ISSN 2039-1676


07 maggio 2013 |

L'alimentazione forzata di detenuti in sciopero della fame al vaglio della Corte di Strasburgo

C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 26 marzo 2013, Rappaz c. Svizzera

 

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1. Segnaliamo una decisione dello scorso 26 marzo, in cui la seconda sezione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo si è espressa a maggioranza sull'ammissibilità dell'alimentazione forzata di un detenuto in sciopero della fame, dichiarando inammissibile il ricorso perché manifestamente infondato.

Questi i fatti: il ricorrente, sig. Rappaz - detenuto per reati legati al traffico di stupefacenti - intraprende uno sciopero della fame per protestare contro la condanna ricevuta, ritenuta eccessivamente gravosa, e per chiedere la legalizzazione in Svizzera dell'utilizzo e della vendita della cannabis.

Le autorità, preso atto della serietà delle sue condizioni di salute, lo liberano, in un primo momento, per quindici giorni; rientrato in carcere, gli viene poi concessa la detenzione domiciliare, durante la quale cessa lo sciopero. Reincarcerato dopo alcune settimane, il sig. Rappaz riprende lo sciopero della fame e viene trasferito presso l'Ospedale Universitario di Ginevra. Redatte delle direttive anticipate nelle quali esprime il rifiuto di ricevere alcun tipo di nutrizione artificiale - anche in caso di perdita di conoscenza - il sig. Rappaz reitera le proprie richieste: essere ammesso alla sospensione della pena, alla detenzione domiciliare o alla semilibertà. I medici attestano la sua consapevolezza e capacità di comprendere i rischi (di morte o di danni permanenti) cui va incontro con il suo digiuno.

Il Tribunale Federale respinge una ennesima richiesta di liberazione del ricorrente, nella quale egli sosteneva che la propria condizione fosse assimilabile a quella di un detenuto a rischio di suicidio e perciò incompatibile con la detenzione in carcere.

Il Codice penale svizzero (art. 92) prevede che l'esistenza di "gravi motivi" renda possibile alle autorità interrompere l'esecuzione della pena; il Tribunale federale sottolinea tuttavia che - per salvaguardare "la credibilità della giustizia penale" - la liberazione dei detenuti deve essere effettuata solo nei casi in cui sia "strictement impossible" impedire in altro modo conseguenze irreversibili sul loro stato di salute. In questo caso, dunque, pur data per assodata la sussistenza di "gravi motivi", il Tribunale non ritiene necessaria l'interruzione della detenzione, data la "possibilità di tenere conto in altro modo [di tali motivi] nel quadro dell'esecuzione della pena". Per far fronte alla situazione, a parere del Tribunale, sarebbe stato infatti possibile procedere all'alimentazione forzata del detenuto.

La pratica della nutrizione forzata, ammette il Tribunale federale, costituisce un effettivo "attentato" alla libertà personale e di espressione del detenuto; ciononostante è giustificabile grazie ad una norma contenuta nella Costituzione federale svizzera, che legittima la restrizione dei diritti fondamentali anche al di fuori di qualsivoglia base legale nei casi di "pericolo grave, immediato e non altrimenti evitabile"[1].

Facendo seguito a questa sentenza del Tribunale Federale, le autorità amministrative ed il Tribunale cantonale impongono formalmente ai medici dell'ospedale in cui il sig. Rappaz è ricoverato di procedere all'alimentazione forzata (ricordando loro le conseguenze penali in caso di rifiuto). Questi, tuttavia, si rifiutano di effettuarla, per rispettare la scelta consapevole del paziente. Dopo una serie di ulteriori ricorsi respinti (e senza che l'alimentazione forzata sia mai stata eseguita), il sig. Rappaz pone fine al suo sciopero della fame, durato complessivamente centodieci giorni.

In relazione a questi fatti il ricorrente adisce la Corte lamentando la violazione degli artt. 2 e 3 Cedu da parte delle autorità svizzere.

Interessante, in primo luogo, la precisazione della Corte circa l'individuazione del diritto fondamentale rilevante nel caso di specie. La problematica presentata ai giudici potrebbe infatti essere letta anche sotto il profilo dell'art. 8 Cedu, con riguardo alla legittimità delle interferenze statali nel diritto all'autodeterminazione sul fine vita. Tuttavia la Corte ritiene che la motivazione per cui lo sciopero della fame era stato posto in essere (che non era "la volontà di porre fine ai suoi giorni" ma quella di "fare pressione sulle autorità nazionali per ottenere un cambio nella legislazione sugli stupefacenti e una riduzione di pena") non permetta di analizzare il caso come violazione del diritto del sig. Rappaz a decidere "in che modo ed in quale momento la sua vita dovesse finire", e dunque esclude la rilevanza dell'art. 8 Cedu.

Per quanto riguarda il merito dei ricorsi, il primo profilo riguarda la decisione delle autorità svizzere di non concedere l'interruzione della detenzione, nonostante lo sciopero della fame avesse portato il sig. Rappaz in condizioni cliniche molto gravi.

