ISSN 2039-1676


14 gennaio 2013 |

A proposito del volume di E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell'Italia repubblicana, Laterza, 2012, pp. 1-170

Recensione

1. Lo studio di Elisabetta Lamarque - pur iscrivendosi in un orizzonte ben più ampio e spingendosi alle radici istituzionali dei temi affrontati - si presenta denso di suggestioni e spunti anche nella prospettiva penalistica, che, del resto, da sempre si misura con il ruolo protagonistico della Corte costituzionale, e con il fertilissimo dialogo che questa ha intessuto con i giudici "comuni": un dialogo - è noto - che è stato epìtesi di interventi chirurgici ampiamente demolitivi, e che unitamente a questi - nell'attesa di una riforma organica mai giunta a destinazione - ha permesso la stessa sopravvivenza del codice Rocco e la sua coabitazione con la Carta democratica, facendo filtrare le diverse istanze garantistiche da questa declinabili nell'ordito di disposizioni ad esse riottose, e fortemente influenzate dalla originaria matrice ideologica.  

Di qui l'importanza, anche per il penalista, della ricerca e degli interrogativi cui le riflessioni dell'Autrice, ricche e documentate, cercano di dare risposta, risalendo alle origini dell'introduzione del controllo accentrato di costituzionalità delle leggi ed alla istituzione di un giudice ad esso preposto, per misurare tempi e cadenze del rapporto con i giudici "comuni", rapporto che proprio in campo penale - del resto - ha conosciuto modulazioni peculiari, variazioni e cesure anche radicali, e riprese altrettanto significative.

 

2. Per ripercorrere i tracciati di queste relazioni, per indagarne i nessi e per scrutarne la direzione di senso, l'Autrice sceglie appunto di muovere dalla genesi della Corte costituzionale - dal cosa non'era e cosa non si voleva che fosse la Corte nel progetto originario -, ripercorrendo il travaglio che l'ha accompagnata in seno all'Assemblea costituente, e la scelta di campo istituzionale in chiara polemica con l'opposto modello (nordamericano) del judicial review.

Una tale opzione, secondo Lamarque, non fu generata dalla convinzione che quel modello potesse rivelarsi poco efficace ma fu sollecitata dall'opposto intento di prevenire una tendenza che già allora registrava incipienti ed inquietanti esperienze di diffuso "governo dei giudici" (come recitava il titolo di un saggio coevo di E. Lambert, dedicato appunto all'esperienza nordamericana) e di "flessibilizzazione" dell'obbligatorietà della legge, rischio che appariva ben più allarmante al cospetto di autorità giudicanti nominate sotto il cessato regime autoritario, e che appunto si intendeva cauterizzare centralizzando il controllo su un "organo nuovissimo" e non collocato all'interno dell'ordinamento giudiziario tradizionale, che avrebbe garantito la superiorità della nuova Costituzione sulla legislazione ordinaria senza rafforzare il potere dei giudici: potere che del resto si voleva ancora conservare sotto la tabe culturale montesquieviana della scrupolosa osservanza della legge e dell'esegesi, e non già "scatenare" affidandogli l'interpretazione di norme dense di programmaticità e di politicità come quelle costituzionali (pp. 8 ss.).

Sebbene dunque, come si evidenzia nel primo capitolo, il rapporto genetico tra Corte e giudici sembrasse quello di "fratelli di sangue separati dalla nascita", e non fosse improntato ad una deliberata "collaborazione istituzionale", sarebbero presto emersi tratti di analogia sempre più vistosi, e le connessioni funzionali, pur poliedriche e polimorfe, che il legislatore costituente -  volutamente o meno - aveva comunque instaurato, a partire dal ruolo deuteragonistico affidato al giudice comune quale "portiere" del giudizio incidentale, e custode del vaglio di non manifesta infondatezza e di rilevanza nel giudizio a quo.

Proprio tali analogie e connessioni, nel corso degli anni, si sarebbero via via disvelate ed amplificate, lasciando emergere una interdipendenza reciproca che sarebbe poi evoluta in condivisione fraterna dei medesimi obiettivi (p. 29), sino a polarizzarsi su di un nucleo che, nell'indagine dell'Autrice, rappresenta ad un tempo il filo conduttore e la tesi di fondo dell'indagine: il dato, cioè, che Corte costituzionale ed autorità giudiziaria "comune" - ivi compresa anche la Corte di cassazione - siano venute a costituire, in realtà, "un unico grande potere giudiziario, all'interno del quale esse ora si distinguono [...] "soltanto per diversità di funzioni" (art. 107, terzo comma, Cost.)" (p. 28); archi di volta - insomma - tendenzialmente convergenti nel sorreggere l'architettura del sistema italiano di giustizia costituzionale.

