ISSN 2039-1676


17 febbraio 2012 |

Sobre la sentencia del Tribunal Supremo español en contra del Juez Baltasar Garzón

Comentario a la sentencia de 9 de febrero de 2012 del TS que condenó al Juez Baltasar Garzón como autor de un delito de prevaricación (ABSTRACT IN ITALIANO)

Con una sentenza pronunciata lo scorso 9 febbraio e ripresa dai media di tutto il mondo, il Tribunal Supremo spagnolo (funzionalmente corrispondente alla Cassazione italiana) ha condannato a una pena pecuniaria e, soprattutto, all'interdizione dagli uffici giudiziali per la durata di 11 anni il giudice istruttore Baltasar Garzón, ben noto anche nel nostro Paese, per il delitto di "prevaricazione" previsto dall'art. 446 comma terzo del codice penale spagnolo, in concorso formale con il delitto di intercettazioni illegali.

L'art. 446 punisce il fatto del "giudice o magistrato che, consapevolmente, pronuncia una sentenza o un provvedimento ingiusto", stabilendo quadri sanzionatori più severi per l'ipotesi in cui il fatto abbia avuto come conseguenza la condanna ingiusta di taluno per un delitto o contravvenzione. L'ipotesi residuale di cui al terzo comma, che viene qui in considerazione, si applica invece a "qualsiasi altra sentenza o provvedimento ingiusti".

Nel caso di specie, il Tribunal Supremo (pronunciando in primo grado e con sentenza inappellabile in ragione della funzione giudiziaria esercitata da Garzón) ha ritenuto integrato il delitto di prevaricazione in relazione ad un provvedimento, assunto nel febbraio 2009 da Garzón nella sua qualità di giudice istruttore, con il quale si disponeva l'intercettazione di tutte le conversazioni in carcere tra taluni imputati in custodia preventiva e i rispettivi difensori, nell'ambito di un complesso e delicato procedimento relativo a finanziamenti illeciti a partiti politici nel quale erano coinvolti anche esponenti del Partito Popolare, sulla base di un generico - e non meglio motivato - pericolo di reiterazione della condotta criminosa da parte degli imputati attraverso la collaborazione degli avvocati in questione.

Il Tribunale Supremo compie una dettagliata analisi della normativa spagnola in materia di intercettazioni delle comunicazioni tra imputati e difensori, anche alla luce della giurisprudenza pertinente della Corte EDU, per concludere che nessuna interpretazione sostenibile mediante i "criteri ermeneutici usualmente ammessi" avrebbe potuto consentire al giudice istruttore di adottare quel provvedimento, che doveva dunque qualificarsi dal punto di vista oggettivo - oltre che come costitutivo del delitto di intercettazioni illegali - come "provvedimento ingiusto" ai sensi del citato art. 446 c.p. spgnolo. Di ciò era certamente consapevole anche lo stesso Garzón, con conseguente sussistenza, altresì, dell'elemento soggettivo del dolo diretto richiesto dalla norma.

La nota qui pubblicata analizza criticamente questa sentenza, che solleva non poche inquietudini in relazione alle sue possibili ricadute sul principio dell'indipendenza dell'esercizio della funzione giudiziaria nell'ordinamento spagnolo; inquietudini legate anche alla formulazione amplissima e generica del delitto di prevaricazione, utilizzato qui per sanzionare l'adozione di un provvedimento certamente contrario alla legge spagnola così come interpretata da una giurisprudenza ormai consolidata - all'epoca dei fatti - del Tribunal Supremo, del Tribunal constitucional e della stessa Corte EDU, ma che in un passato non lontano era stata oggetto di interpretazioni difformi da parte degli stessi massimi organi giurisdizionali spagnoli: il che vale probabilmente a escludere che l'interpretazione adottata in concreto da Garzón, magari anche in consapevole contrasto con gli orientamenti nel frattempo consolidatisi del Tribunal Supremo, fosse del tutto insostenibile alla luce dei "criteri ermeneutici usualmente ammessi", a meno di pensare che lo stesso Tribunal Supremo avesse nel passato ignorato tali criteri.

La sentenza qui esaminata rischia, dunque, di aprire la strada all'applicazione della prevaricazione rispetto ad ogni ipotesi in cui il giudice adotti un provvedimento in consapevole contrasto con l'interpretazione consolidata delle normativa pertinente da parte delle giurisdizioni superiori attraverso un percorso argomentativo che il Tribunal Supremo dovesse ex post giudicare come insostenible sulla base dei "criteri ermeneutici usualmente ammessi", non essendo tra l'altro richiesto dall'art. 446 c.p. spagnolo alcun dolo specifico, come la finalità di cagionare un danno al destinatario del provvedimento.

