ISSN 2039-1676


17 maggio 2012 |

La conferma della sentenza di non luogo a procedere nel caso Telecom: quando la Corte di cassazione dimentica la natura prognostica della decisione in udienza preliminare

Cass. pen., Sez. VI, 20 settembre 2011 (dep. 3 maggio 2012), Pres. De Roberto, Est. Paoloni, imp. Bernardini e a., ric. Procura della Repubblica e Procura generale di Milano, Pirelli S.p.A., Telecom Italia S.p.A., Telecom Latam S.p.a., Canta

1. La pronuncia con cui la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di non luogo a procedere nel caso Telecom, già pubblicata in questa Rivista, offre l'occasione per alcune considerazioni sulle regole di giudizio che devono presiedere alla fase della delibazione dell'accusa.

La decisione appare, sotto il profilo che qui interessa, criticabile perché non censura un vizio di motivazione in cui è incorso il giudice dell'udienza preliminare, che deriva da una visione scorretta del proscioglimento previsto dall'art. 425 c.p.p. 

 

2. Anche in seguito alle modifiche introdotte dalla l. n. 479 del 1999. come la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito (v. ad esempio Cass., Sez. IV, 8 marzo 2012, n. 13922), la decisione in udienza preliminare ha mantenuto una natura eminentemente prognostica.

Nello stabilire se le indagini effettuate consentano di sostenere l'accusa in giudizio, il giudice dell'udienza preliminare deve, ancora oggi, prefigurare l'esito delle attività che si svolgerebbero qualora l'iter processuale proseguisse il suo corso. Questa valutazione, come tutte le prognosi, presenta un ineliminabile margine di discrezionalità. Affinchè non sconfini nell'arbitrio è indispensabile che venga improntata a parametri che siano il più possibile univoci nel loro significato.

 

3. Va a tale proposito subito chiarito che la prognosi in udienza preliminare si snoda in due momenti complementari ma distinti, che non sempre vengono differenziati come si dovrebbe.

Il primo stadio della prognosi attiene alla completabilità degli atti di indagine. Gli atti compiuti non devono presentare lacune: piste investigative non seguite, fonti di prova non raccolte, persone informate sui fatti non interrogate in modo adeguato. Le indagini possono dirsi complete solo quando al giudice appare ragionevole ritenere che, anche continuandole, non si reperirebbero ulteriori elementi conoscitivi.

Il secondo stadio della prognosi attiene alla c.d. utilità del dibattimento. Per svolgere questa ulteriore valutazione non è sufficiente determinare il valore conoscitivo degli elementi acquisiti. Si deve anche misurarne la potenziale forza di resistenza, in modo da prevedere se lo svolgimento del dibattimento li trasformerebbe in prove dello stesso segno ovvero di tenore diverso.

Ne deriva che la sentenza di non luogo a procedere deve essere pronunciata quando è consentito formulare una prognosi di resistenza in giudizio di uno fra tre possibili esiti dell'udienza preliminare: la prova dell'innocenza dell'accusato, la mancanza di prova oppure la prova insufficiente o contraddittoria (art. 425, commi 1 e 3, c.p.p.).

Simmetricamente, il decreto di rinvio a giudizio va disposto quando può essere espressa una prognosi di resistenza della prova della colpevolezza, oppure quando non è formulabile una prognosi di resistenza in rapporto alla prova insufficiente o contraddittoria. In quest'ultimo caso l'udienza preliminare conduce ad una situazione di incertezza che però appare suscettibile di essere superata - non è rilevante se a favore dell'accusa o della difesa - attivando le più potenti risorse conoscitive che appartengono al dibattimento, in primis l'esame incrociato dei dichiaranti.

Il grado di difficoltà della prognosi sull'utilità del dibattimento dipende in buona parte dalla tipologia degli elementi a disposizione del giudice dell'udienza preliminare. È massimo se si tratta di dichiarazioni o, comunque, di atti di indagine ripetibili, che in giudizio saranno sostituiti da prove formate dialetticamente. Tende al minimo se si tratta di prove precostituite o di atti non ripetibili, che verranno inseriti nel fascicolo per il dibattimento e quindi coincideranno fisicamente con gli atti che dovrà valutare il giudice di merito.

Ciò non toglie che, in ogni caso, la prognosi sull'utilità del dibattimento possa - ed anzi, debba - essere strettamente ancorata alle peculiarità degli elementi reperiti. Ipoteticamente potrebbe essere pronunciata una sentenza di non luogo a procedere anche quando gli atti d'indagine consistessero unicamente in dichiarazioni assunte unilateralmente dalle parti e tali da originare un dubbio sulla colpevolezza dell'imputato. L'essenziale è che una decisione del genere si fondi su indici precisi, ricavabili dalle modalità dell'assunzione delle dichiarazioni ed esplicitati nella motivazione, da cui emerga la probabilità che l'escussione in giudizio con l'esame incrociato comunque non muterebbe il tenore delle affermazioni.