 

3. Certo vi è voluto tempo perché si guardasse a Corte e giudici in una prospettiva unitaria, perché l'originario dualismo - spesso rivendicato dagli stessi protagonisti - si ricomponesse, e per far sì che la stessa Consulta si convincesse di una natura che, osservata ab externo, pur appariva da anni indiscussa: un tempo protrattosi a lungo, se si pensa che solo alla metà degli anni '80 la Cassazione civile giunge a riconoscere alle decisioni costituzionali la qualifica di "atti giurisdizionali"; che solamente nel 2008 la Corte - dopo essersi a lungo rifiutata di farlo - riconosce a se stessa la possibilità di sollevare questione pregiudiziale di interpretazione e validità davanti alla corte di giustizia UE [affermando la propria "(...) natura di giudice e, in particolare, di giudice di unica istanza, e quindi (...) giurisdizione nazionale ai sensi dell'art. 267, terzo paragrafo, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea": ordinanze n. 102 e 103 del 2008]; e che solo in quello stesso torno di tempo essa si sottopone espressamente - al pari di tutti i giudici - all'obbligo di interpretazione conforme alla CEDU ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sentenze nn. 348 e 349 del 2007).

Ed un tempo altrettanto lungo è servito affinché gli impulsi generati dalle diverse polarità del sistema si sintonizzassero su frequenze condivise, superando la paratìa stilizzata - in termini di assoluta separazione e distinzione - nella celebre formula offerta dal suo primo Presidente, Enrico De Nicola, lo stesso giorno dell'udienza inaugurale della Corte (il 23 aprile 1956): "la Corte, vestale della Costituzione; la Magistratura, vestale della legge".  

Un percorso - è ben noto - tortuoso ed a tratti travagliato (non privo di autentiche "guerre tra Corti"), dalla cui attenta disamina, in ogni caso, emerge come nonostante cesure e intermittenze i due elementi dell'"orchestra" mai abbiano potuto pensare di operare l'uno senza l'altro, abituandosi piuttosto, nel tempo, non solo al reciproco confronto ed alla dialettica, ma anche alle divergenze, e dunque impegnandosi a sperimentare, volta a volta e quasi in corrispondenza biunivoca, strumenti di dialogo, di integrazione e di "ricomposizione dei conflitti": a partire dall'originale strumento delle pronunce "interpretative di rigetto", che - sgretolando la semplicistica ed ingenua alternativa accoglimento/rigetto ("secchi") tracciata dai Costituenti (e per molti confermata dalla l. n. 87 del 1953) - ha cominciato ad ampliare le possibilità operative della Corte, sollecitando la sua creatività ed il suo attivismo col garantire, anzitutto, una funzione di ausilio e guida interpretativa (funzione che, tuttavia, doveva far leva sulla condivisione da parte del giudice comune per ottenere il necessario seguito conforme delle proprie pronunce); per continuare con le diverse e audaci sperimentazioni che avrebbero presto fomentato una "lussureggiante casistica" di dispositivi atipici delle pronunce di accoglimento e di rigetto (sentenze di accoglimento parziale, interpretative di accoglimento, additive, sostitutive, o più in generale "manipolative", etc.); passando, ancora, per la tecnica dell'interpretazione conforme rimessa al giudice comune, metodo "prodigioso" capace di protagonizzare quest'ultimo nell'attuazione del dettato costituzionale (e persino nella sua "diretta applicazione", ove tecnicamente possibile, come pure suggerito al termine del celebre e burrascoso convegno dell'Associazione nazionale magistrati di Gardone, del 1965); sino alla "terra di mezzo" offerta dalla teorica del "diritto vivente", autentico - ed emblematico - "ponte concettuale"  funzionale a garantire le diverse attribuzioni funzionali, consentendone la convivenza nel condominio ermeneutico della "norma", e così cauterizzando il rischio di reciproche invasioni di campo (pp. 50-54).