Vengono infine brevemente analizzate le residue possibilità per Garzón - il quale è tra l'altro ancora sottoposto ad altri due procedimento penali (l'uno per corruzione, l'altro ancora per prevaricazione in relazione alla sua controversa decisione di aprire indagini sui crimini franchisti coperti da una legge di amnistia) - di far valere le proprie ragioni avanti al Tribunal Constitucional spagnolo (attraverso un procedimento di impugnazione della sentenza per violazione delle proprie garanzie costituzionali), alla Corte EDU nonché al Comitato ONU per i diritti umani, in relazione - in particolare - al delicato profilo dell'assenza, nell'ordinamento spagnolo, della garanzia di un doppio grado di giudizio per i procedimenti penali relativi a fatti commessi da magistrati nell'esecizio delle loro funzioni (abstract a cura di Francesco Viganò).

 

El juez español en lo criminal Baltasar Garzón ganó notoriedad mundial durante los años 90 por perseguir la corrupción de su país (tanto de derecha e izquierda), por participar en una ofensiva judicial sin precedente -y en sus extremos muy cuestionada- contra el grupo "terrorista" ETA y, especialmente, por ser un entusiasta y decidido promotor de la jurisdicción criminal universal, lo cual lo impulsó a arrestar en 1998 al ex dictador chileno Augusto Pinochet mientras se encontraba en la ciudad de Londres. Además, se mostró interesado en los crímenes del franquismo y en la llamada "memoria histórica" de su país. Obviamente, un personaje público con esas características no admite, en el sentir popular, medias tintas: o se le ama o se le odia.

El 9 de febrero del presente año, el Tribunal Supremo español dio término (hasta el momento) al primero de los juicios en su contra -recordemos que tiene todavía dos causas más, una por un caso de cohecho impropio y la otra por otro delito de prevaricación, por declararse competente para investigar delitos de la era del "franquismo" estando vigente una ley de amnistía-, promovido por una serie de abogados ibéricos, condenándolo a 11 años de inhabilitación especial para el cargo de juez o magistrado, además de una multa de catorce meses con una cuota diaria de 6 euros, por el delito de prevaricación del art. 446.3 del C.p., en concurso aparente de normas con el delito previsto en el artículo 536, párrafo primero del C.p. que sanciona al funcionario público que intercepte las comunicaciones o utilizare artificios técnicos de escucha, transmisión, grabación o reproducción del sonido, con violación de las garantías constitucionales o legales.

Los hechos que forman parte de este alambicado caso difícilmente pueden resumirse en pocas líneas, pero sucedieron sintéticamente así: dentro de la investigación del denominado "caso Gürtel", que se relaciona con una serie de delitos de blanqueo de capitales, de defraudación fiscal, de falsedad, de cohecho, de asociación ilícita y de tráfico de influencias -donde aparecen implicados varios políticos pertenecientes al Partido Popular (el cual recientemente ha ganado las elecciones de España)-, el ahora condenado Juez dispuso autónomamente -y sobre la base de información verbal recibida de la policía, al menos no explicitada en el expediente-, con fecha 19 de febrero de 2009, intervenir las comunicaciones orales y escritas de tres imputados por el caso en cuestión y que se hallaban a la sazón en prisión preventiva. La intervención se justificó en términos amplios y sin una acuciosa argumentación, indicando que se ameritaba la medida dada la complejidad del caso y la fuerte sospecha de que los imputados continuaban ejecutando actividades ilícitas desde la prisión.

Dicha intervención de las comunicaciones (que físicamente se realizaba en los recintos habilitados para las conversaciones entre abogados y privados de libertad) se hizo extensiva, además, a aquellas que mantuvieron con sus abogados, aunque sin individualizarlos expresamente (salvo a uno). Muy escuetamente el auto de 19 de febrero indicaba que dichas intervenciones debían realizarse "previniendo el derecho de defensa".

Hay dos situaciones que conviene tener presente. Primero, que una vez recibida por la Dirección General penitenciaria la orden de interceptación de las comunicaciones, ésta solicitó la aclaración respecto a si las comunicaciones que mantuviesen los imputados en el caso con sus abogados debían ser grabadas, a lo que el juez Garzón contestó afirmativamente.

