ISSN 2039-1676


09 ottobre 2012 |

La decisione della High Court inglese nel caso Nicklinson: confermata l'illiceità  dell'eutanasia attiva

High Court of England and Wales, Tony Nicklinson v. Ministry of Justice, [2012] EWHC 2381 (Admin)

 

Lo scorso aprile questa Rivista aveva pubblicato la decisione preliminare di ammissibilità della High Court of England and Wales relativa al  ricorso di Tony Nicklinson (affetto dalla sindrome locked-in, o "sindrome del chiavistello", a causa della quale viveva paralizzato dal collo in giù, benchè in stato di coscienza), finalizzato ad ottenere dalla medesima corte una pronuncia che riconoscesse la liceità, a determinate condizioni, dell'eutanasia attiva.

Il 16 agosto 2012 la High Court ha emesso l'attesa sentenza di merito, decidendo il caso Nicklinson v. Ministry of Justice congiuntamente al caso AM v. Director of Public Prosecutions. Mentre il primo riguarda l'eutanasia attiva, il secondo concerne l'assistenza al suicidio.

Le principali questioni affrontate dalla pronuncia sono le seguenti.

a) E' applicabile lo stato di necessità (necessity defence) all'ipotesi di eutanasia attiva?

b) La criminalizzazione dell'eutanasia attiva è in contrasto con il diritto alla vita privata sancito dall'art. 8 CEDU?

c) Il Director of Public Prosecutions (DPP) è tenuto a chiarire la sua policy riguardo all'esercizio dell'azione penale nei confronti di chi ha assistito taluno nel suicidio?

La High Court ha dato risposta negativa a tutti e tre i quesiti. Ecco in sintesi le sue ragioni.

a) Alla richiesta di Tony Nicklinson di riconoscere l'operatività della scriminante della necessity nei casi di eutanasia attiva si oppone l'univoca posizione del diritto penale inglese, attentamente ricostruita in un recente report della Law Commission. Alla luce del diritto vigente, l'eutanasia attiva integra il reato di murder. Né è dato rinvenire in giurisprudenza alcuna pronuncia che ammetta la necessity defence in queste ipotesi.

Considerate la chiarezza dello stato dell'arte e la delicatezza della questione, il principio democratico impone che solo il parlamento possa modificare il diritto vigente. Questa conclusione è tanto più inevitabile se si considera che permettere l'eutanasia attiva richiederebbe un intervento normativo incisivo, in particolare sul fronte della protezione del paziente da eventuali abusi, che non potrebbe essere affidato alla sola giurisprudenza, ma necessariamente richiederebbe un'assunzione di responsabilità da parte del legislatore.

E' vero che la giurisprudenza ha riconosciuto nel 2000, nel caso Re A, la necessity defence in deroga a un orientamento consolidato che negava in linea di principio l'applicabilità di tale scriminante nel reato di murder, autorizzando i medici a praticare la separazione chirurgica di due gemelle siamesi, una delle quali destinata a essere sacrificata per assicurare la sopravvivenza dell'altra; ma in quell'occasione - sottolinea ora la High Court - si trattava per l'appunto di decidere in via urgente un caso del tutto peculiare, ben diverso dalle ipotesi di eutanasia attiva rispetto alle quali si invoca ora un intervento innovativo della giurisprudenza.

b) Se l'eutanasia attiva integra nel diritto inglese il reato di murder, resta però da valutare se tale soluzione sia armonizzabile con il diritto alla vita privata riconosciuto dall'art. 8 CEDU