 

4. All'interno del percorso in cui si è dipanata la storia del giudizio incidentale, peraltro, l'Autrice individua una precisa scansione temporale, individuando una fase iniziale molto estesa, protrattasi per quattro decenni (1956-1996), in cui i protagonisti del dialogo "vanno faticosamente alla ricerca di regole empiriche condivise per riempire le voragini lasciate dalle scarne previsioni positive sul funzionamento del sistema incidentale di controllo di costituzionalità"; ed una seconda fase, tutt'ora in corso, "nella quale si assiste all'applicazione e poi al consolidamento, non privo di alcuni importanti sviluppi, delle regole giurisprudenziali in tal modo elaborate" (p. 55), con in cima la regola - fissata nella celebre sentenza n. 356 del 1996 -  dell'inammissibilità per omesso esperimento del tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme da parte del giudice a quo (una regola che radica un assetto rovesciato rispetto a quello originario, e che sembra imporre - come sottolinea l'Autrice - "un'unica parola d'ordine: sia la legge che la Costituzione ai giudici, fin dove possibile, ed entrambe alla Corte costituzionale, ma esclusivamente dove i giudici non riescono ad arrivare": p. 89).

La sequenza non riflette, dunque, una scansione temporale arbitraria, ma rispecchia uno snodo culturale misurato alla luce di precisi indicatori: tra i quali, anzitutto, i differenti dispositivi delle sentenze del Giudice costituzionale, gli effetti che le stesse producono nel giudizio in cui è sorta la questione e al di fuori dello stesso, così come il grado di adesione - o di ribellione - da parte dei giudici comuni alle pronunce della Corte.

Ne risulta, in definitiva, un quadro composito ed articolato, in seno al quale la periodizzazione prescelta corrisponde, secondo Lamarque, ad un singolare scambio di ruoli tra i due attori del sistema incidentale: "se nei quaranta anni iniziali è la Corte costituzionale che si trova il più delle volte a rincorrere i giudici, e cioè a ricercare con maggiore insistenza il loro appoggio, proponendo le soluzioni a loro più gradite e rimodulando le proprie offerte a seguito di non infrequenti rifiuti; nella seconda fase le parti si invertono, e sono invece i giudici a seguire la Corte, la quale non tanto scappa o si fa desiderare, quanto piuttosto prosegue fermamente per la strada già tracciata di comune accordo, aspettando semplicemente che i giudici le si accodino".

Sembra dunque sopirsi, a partire da questa seconda fase, l'atteggiamento polemico e contrastivo dei giudici comuni rispetto alle indicazioni della Corte (come dimostrano le sempre minori resistenze nei confronti delle sentenze di accoglimento manipolative, la loro crescente partecipazione nel sollecitarle, e la progressiva adesione pure alle sentenze "additive di principio"), forse anche in ragione di una loro corresponsabilizzazione sempre maggiore in sede di interpretazione conforme, che peraltro si accompagna alla dotazione di precipui ed originali strumenti: come quando si riconosce a taluni principi costituzionali "valenza ermeneutica", rimettendone l'applicazione - appunto - al singolo giudice, anche al prezzo di aprire varchi notevoli alla discrezionalità ed all'"uso giudiziario della Costituzione" [ed è quanto accaduto, come ben sanno i penalisti, sul fronte del principio di offensività - espressamente riconosciuto come "canone interpretativo universalmente accettato" (ex plurimis, sentenze n. 62 del 1986, n. 333 del 1991, n. 133 del 1992, n. 360 del 1995, n. 225 del 2008) - ma anche del principio di colpevolezza (sentenza n. 322 del 2007),  così come - seppur solo tra le righe - sul fronte del principio di proporzione: da ultimo, ordinanza n. 224 del 2011].

Alla base dell'armonia vi è dunque un nuovo riparto di ambiti e competenze, che ha peraltro una notevole incidenza sulle stesse tipologie decisorie della Corte: ne è prova il "mutamento di destinazione d'uso" che si registra al cospetto delle pronunce interpretative, ormai sempre più limitate ai casi di interpretazioni "innovative" o particolarmente "ardite" e "creative".

