ISSN 2039-1676


02 luglio 2013 |

C. Benussi, I delitti contro la Pubblica amministrazione, I, 1, I delitti dei pubblici ufficiali, in Trattato di diritto penale. Parte Speciale, diretto da G. Marinucci - E. Dolcini, 2° ed, Cedam, Padova, 2013

Recensione

1. La seconda edizione del volume di Carlo Benussi - I delitti contro la Pubblica amministrazione, I, 1, I delitti dei pubblici ufficiali, inserito nel Trattato di diritto penale. Parte Speciale, diretto da Giorgio Marinucci ed Emilio Dolcini - costituisce un'opera di non comune utilità per gli operatori del diritto impegnati a vario titolo nell'applicazione dei reati dei pubblici ufficiali contro la P.A. e per gli studiosi della materia, come conferma il successo editoriale - evidenziato dai direttori del Trattato nella Presentazione - già registrato dalla prima edizione del volume.

La pubblicazione di una nuova edizione già trovava giustificazione - indipendentemente, cioè, dalla recente riforma legislativa - nella profonda evoluzione giurisprudenziale e nella vivace discussione dottrinale che ha caratterizzato, negli ultimi dieci anni (la prima edizione risale al 2001), la materia oggetto di indagine, da sempre fucina di questioni al centro di accesi dibattiti tra prassi e teoria del diritto penale. I profondi cambiamenti apportati al sistema codicistico dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione dalla importante novella dello scorso anno (la legge anticorruzione n. 190 del 2012) rendono ovviamente l'opera di aggiornamento ancora più attuale ed opportuna, consentendo di collocare adeguatamente i cambiamenti intervenuti nel tessuto codicistico nell'ambito del più complesso impianto sistematico dei reati contro la P.A. e di meglio apprezzare - alla luce dei pregressi approdi esegetici - la portata applicativa dei mutamenti apportati ai confini tipici delle diverse fattispecie incriminatrici.

Rispetto alla prima edizione, va segnalato anche il particolare approfondimento dedicato alle ipotesi di confisca obbligatoria nei delitti contro la Pubblica amministrazione: nell'ultimo capitolo (p. 1343 ss.), infatti, l'Autore mette sistematicamente 'in ordine' le varie tipologie di confisca potenzialmente rilevanti nella materia, illustrandone chiaramente presupposti, funzioni, contenuti ed ambito applicativo.

La capillare analiticità dell'esegesi, che offre un quadro pressoché completo degli orientamenti giurisprudenziale e dottrinali di tutte le questioni interpretative relative alle norme oggetto della trattazione - comprovata peraltro dalla mole del volume (quasi 1500 pagine!) in cui si articolano i quattordici capitoli suddivisi in sezioni tematiche -, costituisce uno degli aspetti più significativi dell'opera di Carlo Benussi, che si colloca perciò a buon diritto sulla scia della migliore tradizione trattatistica della legislazione penale.

L'accuratezza ricostruttiva nella trattazione delle questioni problematiche non va peraltro a scapito di una frequente e consapevole presa di posizione critica sugli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali ritenuti poco convincenti sul piano della legalità e della ragionevolezza esegetica, ai quali vengono contrapposte soluzioni ermeneutiche alternative sempre fondate su solide basi argomentative e puntuali riferimenti sistematici.

 

2. Emblematica è l'analisi della fattispecie di abuso d'ufficio in relazione alla rilevanza penale di condotte riconducibili alla violazione dell'art. 97 Cost. sub specie di violazione del principio di imparzialità (p. 949 ss.), che - secondo un orientamento giurisprudenziale sempre più diffuso (e puntualmente ricostruito nelle cadenze motivazionali via via adottate nella prassi giudiziaria) - assumerebbe valenza immediatamente precettiva (differenziandosi dal generico principio di buon andamento) nei rapporti fra amministrazione e terzi, come espressione specifica del divieto di favoritismi; in tale prospettiva, l'art. 97 è quindi utilizzato nella prassi quale parametro tipico di valutazione della abusività della condotta del funzionario pubblico ai sensi dell'art. 323 c.p. La critica a questa relativamente nuova impostazione interpretativa (perché in controtendenza rispetto ad un iniziale atteggiamento giurisprudenziale 'restrittivo' rispetto alla formulazione del reato cosndel 1997) è secca e serrata, "stante un'evidente intrinseca genericità dei principi costituzionali dei parametri costituzionali citati che, se dovessero essere utilizzati quale parametro per la configurabilità del reato previsto dall'art. 323 c.p., finirebbero per rendere incerto l'ambito di applicazione della norma sull'abuso d'ufficio privando il giudice di un reale criterio di selezione tra mera illegittimità amministrativa e illiceità penale.  Il vero problema è che le norme costituzionali, proprio per la loro natura, hanno sempre valore di principio" (grassetto originale). Ciò rende necessario, ai fini della integrazione del requisito tipico della "violazione di legge o di regolamento", che il giudice riesca ad individuare nello ius positum norme dotate di specifica e immediata portata precettiva, non essendo sufficiente il riferimento al dettato generico del testo costituzionale o alle norme di principio - evocative dei medesimi principi generali - che spesso si ritrovano nella legislazione amministrativistica (v. p. 952). Lo stesso discorso, sostanzialmente, è svolto in merito alla rilevanza penale - parimenti quale condotta abusiva - del c.d. vizio di "eccesso di potere": anche qui l'Autore denuncia come la giurisprudenza, per non lasciare impuniti "abusi macroscopici" degli agenti pubblici (p. 970), sempre più riconosca carattere abusivo a condotte che derivano la propria antigiuridicità dal fatto di porsi in contraddizione con il 'fine' perseguito dalle norme amministrativistiche che si assumono violate;  in quest'ottica, la prassi giudiziaria ricorre a "penetranti controlli che valorizzano persino l'«inadeguatezza del mezzo» adottato dal pubblico agente" e "finisce per operare un'indebita sovrapposizione tra sindacato penale e merito politico-amministrativo che la riforma del 19907 ha, viceversa, voluto escludere" (p. 973).