Segundo, que la policía igualmente solicitó que se le aclarare acerca del contenido de la expresión "previniendo el derecho de defensa", y recibió como respuesta que debían proceder a recoger las cintas, escuchar lo grabado, transcribir su contenido excluyendo las conversaciones privadas sin interés para la investigación y proceder a su entrega en el juzgado, pues el propio Juez se haría cargo de cumplir con dicha previsión.

Sobre este punto, aparece también de relevancia indicar que en marzo del mismo año el propio Ministerio fiscal solicitó la prórroga de dicha medida, requiriendo, eso sí y de manera reiterada, que se excluyeran de la intervención las conversaciones que los imputados mantuviesen con sus abogados. En el mismo mes, el magistrado concede la prórroga en términos casi idénticos al auto anterior, sin, como dice la sentencia, dar ninguna instrucción clara de cómo debe excluirse tales conversaciones o dar cumplimiento al derecho de defensa. Es de hacer notar que durante esos meses dos imputados cambiaron de representantes. Es decir, asumieron la representación en la causa nuevos abogados, respecto de los cuales evidentemente no parecían existir antecedentes que los vincularan criminalmente con la causa, y la medida intrusiva continúo siendo aplicada.

La sentencia en este punto señala que ya se habían intervenido y registrado conversaciones entre los abogados y sus imputados realizadas en el mismo establecimiento penitenciario, las cuales, como se deduce del contenido de los autos emitidos por el magistrado en lo criminal, habían sido escuchadas y transcritas por funcionarios policiales. En todo caso, resulta importante destacar, por cuanto -a juicio de la sentencia- explicita el nivel de afectación del derecho a la defensa y la confidencialidad de las comunicaciones cliente-abogado, además de la falta de cuidado con la cual se manejó esa información, que fue el propio fiscal del Ministerio, quien expresó en un informe que "El informe de la UDEF incluye la transcripción de las conversaciones mantenidas entre los imputados que se encuentran en situación de prisión provisional y algunos de sus familiares y abogados (...) Una parte importante de las transcripciones se refieren en exclusiva a estrategias de defensa y, por tanto, deben ser excluidas del procedimiento."

Según la sentencia, luego de la exposición de los hechos se abre una cuestión fundamental  respecto a la conducta del acusado: determinar el contenido del derecho de defensa frente al interés legítimo del Estado en la persecución de los delitos. Esta cuestión central debe a su vez establecer  la realización o no de los supuestos típicos del delito de prevaricación del art. 446.3 del c.p. y/o el delito de escuchas ilegales del art. 536.1 del c.p.

Respecto al derecho de defensa, el Tribunal Supremo, luego de insistir en el hecho que el magistrado, más allá de la formal declaración de "prevenir el derecho de defensa" no dispuso de ninguna medida efectiva para su real cumplimiento, hace notar que ninguno de los abogados de la defensa, sean los ya apersonados en la causa como aquellos que se presentan con posterioridad en el proceso, presentaban el menor indicio de ser sospechosos en la participación de los delitos de los que se acusaba a sus representados, ni que existieran datos que permitiesen presumir que se estuviesen aprovechando del derecho de defensa para cometer actividades delictivas. Luego, para fundamentar el derecho de defensa, el Tribunal Supremo se vale de las normas contenidas en los arts. 17 y 24 de la Cost. española, como derecho basilar del proceso justo. Luego, descendiendo normativamente, y respecto a la confianza en el letrado, como parte integrante del derecho de defensa, se vale, tanto de jurisprudencia interna (en este caso, la STC 1560/2003) como de la jurisprudencia europea, concretamente de las sentencias del Tribunal Europeo de Derechos Humanos en el caso Castravet contra MoldaviaViola contra Italia, Brennan contra Reino Unido, entre otras; además de la sentencia del Tribunal de Justicia de las Comunidades Europeas en el caso Caso Azko y Akcros/Comisión, haciendo hincapié que para entender la existencia de una violación de este derecho basta con la mera intervención de las conversaciones abogado-cliente sin que de ello se siga un aprovechamiento expreso mediante una acción concreta. Luego, pasa a enumerar una serie de otros derechos comprometidos con una escucha de esta naturaleza, tales como el derecho a no declarar, el secreto profesional y el derecho a la intimidad.

Respecto a las limitaciones a dicho derecho, que reconoce la sentencia no ser absoluto, reclama la sentencia Viola contra Italia, la cual los enumera: Existencia de previsión legal suficiente que, en todo caso, debe respetar su contenido esencial; justificación suficiente en el supuesto concreto que tenga en cuenta los indicios disponibles en el caso, la necesidad de la medida y el principio de proporcionalidad; y, por último, en el derecho español, una autorización judicial.