La High Court rileva che la giurisprudenza della Corte europea non supporta la tesi, sostenuta dal ricorrente, del contrasto tra diritto inglese e art. 8 CEDU. I giudici inglesi si richiamano, sul punto, alla sentenza Pretty v. UK, ritenendo che gli argomenti in quella sede sviluppati, pur riferendosi ad un caso di assistenza al suicidio, valgano a fortiori nel contesto dell'eutanasia attiva. La Corte EDU aveva in quell'occasione affermato che, sebbene la criminalizzazione dell'assistenza al suicidio interferisca con il diritto alla vita privata sancito dall'art. 8, comma primo, CEDU, essa è conforme ai requisiti di legittimità posti dal comma secondo del medesimo articolo. In particolare, una norma penale che senza eccezione alcuna punisce l'assistenza al suicidio può essere legittimamente adottata da uno Stato parte, laddove esso la consideri necessaria a proteggere i soggetti vulnerabili da eventuali abusi. In altre parole, rientra nel margine di apprezzamento dello Stato parte valutare gli effetti negativi che un'eventuale mitigazione del divieto penale comporterebbe, e conformare il proprio diritto interno in base a tale valutazione.

c) La terza questione concerne la certezza del diritto penale inglese in tema di assistenza al suicidio. Nella decisione del caso Sunday Times v UK, la Corte EDU ha affermato che il diritto deve consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente le conseguenze giuridiche delle proprie azioni. Su impulso del ricorrente AM, la High Court valuta se questo requisito sia soddisfatto in relazione alle condotte di assistenza al suicidio.

A ben vedere, una possibile incertezza in materia non deriva affatto dalle norme di fonte parlamentare. Queste sono sufficientemente chiare nel criminalizzare l'assistenza al suicidio (si veda, in particolare, l'art. 2(1) del Suicide Act 1961). Un'incertezza potrebbe semmai sussistere riguardo ai criteri che il Director of Public Prosecutions potrebbe adottare ai fini della decisione se esercitare o no l'azione penale nei confronti di chi ha violato dette norme.

Decidendo il caso Purdy v DPP, la House of Lords aveva ordinato al DPP di esplicitare la propria policy in merito al reato in esame. Nel febbraio 2010 veniva così pubblicata dal DPP una lista di fattori da considerare nel decidere sull'esercizio dell'azione penale (le linee guida possono essere consultate sul sito del Crown Prosecution Service).

Ora, per quanto le norme di fonte parlamentare siano chiare, la discrezionalità dell'esercizio dell'azione penale e l'enucleazione di criteri sottesi a tale esercizio possono senz'altro influenzare la ragionevole prevedibilità della risposta ordinamentale. La questione alla quale la High Court ha dovuto dare risposta è dunque se la policy adottata dal DPP sia sufficientemente chiara da garantire detta prevedibilità, con particolare riguardo ai c.d. class 2 helpers, e cioè agli individui senza un legame di famiglia o di amicizia con il malato, ma disposti in modo disinteressato ad aiutarlo a morire. Tra di essi potrebbe facilmente rientrare il personale medico.

La Corte afferma qui che il DPP non è tenuto a predeterminare in modo puntuale i casi che saranno immuni dall'azione penale, perché una simile dichiarazione finirebbe per realizzare un'illegittima sovrapposizione tra il ruolo del pubblico ministero a quello del legislatore. D'altra parte, la lista di criteri stilata dal DPP in ottemperanza alla decisione nel caso Purdy è ritenuta sufficiente allo scopo di garantire ai cittadini la ragionevole prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni. Infatti, la lista mette adeguatamente sull'avviso i class 2 helpers, rammentando loro che se decidono di assistere taluno nel suicidio corrono un "real risk of prosecution".

 

Tony Nicklinson è morto il 22 agosto, pochi giorni dopo aver appreso l'esito negativo del suo ricorso. 

 

Per accedere al testo della sentenza della High Court of England and Wales, clicca sotto su "download documento".

Di seguito, alcuni link per saperne di più sulla vicenda e approfondirne alcuni aspetti:

- rassegna di articoli pubblicati su The Guardian (in inglese)

- "paralizzato, il no dei giudici all'eutanasia", video da Corriere TV

- le linee guida del Crown Prosecution Service per decidere se perseguire o meno i casi di suicidio assistito (in inglese)

- intervento della prof. Emily Jackson (London School of Economics) sul tema del "Right to die" (in inglese)