 

5. La capillare indagine dei tracciati giurisprudenziali in cui prende corpo il dialogo descrive insomma la raggiunta maturazione - alle soglie del nuovo millennio - di un approccio maggiormente collaborativo tra gli attori (Capitolo III, pp. 101 ss.), e schiude anche lo scenario in cui si iscrive l'esito della ricerca di Elisabetta Lamarque: la convinzione che i due protagonisti tendano ad avvicinarsi sempre di più, fino quasi a fondersi - lo si è accennato - in un unico, grande potere giudiziario; e che - dopo quarant'anni di "prove d'orchestra", sembra dunque a pieno regime il rapporto di "fratellanza, più che di colleganza" tra i due giudici, impegnati ormai in una danza che riflette - nella gustosa metafora utilizzata dall'Autrice - le movenze del "tango", ed in una collaborazione istituzionale che vede ormai la Corte coinvolta integralmente nel campo di competenze dei giudici ordinari, e questi pienamente coinvolti nella lettura ermeneutica della Carta, e nell'adeguamento interpretativo delle asimmetrie presenti nella legislazione ordinaria.

L'osmosi sembra quindi raggiunta, e con essa un equilibrio all'interno del quale le pronunce del giudice costituzionale tendono ad assicurare compiutezza ai rimedi a disposizione del giudice ordinario e - simmetricamente - le decisioni (e le interpretazioni) dell'autorità comune mirano a garantire alle sentenze della Consulta la massima effettività, sempre più frequentemente richiamandone le motivazioni non solo in sede di interpretazione conforme bensì anche a proposito di questioni o profili diversi dalla valutazione di conformità, o meno, della legge alla Costituzione (basti pensare, per limitarci alle Sezioni unite penali, alla pronuncia che ha ricompreso nel concetto di infermità ai fini del riconoscimento del vizio di mente anche i disturbi gravi della personalità: pp. 110 ss.).

E' difficile negare, in effetti, che la Corte costituzionale - in non poche circostanze - abbia dimostrato di fare "dottrina" e di fare "dogmatica", con pronunce che - in forza di una autorevolezza certo non solo formale - hanno visto propagare i propri effetti nei più diversi ambiti della teoria del reato, della pena e del processo penale.

Molti esempi offerti da Lamarque testimoniano, di fatto, questo "gioco di squadra", ed evidenziano il "passo a due" con cui Corte e giudici ormai fronteggiano gli altri due poteri dell'ordinamento repubblicano, anche al costo di scontri frontali sempre più vertiginosi (ce lo ricordano, inter alia, le tormentate vicende del "giusto processo", dove si è reso necessario attingere allo strumento delle revisione costituzionale - l. n. 2 del 1999, di modifica dell'art. 111 Cost. - per superare la posizione assunta dalla Corte costituzionale, sollecitata da oltre cento ordinanze di rimessione).

 

6. Certo questo rapporto di crescente collaborazione non è sempre lineare e levigato, e registra ancora perduranti incongruenze cui è dedicata la parte conclusiva dell'analisi, all'esito della quale l'Autrice - non a caso - prefigura un "finale aperto che non rassicura il lettore circa il modo in cui la relazione potrà evolversi" (pp. 127 ss.).

Anche la prospettiva penalistica, del resto, sembra confortare questa conclusione (necessariamente) provvisoria: da un lato, l'assetto perennemente insaturo del sistema delle fonti sovranazionali (in primis, la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali UE) nella "gerarchia" costituzionale promette (o minaccia) sempre di ampliare - bon gré mal gré - le possibilità operative in sede diffusa, rischiando dunque di far fibrillare un equilibrio reso già pericolante dai non infrequenti eccessi di "protagonismo interpretativo" da parte del giudice comune (basti pensare - una fra tutte - alla "spericolata" decisione della Cassazione sulla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in relazione al reato di violenza sessuale di gruppo: Cass., sez. III pen., 20 gennaio 2012, n. 4377); dall'altro, la rinnovata attualità dei conflitti di attribuzione sembra aprire un nuovo e più ampio varco in un ambito sino ad ora rimasto interstiziale, in cui il grado di collaborazione tra Corte e giudici comuni si dovrà presto misurare in vivo (si pensi, attualmente, alle drammatiche vicende dell'ILVA, ed al ricorso con cui il Procuratore della Repubblica di Taranto, in data 21 dicembre 2012, ha promosso il giudizio per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, in relazione all'emanazione del d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, recante "Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione in caso di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale").

Anche per i penalisti, dunque, lo studio di Elisabetta Lamarque sarà una guida preziosa per comprendere origini, svolgimenti e punti di fuga del prossimo futuro.