Respecto al primer requisito, la sentencia hace descender la reglamentación respectiva del art. 25 de la CE el cual prescribe que los internos de un centro penitenciario gozarán de derechos fundamentales, a excepción de aquellos que sean limitados por el fallo, el sentido de la pena y la ley general penitenciaria. Respecto de esta última, es el art. 51.2 de la LOGP la cual indica expresamente que las comunicaciones interno-abogado solo pueden ser interrumpidas por orden de autoridad judicial y en los supuestos de terrorismo.

La sentencia analiza la evolución jurisprudencial de la norma, evolución que reconoce no ha sido pacífica. Parte, de hecho, con una sentencia que interpreta extensivamente los requisitos establecidos en la ley (STC 73/1983) la cual establece que autorizado a dar la orden de las escuchas entre interno-abogado sería también el Director del establecimiento. La sentencia se apresura a traer a colación una muy distinta dirección jurisprudencial con la STC 183/1994 la cual establece que los requisitos enunciados en el art. 51.2, al tratarse de lo que la mentada sentencia denomina "comunicaciones específicas", distintas de las "generales" del art. 51.1 y porque poseen un nivel de protección más alto, exigen como copulativos los requisitos de autorización judicial y que se trate de casos de terrorismo. Esta jurisprudencia fue seguida posteriormente por las sentencias STC 200/1997 y 98/1998 y sería la doctrina que el tribunal supremo sigue.

Respecto al delito de prevaricación, castigado en el art. 446.3 c.p. la sentencia se pronuncia acerca del requisito de la "injusticia" de la resolución. Apelando, en el considerando décimo segundo, a normativa internacional, comunitaria e interna concluye que "[n]inguno de los métodos de interpretación del derecho usualmente admitidos que hubiera podido seguir el acusado respecto de estos preceptos le habría conducido a concluir de forma razonada que es posible restringir sustancialmente el derecho de defensa, con los devastadores efectos que ocasiona en el núcleo de la estructura del proceso penal, en las condiciones en que lo hizo".  Es decir, la injusticia estaría en una "injustificada reducción del derecho de defensa y demás derechos afectados anejos al mismo, (...) situando la concreta actuación jurisdiccional que protagonizó, y si se admitiera siquiera como discutible, colocando a todo el proceso penal español, teóricamente dotado de las garantías constitucionales y legales propias de un Estado de Derecho contemporáneo, al nivel de sistemas políticos y procesales característicos de tiempos ya superados". En cuanto al elemento subjetivo requerido (entendemos dolo directo) se da por verificado por el tenor literal de las dos resoluciones por él emitidas, las aclaraciones solicitadas por la policía la designación de nuevos letrados, todo lo cual permite concluir que el imputado estaba consciente de la posible afectación de los derechos de los imputados y sus abogados, no procurando celosamente su debida protección más allá de la cláusula formal de "previniendo el derecho a defensa".

Finalmente, y dado que a juicio del tribunal se daban los supuestos del delito de prevaricación y el de escuchas ilegales, el tribunal se decanta por un concurso aparente de leyes penal donde por consunción el desvalor de la prevaricación absorbe el desvalor de las escuchas, condenando sólo por el primero.

A este punto es preciso hacer un par de breves observaciones. Sorprende la argumentación del Tribunal Supremo el cual por un lado insiste en la ilegitimidad de las resoluciones del juez por ser evidentemente atentatorias contra el derecho de defensa, trayendo a colación tanto la legislación nacional como la jurisprudencia del Tribunal constitucional, para luego desarrollar un segundo hilo argumentativo relativo a la injusticia de las resoluciones (como elemento de la prevaricación) donde insiste que no hay otra interpretación posible acerca de la eventual legitimidad de escuchas sin los requisitos previamente indicados. Es sorprendente, como decíamos, porque la sentencia parece omitir (lo que entendemos era necesario) una explicación de por qué existiendo con anterioridad una interpretación de la norma más amplia (donde, luego,  sí existían criterios de interpretación que permitían llegar a ese resultado) el sólo cambio de la jurisprudencia implica la irracionabilidad de toda interpretación del juez. Porque, como se comprenderá, la no-vinculación a un precedente (sobre todo si el intérprete utiliza un razonamiento que alguna vez tuvo validez judicial) podrá ser motivo de un recurso, de una revocación de la resolución, pero difícilmente de un delito de prevaricación. Es cierto que en este caso, además de la interpretación "injusta" de la norma aplicada por el Juez Garzón la manera en que ella se aplicó, los estándares con los que se justificó y la extensión con que se ejerció fueron incomprensibles, pero la sentencia expresamente rechaza esos puntos como los centrales de su argumentación.