La Corte esclude, sul punto, la violazione dell'art. 2 Cedu. In via generale, i giudici di Strasburgo ricordano come dalla Convenzione non discenda necessariamente l'obbligo di liberare i detenuti per ragioni di salute, anche in caso di pericolo per la loro vita, pur restando fermo l'obbligo per lo Stato di rispettare i diritti e le libertà degli stessi (§ 50). Nello specifico caso dello sciopero della fame, la valutazione del comportamento delle autorità dipende dalle modalità con cui queste hanno esaminato e concretamente gestito la situazione (posto che, comunque, al detenuto devono essere messe a disposizione tutte le cure mediche disponibili per le persone in libertà) (§ 51). Nel caso di specie la Corte ritiene che le autorità abbiano agito in conformità con l'art. 2 Cedu, avendo seguito adeguatamente l'evolversi della situazione ed essendo intervenute con diverse misure finalizzate alla tutela della vita del ricorrente (liberazione e detenzione domiciliare per brevi periodi, ed in seguito ricovero in ospedale ed ingiunzione dell'alimentazione forzata).

L'aspetto relativo alla possibilità di nutrire coattivamente il detenuto viene affrontato dalla Corte sotto il profilo dell'art. 3 Cedu.

Sul punto, il ricorrente ritiene che l'alimentazione forzata - posta dalle autorità a fondamento del rifiuto di scarcerazione - sarebbe stata impraticabile sia de facto (per il rifiuto opposto dai medici curanti che intendevano attenersi alle direttive deontologiche dell'Académie Suisse del Sciences Médicales[2]), che de iure (per la mancanza di una idonea base legale nell'ordinamento svizzero).

Il ricorso è respinto anche sotto questo profilo: la (potenziale) alimentazione forzata del ricorrente avrebbe, secondo la Corte, rispettato le condizioni indicate dalla giurisprudenza di Strasburgo per la legittimità di tale pratica (in particolare, si vedano le sentenze 5 aprile 2005, Nevmerjitski c. Ucraina, ric. n. 54825/00 e 19 giugno 2007, Ciorap v. Moldova, ric. n. 12066/02[3]). Tre sono le condizioni individuate dalle sentenze citate: in primo luogo, che vi sia una accertata "necessità medica" di procedere all'intervento; in secondo luogo che vi siano garanzie "procedurali" adeguate; infine, che le modalità di esecuzione non rendano il trattamento definibile come "tortura" ai sensi dell'art. 3 Cedu[4].

Nel caso di specie, a parere della Corte, il primo requisito è soddisfatto perché l'alimentazione forzata è stata disposta solo quando le condizioni del ricorrente - medicalmente accertate - erano diventate molto serie. Anche le "garanzie procedurali" sono state rispettate, dato che l'ingiunzione di procedere alla nutrizione coatta - proveniente da un'autorità amministrativa e confermata da un'autorità giudiziaria - si fondava su una pronuncia del Tribunale Federale in cui il caso era stato analizzato approfonditamente. Il ricorrente, inoltre, era stato debitamente rappresentato nei procedimenti, svoltisi in contraddittorio, che avevano portato alla decisione.

E' sotto il profilo delle garanzie procedurali che viene affrontato anche il problema dell'idoneità dell'art. 36 Cost.  federale svizzera a fungere da base legale per limitare i diritti fondamentali dell'individuo: la Corte, rifacendosi ad una propria precedente decisione[5], ritiene soddisfatti dalla norma costituzionale i requisiti di prevedibilità, chiarezza e proporzionalità necessari.

Quanto all'esistenza di linee guida ("directives médico-éthiques") contrarie alla pratica della nutrizione forzata, la Corte, pur riconoscendo che esse si collocano "nel contesto di un movimento internazionale[6] che raccomanda il rispetto da parte dei medici della volontà chiaramente espressa da un detenuto in sciopero della fame, quali che siano le conseguenze sul suo stato di salute", sottolinea che tali linee guida "non hanno forza di legge", e non sollevano dunque i medici dagli obblighi loro derivanti ex lege.

Il parametro, infine, relativo alle modalità esecutive della nutrizione non può in questo caso essere compiutamente accertato, dal momento che la nutrizione non si è effettivamente svolta; la Corte ritiene comunque non esservi alcun elemento, tra quelli a sua disposizione, che permetta di affermare che l'intervento avrebbe dato luogo a trattamenti di "tortura", contrastanti con l'art. 3 Cedu.

Il ricorso è dunque dichiarato manifestamente infondato anche sotto questo profilo[7].

