ISSN 2039-1676


04 settembre 2012 |

La VI sezione civile della Cassazione torna sul tema della protezione internazionale per orientamento sessuale

Cass., VI sez. civ., 18.04.2012 (dep. 10.05.2012) n. 11586 - Pres. Salmé, Rel. De Chiara - X c. Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Gorizia, Ministero dell'Interno et al.

1. La sentenza della Corte di Cassazione n. 11586 del 10.07.2012 rappresenta l'occasione per fare il punto sul tema della protezione internazionale per orientamento sessuale, cioé la concessione dello stato di rifugiato, in Italia, a favore di stranieri perseguitati nel loro paese d'origine a motivo della loro omosessualità.

Il tema è stato oggetto nel 2011 di un'interessante ricerca, intitolata «Fleeing Homophobia», condotta da alcune associazioni che si occupano di diritti delle persone LGBT, tra le quali l'italiana Avvocatura per i diritti LGBT - Rete Lenford (v. Jansen, Spijkerboer, Fleeing Homophobia. In fuga dall'omofobia: domande di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere in Europa, 2011). La ricerca ha messo in luce alcuni aspetti della questione affrontata dalla Cassazione: può uno straniero trovare protezione in quanto omosessuale? Quali sono le condizioni alle quali l'interessato può accedere a tale protezione, specialmente in termini di credibilità e onere della prova?

Di questi due quesiti si occupa tangenzialmente la pronuncia citata.

 

2. I fatti di causa si possono così riassumere.

Alla fine del 2007 un cittadino tunisino immigrato in Italia riceve un ordine di espulsione da parte del Prefetto di Trieste, perché ritenuto persona socialmente pericolosa. Impugnato il decreto, il ricorrente vince in Tribunale (sent. 22-28.02.2008, ined.) perché l'art. 19.1 T.U. immigr. (D.Lgs. 25.07.1998, n. 286) vieta l'espulsione dello straniero «verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per [...] ragioni personali o sociali», e lui si dichiara omosessuale e cristiano, doppia ragione di persecuzione del suo Paese. L'art. 230 del codice penale tunisino, infatti, punisce la «sodomie» con tre anni di carcere e la conversione a una fede diversa dall'Islam, religione di Stato, è di fatto condannata.

La pronuncia di accoglimento interviene all'esito di un'istruttoria volta ad accertare l'omosessualità del ricorrente. Il giudice acquisisce testimonianze di connazionali amici del ricorrente stesso e di una psicologa che l'aveva seguito in carcere; inoltre, viene acquisito agli atti un fascicolo penale a carico del ricorrente, dal quale si evinceva che il reato ivi contestato era stato commesso in occasione di un incontro con persona dello stesso sesso, finalizzato alla consumazione di un rapporto sessuale.

Alla luce di questi elementi, il giudice ritiene provata l'omosessualità del ricorrente che, in quanto condizione personale di tutela alla luce dei principi costituzionali del nostro Paese rappresenta motivo di protezione internazionale ai sensi del citato art. 19, co. 1, T.u. immigr. Sulla sentenza si formava giudicato, non essendo stata promossa impugnazione.

Nondimeno, la domanda di protezione internazionale avanzata dallo stesso tunisino dinanzi alla Commissione territoriale di Gorizia non trovava accoglimento, avendo la Commissione ritenuto non dimostrata né la sua omosessualità né l'avvenuta conversione al cristianesimo. Successivamente, il Tribunale di Trieste rigettava l'impugnazione proposta dal ricorrente, a motivo dei suoi precedenti penali, ma accoglieva la domanda subordinata presentata dallo stesso in relazione alla persecuzione in quanto gay e cristiano, autorizzando così il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Con sentenza del 12.04-9.05.2011, la Corte d'appello di Trieste riformava completamente la sentenza di primo grado, considerando di nuovo non provata l'asserita omosessualità e l'adesione al cristianesimo.

La Cassazione ora annulla con rinvio la pronuncia della Corte d'appello, affermando che la sentenza del Tribunale di Trieste del 2008, la quale ha accertato «il diritto del ricorrente a non essere espulso dal territorio nazionale», ha ormai assorbito ogni altra questione, essendosi formato il giudicato sull'esistenza di ragioni ostative dell'espulsione, con conseguente diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

 

3. La prima questione degna di interesse è come l'omosessualità può costituire una causa di persecuzione ai fini della protezione internazionale.

Essa non è infatti indicata nel ricordato art. 19.1 T.U. immigr. Nondimeno, si tratta di una «catch-all provision», contenente un elenco che deve essere interpretato in maniera dinamica, alla luce dell'evoluzione della società, e che quindi non può essere inteso come esaustivo. In particolare, nell'espressione «ragioni personali o sociali» può indubbiamente essere inserita la condizione di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. In almeno 76 Paesi del mondo l'omosessualità è punita con pene severe, in 7 con la pena di morte.