Ello puede obedecer a una doble razón: intentar sentar jurisprudencia acerca de la prevaricación y, además, ponerse a salvo de una posible discusión en sede de tribunal constitucional, dado que la jurisprudencia originaria de este Tribunal sostenía una visión más laxa acerca de los requisitos para intervenir comunicaciones interno-abogado. Con ello, sin embargo, se abre la pregunta de si prevaricará en el futuro el juez que se aparte de la jurisprudencia predominante, cuestión delicada y que afecta de manera grosera la independencia interna de los jueces frente a decisiones de tribunales superiores.

En cuanto a las posibilidades de recurrir de la sentencia condenatoria, cabe señalar que el Juez Garzón podría impugnar la sentencia ante el Tribunal Constitucional español o bien recurrir ante la Tribunal Europeo de Derecho Humanos.

En efecto, el Juez Garzón podría intentar un recurso o Acción de Amparo ante el Tribunal Constitucional español pues, como lo dispone el artículo 2 número uno letra b) de la Ley Orgánica del Tribunal Constitucional, aquel es competente para conocer cualquier violación de los derechos fundamentales reconocidos en los artículos 14 a 19 de la carta fundante española, como serían, por ejemplo, el derecho a la tutela judicial efectiva, a la defensa u otros, que pudieron verse afectados en la instrucción de la causa, en el juicio o, incluso, en la sentencia. Evidentemente no es un recurso por medio del cual se pueda discutir los hechos del caso ni tampoco la correcta calificación jurídica que a esos hechos se les ha dado, sino únicamente si existe una trascendencia constitucional que merezca ser reparada, y que el Tribunal ha entendido como aquella que permite aportar algo a la interpretación o el desarrollo de los derechos fundamentales.

En todo caso, si el Tribunal Constitucional no admitiera a trámite el recurso, o bien lo desestimara en el fondo, igualmente el Juez Garzón podría presentar un recurso ante el Tribunal Europeo de Derechos Humanos para que aquel juzgue si, en definitiva, el Estado español ha violado algún derecho reconocido en la Convención o sus protocolos.

Como se puede apreciar, por su condición de aforado el Juez Garzón fue condenado por el Tribunal Supremo y eso significa, en la práctica, que carece de la posibilidad de someter el fallo y la condena a un Tribunal superior que pueda revisar en apelación la sentencia y -conforme lo ha planteado la defensa del Juez- aquello pudiera afectar el derecho del magistrado a recurrir de su condena.

Esta cuestión, que como se dijo ya fue planteada en el juicio sobre la base del artículo 14.5 del Pacto Internacional de Derechos Civiles y Políticos, fue desestimada por el Tribunal Supremo en razón de la disposición explícita del artículo 2 del protocolo 7 del Convenio Europeo para la Protección de los Derechos Humanos y las Libertades Fundamentales, que prevé expresamente una excepción a la regla del derecho al recurso cuando la persona afectada sea juzgada en primera instancia por el más alto tribunal.

Sobre este punto cabe hacer dos menciones. Por una parte, el magistrado podría igualmente recurrir ante el Comité de Derecho humanos para intentar que sea éste organismo de la ONU el que observe la falta de previsión de un efectivo derecho al recurso de España en contraposición con el citado Pacto (lo que ya ha hecho en otras ocasiones, aunque referido a temas sustancialmente diversos); o bien intentar una interpretación del protocolo que sea consistente con su posición, en el sentido que la ratio  de la norma pareciera considerar hipótesis de juicios a altas autoridades del país distintas a las del poder judicial y no a éstas que -por la especial posición de jerarquía y de pertenencia a ese poder del Estado- deberían estar amparadas de un efectivo derecho al recurso al interior del propio poder judicial.

Queda aún por ver qué sucederá con las otras dos causas, donde la prevaricación de la llamada "memoria histórica" aparece como la de mayor interés internacional, pues es hoy una jurisprudencia bastante asentada en los Tribunales internacionales (particularmente en la Corte Interamericana de Derechos Humanos) la interpretación de que las leyes de amnistía no pueden impedir investigar, juzgar y -si corresponde- sancionar a los culpables de delitos que son imprescriptibles, como los de lesa humanidad. Habrá que ver, entonces, qué decide el Tribunal Supremo español.

La sentencia del Tribunal Supremo se puede descargar en el icono que aparece en la parte superior.