I poteri previsti dall'art. 421 bis (ordine al pubblico ministero di compiere ulteriori atti di indagine) e dall'art. 422 c.p.p. (assunzione d'ufficio di mezzi di prova nella stessa udienza preliminare) vanno utilizzati esclusivamente ai fini della duplice valutazione prognostica di cui si è detto. Essi possono servire a comprendere se le investigazioni siano ancora perfezionabili o no, oppure se gli elementi acquisiti resisterebbero al vaglio dibattimentale. Non devono diventare degli strumenti volti ad anticipare le attività istruttorie che sono proprie del giudizio.

 

4. Nel caso in esame, il giudice dell'udienza preliminare (p. 48 s. della decisione) ha ritenuto che dal complesso del materiale reperito nel corso delle indagini e dalle integrazioni compiute in forza dell'art. 422 c.p.p. fosse emersa la prova dell'innocenza degli imputati in rapporto ad un'accusa di appropriazione indebita a danno della società. Il denaro sociale sarebbe stato impiegato per scopi che, anche se illeciti, potevano essere ricondotti all'interesse della società, non integrandosi pertanto il requisito dell'ingiusto profitto personale richiesto dalla fattispecie prevista dall'art. 646 c.p. (cfr. Cass., Sez. IV, 21 gennaio 1998, n. 1245).

La Corte di cassazione (p. 53 s. della decisione) conferma la sentenza di non luogo a procedere sulla base del rilievo che, considerati «i penetranti poteri di integrazione probatoria» riconosciuti al giudice dall'art. 422 c.p.p., la decisione adottata ai sensi dell'art. 425 c.p.p. non possiederebbe «una struttura logica realmente diversa dalla decisione dibattimentale». In concreto il giudice dell'udienza preliminare, che aveva a sua disposizione un'enorme mole di materiale conoscitivo, avrebbe svolto una verifica approfondita ed argomentata delle fonti di prova, giungendo ad una conclusione che non sarebbe stato possibile confutare in dibattimento.

 

5. Sullo sfondo della decisione della Corte di Cassazione c'è un fenomeno degenerativo che, sempre più spesso, contraddistingue i processi di grande impatto mediatico come quello in oggetto: il fenomeno per cui l'udienza preliminare perde la sua originaria funzione di delibazione dell'accusa e si trasforma in un dibattimento anticipato.

Non è compito del giudice di legittimità contrastarlo, nella misura in cui non si traduca in una delle violazioni denunciabili in base all'art. 606 c.p.p.

Come si accennava, tuttavia, la sentenza di non luogo a procedere in questione un vizio, nel suo sia pure ricco apparato giustificativo, lo presenta.

Essa non appare censurabile per quello che dice: ne emerge senz'altro un vaglio rigoroso della convergenza degli elementi raccolti nella direzione dell'insussistenza dell'appropriazione indebita.

La sentenza di cui si tratta appare criticabile per quello che omette. In rapporto alla prognosi sull'utilità del dibattimento, il giudice dell'udienza preliminare (p. 50 della decisione) si limita ad un'affermazione generica, secondo la quale sarebbe «altamente prevedibile», «anche nell'eventuale prosieguo istruttorio della fase dibattimentale, una soluzione favorevole agli imputati»: gli elementi raccolti - «peraltro in lunghissime fasi di indagini durate quattro anni, con approfondimenti anche nel corso della integrazione probatoria pervenuta in udienza ex art. 422 c.p.p.» determinerebbero «prospettive ampiamente liberatorie». Non una sola parola è spesa per precisare le ragioni per cui le numerose dichiarazioni raccolte non sarebbero cambiate se i dichiaranti fossero stati escussi in giudizio con l'esame incrociato.

È plausibile che queste ragioni, nel caso specifico, ci fossero. Ma la mancanza della motivazione al riguardo rende la sentenza - ineccepibile quanto alla determinazione del peso probatorio degli elementi raccolti - non controllabile e, quindi, carente sotto il profilo della prognosi richiesta dall'art. 425 c.p.p.

Certo, ponendosi in una visione più generale, verrebbe da chiedersi a che cosa potrebbe servire la celebrazione di un dibattimento in seguito ad indagini preliminari così lunghe e penetranti. In una prospettiva di riforma legislativa, vicende processuali di questo tipo rafforzano la convinzione che sarebbe auspicabile sopprimere una volta per tutte l'udienza preliminare, al fine di avvicinarsi ad uno degli ideali accusatori da cui il nostro sistema è, al momento, ancora piuttosto lontano: un contraddittorio dibattimentale che si svolga ad un tempo ragionevole dalla commissione del fatto.