La criminalizzazione dei rapporti tra persone dello stesso sesso è certamente una manifestazione del fatto che, in quello Stato, le persone omosessuali sono oggetto di persecuzione. Non occorre che le norme in parola siano effettivamente applicate oppure no: è sufficiente che esse siano semplicemente suscettibili di applicazione.

Difatti, come chiarisce l'Agenzia dell'ONU per i rifugiati in tema di valutazione delle domande di protezione avanzate da persone omosessuali e transessuali, «una legge può essere persecutoria di per sé quando riflette norme sociali o culturali irrispettose dello standard internazionale dei diritti umani» (UNHCR, Guidance Note on Refugee Claims relating to Sexual Orientation and Gender Identity, Ginevra, 21 novembre 2008). Il concetto di «persecuzione», quindi, anche per quanto riguarda la nostra legge interna, deve rifarsi non (sol)tanto all'effettiva esecuzione di misure sproporzionate o arbitrarie rispetto al delitto considerato, ma anche e soprattutto alla presenza di pregiudizi normativamente sanzionati (c.d. «omo/transfobia istituzionale», sulla quale v. Lingiardi, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, Milano, 2007, 46).

Tale approccio è inoltre conforme al dato normativo attuale. Infatti, la Direttiva del 13-12-2011, n. 95/2011/UE (che sostituisce la precedente Direttiva del 29-4-2004, n. 2004/83, attuata in Italia con D.Lgs. 19-11-2007, n. 251), dopo aver chiarito che «[p]er la definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere debito conto [...] l'identità di genere e l'orientamento sessuale, che possono essere legati a determinate tradizioni giuridiche e consuetudini» (cons. 30), stabilisce che «[i]n funzione delle circostanze nel paese d'origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell'orientamento sessuale».

Al riguardo, per quanto qui interessa deve ritenersi nettamente superata, sui piani sia normativo sia giurisprudenziale, la pronuncia della Cassazione del 14.04.2007, n. 16417 (in Dir. fam., 2008, 55, nota Negro; in Guida dir., 2007, 34, 49; in Nuova giur. civ. comm., 2008, 271, nota Pizzorno), che aveva distinto tra norme penali che incriminano «l'ostentazione delle pratiche omosessuali non conformi al sentimento religioso pubblico» da un lato, e norme penali che puniscono l'omosessualità in quanto tale dall'altro, rilevando la possibilità di assicurare protezione solo nel secondo caso.

Si fa oggi giustizia di questa distinzione inconsistente. Anzitutto, non esiste una legge che punisce l'essere omosessuali di per sé. Esistono invece norme incriminatrici di condotte sessuali derivanti dal fatto di essere omosessuali, le quali incidono direttamente sull'esercizio di un diritto individuale, precisamente quello al rispetto della vita privata, ponendo le persone di fronte a un bivio: «[o] rispettano la legge e si astengono dal dare corso, anche in privato e con adulti consenzienti, ad atti sessuali proibiti verso i quali esse sono disposte in ragione delle loro tendenze [sic] omosessuali, ovvero commettono tali atti e diventano così passibili di sanzione penale» (Corte eur. dir. um., 22.10.1981, Dudgeon c. Regno Unito, in Foro it., 1982, 177, § 41).

Inoltre, è evidente che «quando la condotta omosessuale viene sanzionata penalmente, questa dichiarazione di per se stessa è un invito ad assoggettare le persone omosessuali a discriminazione sia nell'ambito pubblico sia in quello privato» (Corte suprema USA, Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558, 575). Per queste ragioni, trattandosi di leggi i cui effetti «collaterali» vanno ben al di là della semplice condotta, la distinzione adombrata in passato dalla Cassazione non ha ragion d'essere e deve considerarsi oggi completamente superata. Ciò è del resto in linea con la giurisprudenza maggioritaria delle commissioni territoriali, per la quale la criminalizzazione è qualificata già di per sé come una limitazione all'esercizio di un diritto umano, e dunque come persecuzione.

 

4.  La seconda questione che qui interessa approfondire è data dalla valutazione della credibilità del richiedente protezione internazionale. Come si dimostra di essere omosessuali? Il quesito è tutt'altro che irrilevante (cfr. Jansen, Spijkerboer, Op. cit., 49-66), dal momento che l'orientamento sessuale è una caratteristica invisibile o comunque suscettibile di essere tenuta nascosta. Essa potrebbe pertanto essere usata per ottenere una protezione in realtà ingiustificata.

A tale proposito, nella già citata pronuncia n. 16417/2007 la Cassazione aveva precisato che «occorre dare la dimostrazione di una omosessualità dichiarata, la quale pure potrebbe provarsi con il ricorso alla prova orale». Questa statuizione concede agli organi preposti - vale a dire ai giudici, ma anche alle commissioni territoriali - una discrezionalità pressoché totale in relazione a elementi che in realtà esprimono a loro volta stereotipi diffusi sulle persone omosessuali.