 

3. Parimenti esemplificativo dell'approfondimento di analisi e della chiarezza espositiva - nonché di un equilibrio interpretativo tutt'altro che appiattito su una preconcetta adesione a tesi 'iper-difensivistiche' - è il paragrafo sui rapporti tra omissione di atti di ufficio e diritto di accesso ai documenti amministrativi (p. 1221 ss.); in merito a tale tematica, è vivacemente discussa la rilevanza penale del comportamento inerte dell'agente pubblico di fronte ad una corretta richiesta di accesso dei privati ai documenti amministrativi ex art. 22 ss. n. 241 del 1990, nonché il possibile concorso di una doppia tutela, in sede penale e in sede amministrativa, di fronte ad una condotta omissiva. Nelle otto dense pagine dedicate alla trattazione di tale complesso profilo, la questione è dapprima sistematicamente inquadrata nell'ambito dei principi generali della materia amministrativa, sono quindi esposti e confutati i diversi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul punto oggetto di controversia interpretativa ed è infine proposta una soluzione esegetica - a favore della immediata rilevanza penale, ai sensi dell'art. 328 c.p., della condotta omissiva del pubblico funzionario che entro i trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compia l'atto d'ufficio e non risponda esponendo le ragioni del ritardo - fondata su un consapevole equilibrio tra principi penalistici e principi amministrativistici e su puntuali riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e di merito.

 

4. Anche i problemi esegetici conseguenti alla recente riformulazione normativa delle fattispecie corruttive sono affrontati con la padronanza sistematica della materia - e la conseguente ricchezza di argomentazioni - che consente all'Autore di assumere pozioni chiare e persuasive (o comunque difficili da confutare) anche in relazione ai profili più complessi e incerti in questo primo periodo di applicazione giudiziaria. In merito, ad esempio, alla dibattuta questione sul criterio discretivo tra condotta costrittiva (che connota la nuova formulazione della concussione, art. 317 c.p.) e condotta induttiva (propria della nuova fattispecie di induzione indebita, art. 319-quater c.p.) - problema, come noto, attualmente rimesso al giudizio delle Sezioni Unite della Cassazione - la posizione di Carlo Benussi va condivisibilmente nella direzione di accedere ad una interpretazione tendenzialmente "restrittiva" del concetto di costrizione, "in coerenza con lo spirito della riforma che è quello di sanzionare entrambe le parti del rapporto per ogni dazione e promessa di denaro non coartata" (p. 568). La concussione dovrebbe essere perciò limitata ai casi di prospettazione di un male ingiusto (contra ius), dovendo trovare applicazione, viceversa, l'art. 319-quater c.p. tutte le volte in cui il privato sia spinto alla promessa o alla dazione indebita dalla prospettiva di un indebito vantaggio, derivante anche solo dalla mancata applicazione della legge (p. 569).

 

5. Chiare e convincenti anche le posizioni dell'Autore sul piano dei problemi di diritto intertemporale: in merito al trattamento dei fatti di concussione (per costrizione) realizzati dagli incaricati di pubblico servizio prima della riforma del 2012 - oggi espunti dalla sfera tipica dell'art. 317 c.p. - appare persuasiva, in quanto corroborata da molteplici argomenti (p. 574), l'opzione a favore del riconoscimento di un fenomeno di successione meramente modificativa di leggi penali (art. 2, comma 4, c.p.) fra concussione ed estorsione aggravata ex art. 61, n. 9, c.p. Fermo restando - precisa molto opportunamente l'Autore - il necessario rispetto delle "regole enunciate dalla CEDU nella nota sentenza n. 25575/2007 e, quindi, l'imputato dovrà essere necessariamente informato dal giudice per potersi adeguatamente difendere dalla (...) differente «tipologia di condotta» addebitatagli" (p. 575).