 

2. Non è questa la sede per un commento alla decisione, che - pur ponendosi in continuità con la precedente giurisprudenza della Corte - presenta tuttavia evidenti profili di problematicità in relazione, quanto meno, al principio del rispetto dell'autodeterminazione terapeutica del paziente e della sua stessa inviolabilità fisica, protetti come tali non solo dall'art. 3 ma anche dall'art. 8 CEDU. Non è un caso, d'altronde, che le molte e autorevolissime fonti di soft law citate dalla Corte (v. nota 6 precedente) esprimano posizioni nettamente contrarie all'ammissibilità delle pratiche di alimentazione forzata dei detenuti, le quali - costituiscano o meno trattamenti 'inumani e degradanti' - certamente integrano altrettante interferenze con il diritto alla vita privata del detenuto ex art. 8 CEDU, la cui legittimazione non può essere data tout court per scontata come sembra fare la Corte.

Colpisce allora che la Corte, a fronte di una questione così complessa, abbia ritenuto di adottare una mera decisione di manifesta inammissibilità, che non consente in quanto tale né ai giudici dissenzienti di motivare il loro voto (restando ignoto persino chi tra i giudici abbia dissentito), né al ricorrente rimasto soccombente di chiedere il rinvio della questione alla Grande Camera ai sensi dell'art. 43 CEDU.

 


[1] L'art. 36 § 1 della Costituzione federale svizzera così recita: "Le restrizioni dei diritti fondamentali devono avere una base legale. Se gravi, devono essere previste dalla legge medesima. Sono eccettuate le restrizioni ordinate in caso di pericolo grave, immediato e non altrimenti evitabile". Il § 2 (che sembrerebbe non essere stato preso in considerazione nel ragionamento del Tribunale), così prosegue: "Le restrizioni dei diritti fondamentali devono essere giustificate da un interesse pubblico o dalla protezione di diritti fondamentali altrui".

[2]Le quali dispongono quanto segue: "En cas de grève de la faim, la personne détenue doit être informée par le médecin de manière objective et répétée des risques inhérents à un jeûne prolongé. Sa décision doit être médicalement respectée, même en cas de risque majeur pour la santé, lorsque sa pleine capacité d'autodétermination a été confirmée par un médecin n'appartenant pas à l'établissement. Si elle tombe dans le coma, le médecin intervient selon sa conscience et son devoir professionnel à moins que la personne n'ait laissé des directives explicites s'appliquant en cas de perte de connaissance pouvant être suivie de mort".

[3] In precedenza, aveva affrontato il tema, seppur con minor approfondimento, la decisione del 20 ottobre 1997 nel caso Petar Ilijkov c. Bulgaria (ric. n. 33977/96).

[4] In Nevmerjitski c. Ucraina la Corte aveva ritenuto che la nutrizione forzata di un detenuto avesse costituito un atto di tortura perché non strettamente necessaria ed eseguita con modalità quali  uso della forza e di manette, strumenti per far aprire la bocca ed un tubo di gomma inserito nell'esofago. In Ciorap c. Moldavia era stata ravvisata la violazione degli artt. 3 (anche in questo caso il trattamento era stato considerato vera e propria tortura, sia per quanto riguarda le modalità esecutive dell'alimentazione forzata effettuata, sia per l'assenza di ragioni mediche idonee a giustificarne la necessità: "his force-feeding was in fact aimed at discouraging him from continuing his protest") e 6 Cedu (per quanto riguarda l'impossibilità di ricorrere ad un tribunale per lamentarsi del trattamento subito).

[5] C. eur. dir. uomo, dec. 31 marzo 2005, Schneiter c. Suisse, ric. n. 63062/00, in cui la Corte aveva analizzato una disposizione, contenuta nella Costituzione del Cantone di Berna, molto simile a quella qui discussa.

[6] Oltre alle Directives médico-éthiques de l'Académie Suisse des Sciences Médicales concernant l'exercice de la médecine auprès de personnes détenues del 28 novembre 2002, la Corte prende in considerazione, sul tema, ulteriori testi: la Raccomandazione n. R (98) 7 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa relativa agli aspetti etici ed organizzativi della salute in carcere (adottata l'8 aprile 1998); gli "standards" del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) (sezione ""Servizi di assistenza sanitaria in carcere", lettera c); la Dichiarazione della World Medical Association sulle persone in sciopero della fame; il documento del Comitato Internazionale della Croce Rossa del 4 marzo 2009 sui centri di detenzione gestiti dagli USA a Bagram (Afghanistan), Guantanamo Bay (Cuba) e Charleston (USA); estratti del volume Maltreatment and Torture, in Research in Legal Medicine, vol. 19, M. Oehmichen, ed. Verlag Schmidt-Römhild, Lübeck, 1998, pubblicato sul sito della Croce Rossa Internazionale il 1.1.1998 (tutti contrari alla nutrizione forzata dei detenuti).

[7] In tema di art. 3 Cedu il ricorrente aveva proposto ricorso, oltre che per i motivi sopraesposti, anche per le sofferenze fisiche e psichiche patite durante la sciopero della fame. La Corte, tuttavia, non ha affrontato questo profilo.