Si pensi al fatto che un ricorrente risulti sposato con una persona di sesso diverso o abbia figli nel Paese d'origine, elemento tutt'altro che indicativo dell'eterosessualità del richiedente rifugio (così UNHCR, Guidance Note, cit., § 36). Al riguardo, basti osservare che il problema non ruota solo attorno al ricorrente, ma coinvolge soprattutto il giudicante, organo tutt'altro che scevro da sentimenti negativi inconsci (c.d. «aversive prejudice»), in primo luogo la paura di un flusso eccessivo di stranieri, o di immigrati omosessuali, come dimostra l'uso recente del test fallometrico in certi Paesi europei (reazioni fisiche a immagini pornografiche).

Se i giudici, in quanto esseri umani, soffrono di tale condizione, ciò vale ancor di più per le commissioni territoriali, oberate di lavoro (40 persone sull'intero territorio nazionale sono chiamate ad affrontare 31.000 domande di asilo, dati del 2009 alla mano!) e spesso poco propense a valutare a fondo la «storia» personale del richiedente. Anzi, il giudice americano Richard A. Posner ci ricorda che i giudici dell'immigrazione sono «arbitrari, irrazionali, pieni di contraddizioni e disinformati» (v. Cox, Deference, Delegation and Immigration Law, in 74 Univ. Chicago Law Rev., 2007, 1671, 1679).

Qui, allora, più che un problema di diritto, si pone un problema di traduzione di esperienze sul piano cognitivo, che richiede indubbiamente un'approfondita preparazione degli uffici preposti, anche attraverso adeguati corsi di formazione (come del resto raccomanda la stessa UNHCR, Guidande Note, cit., § 37).

In un certo senso, la semplice esistenza di norme incriminatrici di rapporti tra persone dello stesso sesso nello Stato d'origine dovrebbe rappresentare un correttivo a questa situazione, ma essa può non valere in tutti i casi, ad esempio se le leggi in questione sono state abrogate e nondimeno perdura una situazione di violenza diffusa nei confronti di gay e lesbiche, oppure se si sono verificati episodi di discriminazione. La preparazione dell'organo giudicante, sia esso amministrativo o giudiziario, è quindi a maggior ragione essenziale.

 

5. A restare del tutto fuori dal caso è l'altra questione, anch'essa interessante, della discrezione delle persone nel vivere la loro omosessualità. L'argomento principe usato a tal riguardo è che gay e lesbiche potrebbero agevolmente sottrarsi alla persecuzione negando la loro omosessualità ed adeguandosi a comportamenti tipicamente eterosessuali (atteggiamento denominato in letteratura «passing» o «disidentificazione», sul quale v. per tutti Yoshino, Covering. The Hidden Assault On Our Civil Rights, New York, 2006, 49-73).

Non è questa la sede per entrare nel dettaglio del diritto al coming out (per una trattazione completa v. la nostra nota in Corr. giur., 2011, 1375). Appare qui tuttavia sufficiente evidenziare che la questione non è se si possa o meno celare il proprio orientamento sessuale, bensì perché si dovrebbe imporre a qualcuno di farlo. Vista da questa angolatura, la disciplina della protezione internazionale rappresenta lo strumento attraverso il quale si riconosce alle persone di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale senza temere di patire un danno in virtù di una loro caratteristica personale. Del resto, in questo ambito la protezione non esprime solo una necessità di giustizia, ma rivela altresì un'esigenza di uguaglianza, perché ciò che si chiede per l'orientamento sessuale, a ben riflettere, non lo si chiede per altre caratteristiche come le opinioni politiche e la religione, che sono sì modificabili da parte dell'interessato, ma vengono nondimeno tutelate in modo pieno.

 

6. Degna di nota nella sentenza in commento è, infine, l'astratta unificazione dei procedimenti riguardanti immigrati omosessuali. Troviamo anzitutto il procedimento (amministrativo) di espulsione, il quale può dar luogo a un'opposizione da parte dell'intimato in virtù del ricordato art. 19.1 T.U. immigr., che vieta l'espulsione (o il respingimento alla frontiera) per ragioni di persecuzione; in secondo luogo abbiamo il procedimento (penale) per permanenza illegale nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine di espulsione (art. 14.5-ter T.U. immigr.); infine, vi è il procedimento (amministrativo) di protezione internazionale, che coinvolge le commissioni territoriali ed eventualmente l'autorità giudiziaria (D.Lgs. 28-01-2008, n. 25).

Nella sentenza in epigrafe i tre procedimenti, diversi per natura e finalità, si uniscono in un'unica considerazione: la prevalenza, nei confronti degli altri, del giudicato rilasciato in uno di essi. Ove venga accertato in via definitiva che un immigrato è meritevole di protezione o non suscettibile di espulsione perché omosessuale, gli organi dello Stato sembrano doversi piegare a tale determinazione.

In ciò forse risiede l'autentica novità di questa pronuncia: la riscoperta di una rinnovata armonia dell'ordinamento nello spirito della protezione internazionale degli stranieri che soffrono persecuzioni e discriminazioni in ragione del loro orientamento sessuale nel loro Paese, e sperano di trovare un rifugio sicuro nel nostro.