Immigrazione e diritto di asilo: un'importante pronuncia della Corte di Strasburgo mette in discussione le politiche dell'Unione europea, pubblicato in questa Rivista il 9.5.2011. Sulla sua applicazione in generale nella recente giurisprudenza della Corte EDU, v. COLELLA A., Rassegna delle pronunce del triennio 2008-2010 in tema di art. 3 CEDU, pubblicata in questa Rivista il 3.7.2011.

[15] L'applicazione dell'inversione della prova ai casi in cui il ricorrente non sia in vinculis non è pacifica: infatti, nella sentenza Samut Karabülüt c. Turchia del 27 gennaio 2009, che ha riconosciuto la violazione dell'art. 3 CEDU per le lesioni riportate da un partecipante nel corso di una manifestazione pacifica dato che il governo non aveva specificatamente giustificato la necessità del ricorso alla forza da parte della polizia, si è avuta l'opinione dissenziente dei giudici Zagrebelsky e Sajò, che hanno ritenuto come l'inversione dell'onere della prova nei casi in cui il ricorrente non è in vinculis non sia giustificata ed imponga alle autorità una probatio diabolica.

[16] Da un diverso punto di vista, è il rischio che, individuando e tutelando una categoria, come quella dei MNA, si finisca poi per negare protezione a quei minori che non vi rientrano, ma che sono parimenti vulnerabili, che probabilmente ha portato l'Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR), nel suo Manuale per la determinazione dello status di rifugiato a criticare la definizione di MNA, suggerendone una più ampia, quella di "separated children". Specialmente in situazioni di emergenza, afferma l'UNHCR, non tutti i minori bisognosi di tutela rientrano nelle definite condizioni di minore non accompagnato senza contare i casi in cui gli adulti accompagnatori non sono all'altezza delle loro responsabilità. Senza contare i casi in cui "si verifichi per il minore una situazione di rischio dovuta proprio a questa vicinanza" [BICHI R., Introduzione: separated children, un fenomeno europeo, in Separated children.., cit.]

 

[17] Si tratta delle sentenze S.D. c. Grecia dell'11.6.2009 ( ric. n. 53541/07), che riguardava un richiedente asilo politico turco trattenuto per due mesi nel corso della procedura in un prefabbricato, in condizioni igieniche precarie, senza poter uscire all'esterno, né telefonare, e Tabesh c. Grecia del 26.11.2009, (ric. n. 8256/07) concernente un immigrato clandestino detenuto per tre mesi, in attesa di espulsione, senza poter svolgere alcun tipo di attività fisica e senza essere adeguatamente nutrito.

[18] A questo proposito, infatti, non viene in considerazione solo la durata del trattamento e dei suoi effetti fisici e mentali, ma anche, "talvolta, il sesso, l'età e lo stato di salute della vittima", dato che esso, per essere ritenuto degradante dev'essere "di tale natura da ispirare nelle vittime sentimenti di paura, angoscia e di inferiorità funzionali alla loro umiliazione ed avvilimento" [sent. in commento, § 59 e precedenti ivi citati]. In generale, per ritenere sussistente la violazione  dell'art. 3 nel caso di detenuti, il criterio fondamentale è che gli stessi devono essere sottoposti a misure che causano loro sofferenze eccendenti quelle inevitabili connaturate alla detenzione [per tutte v. Kudla c. Polonia, 26.10.2000, paragrafi 93-94]. Il tempo di sottoposizione alle misure ha un ruolo rilevante, ma anche periodi brevi di detenzione possono concretizzare un trattamento inumano, come è accaduto in questo caso.

[19] E' evidente che, alle, in effetti migliori, condizioni di trattamento offerte alla minore, ha fatto da contrappeso nel ritenere comunque violato l'art. 3, sia il periodo della detenzione, molto più lungo, che l'età, di gran lunga inferiore, della stessa rispetto al protagonista del caso in commento. Si rinviene anche qui, e la cosa potrebbe essere quasi grottesca, considerato che si parla di una bambina di 5 anni,  l'affermazione secondo cui, visto il carattere di protezione assoluta dell'art. 3, "è importante ricordare che questo è il fattore decisivo, che ha la precedenza sulle considerazioni relative al [suo] status di immigrata illegale". Pertanto, la bambina "rientrava indiscutibilmente tra i membri della società estremamente vulnerabili nei cui confronti lo stato belga aveva la responsabilità di offrire cure e protezione adeguate quali obblighi positivi discendenti dall'art. 3 della Convenzione. "  E' ritenuto altresì violato, come anche nel caso in esame, su cui v. infra, l'art. 5.1 in relazione alle condizioni di detenzione della minore, trattenuta in un "centro destinato agli immigrati illegali nelle stessa condizioni degli adulti, condizioni quindi non adeguate alla posizione di estrema vulnerabilità in cui si trovava a causa del suo essere una minore straniera non accompagnata" [§ 103].

[20] Come osserva BEDUSCHI L., Immigrazione e diritto di asilo, cit. "la Grande Camera, per la prima volta nella pluridecennale giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha messo apertamente in discussione il principio di fiducia