ISSN 2039-1676


04 ottobre 2013 |

Il 'giurista penale': un intellettuale 'minore'?

Testo dell'intervento nell'incontro di studio per i ricercatori di Diritto penale sul tema "Ricerca e didattica nel diritto penale: la questione del metodo, oggi"  (Bologna, 16 maggio 2013)

 

Vorrei proporre alcune riflessioni sui rapporti tra il cosiddetto 'giurista penale' e quella che potremmo definire 'comunità degli intellettuali': sul 'peso' intellettuale e sul credito che oggi la società sembra riconoscere allo studioso di diritto penale.

Vi è un effettivo scambio comunicativo tra penalisti e società civile? o i contributi degli studiosi di diritto penale finiscono per rappresentare una produzione intellettuale meramente settoriale, attualmente non accreditata a pieno titolo come fonte di argomenti spendibili in chiave di 'ragione pubblica'?

 

1. Riflettere sul metodo significa anche aprire un discorso su possibili obiettivi: ricerca e didattica sono strumenti la cui razionalità ed efficacia necessitano di essere vagliate in relazione al tipo di impresa intellettuale che si ritiene possa (e debba) essere realizzata dalla cosiddetta 'scienza penale'.

Non può essere questa la sede per ripercorrere l'ampia e complessa discussione sulla natura e sull'oggetto della scienza penale[1].

Nondimeno, sarebbe opportuno avviare una riflessione sul tipo di contributo che la comunità scientifica dei penalisti ritiene di poter e di dover offrire alla società.

Fra i punti del programma elaborato per questo primo incontro di studio dedicato ai ricercatori di diritto penale si trova menzionato il problema del 'ruolo del diritto penale tra le scienze sociali'. Mi chiedo se sia il caso di orientare la riflessione anche su un aspetto ulteriore, non meno importante: la dimensione del diritto penale e il ruolo del giurista penale all'interno della comunità intellettuale.

Quando si parla del tipo di rapporto e di dialogo che il diritto penale dovrebbe instaurare con altre discipline che concorrono a studiare aspetti della realtà rilevanti per la riflessione su criteri di attribuzione della responsabilità umana, si pone in evidenza un profilo metodologico legato in primo luogo ad aspetti di razionalità 'interna' del diritto penale: la necessità di condurre il discorso normativo all'interno di 'vincoli di realtà'.

Il rapporto tra giuristi penali e comunità intellettuale chiama in causa problemi e prospettive differenti: in parte legati a modalità comunicative che possano determinare, almeno su un piano formale, il coinvolgimento dei penalisti nella dialettica pubblica, e in parte aventi a che fare con qualcosa di più profondo, ossia l'autocomprensione del compito intellettuale e del ruolo sociale dello studioso di diritto penale.

 

2. Gustavo Zagrebelsky ha osservato che «È una pura illusione che il diritto basti a se stesso, che sia una 'scienza pura' che può definire il suo oggetto separandolo dal contesto culturale in cui opera e di cui è parte, dipendente e costitutiva al tempo stesso. Per questo, i giuristi dovrebbero impegnarsi, innanzitutto tra di loro, oltre che nelle proprie specializzazioni che non possono mancare, nel definire le basi culturali della loro scienza, e nello stabilire dei ponti con le altre 'scienze della cultura', da cui hanno molto da prendere e cui hanno molto da dare»[2].

Il penalista ha sicuramente molto da prendere: la riflessione sui principi che modellano la responsabilità penale richiede un'apertura a contributi di conoscenza necessari per un inquadramento dei problemi che di volta vengono in gioco. Ma qual è l'apporto che lo studioso di diritto penale potrebbe (o dovrebbe) dare in cambio? quale la partecipazione che il penalista può offrire al mercato delle idee?

Forse è opportuno porsi un interrogativo preliminare, relativo alla percezione che la società ha del lavoro di ricerca scientifica nell'ambito penale: chiedersi quale sia l'idea associata al lavoro della ricerca penalistica serve a riflettere sull'eventuale credito e sul tipo di affidamento che la società può essere disposta a riconoscere. Valutare la disposizione d'animo dell'interlocutore è essenziale per capire fino a che punto potrà essere permeabile all'ascolto.

La mia opinione è che il concetto di 'ricerca scientifica nel diritto penale' fatichi a trovare un'identità nell'immaginario collettivo: nella percezione del cittadino comune il ruolo del ricercatore di diritto penale non è contemplato, o viene eventualmente assimilato a quello di sbiadita controfigura degli operatori pratici, come mero 'commentatore di decisioni giudiziali', come 'studioso di norme' o magari come 'ricercatore di nuove leggi'! Il diritto penale evoca una realtà di contese intersoggettive e finisce per essere assimilato a una dimensione meramente 'processistica', dove lo spazio dialettico appare dominato da discorsi strategici.

L'impressione è che lo studioso di diritto penale si trovi oggi risucchiato all'interno di una simile dimensione e sia percepito come operatore pratico sui generis, orientato a lavorare con strumenti intellettuali diversificati rispetto a magistrati e avvocati, ma il cui 'habitat professionale' nell'immaginario collettivo viene ricondotto alle aule di tribunale più che alle biblioteche e alle aule universitarie.

Non si tratta di un modo di pensare attribuibile solo all' 'uomo della strada'. Se posso aggiungere un'esperienza personale, quando ho avuto l'occasione (e la fortuna) di interloquire con studiosi di altre discipline (filosofi politici, fenomenologi, antropologi, psicologi, neuroscienziati), ho sempre constatato in loro un profondo stupore, quasi uno straniamento, nell'atto di apprendere che i problemi sui quali mi permettevo di chiedere delucidazioni traevano origine da temi di ricerca legati all'ambito disciplinare del diritto penale.

Lo studioso di diritto penale non sembra dunque godere oggi di particolare credito e peso intellettuale: a dominare è l'immagine di un soggetto le cui competenze si limitano alla conoscenza di norme e di meccanismi pratico-applicativi che il comune cittadino finisce per percepire come automatismi ispirati da 'logiche oscure'. Del tutto ignorata è l'attività di elaborazione concettuale e la tensione etica che sostiene (dovrebbe sostenere!) il lavoro di chi è chiamato a riflettere su problemi di responsabilità nell'agire umano.

Sul piano della partecipazione e del coinvolgimento nel dibattito pubblico i penalisti sono pertanto trascurati (quasi ignorati) rispetto a studiosi come, ad esempio, filosofi, sociologi o psicologi. Le sporadiche occasioni nelle quali i media riportano l'opinione di un cultore della scienza penale, si tratta prevalentemente di osservazioni relative ad aspetti tecnici di vicende processuali: è raro il coinvolgimento su tematiche di respiro più ampio o su temi di politica del diritto penale.

Si potrebbe parlare quasi di una 'benintenzionata usurpazione' in merito al profluvio di opinioni e di pareri che sui media animano il dibattito sulla questione criminale ad opera di studiosi pur autorevoli ma che raramente si identificano con esponenti della scienza penale: talvolta capita di ascoltare o leggere osservazioni interessanti, altre volte capita di dover storcere il naso di fronte a opinioni che, pur supportate da solide basi culturali, evidenziano una mancata consapevolezza di profili che tendono a risultare invece meglio accessibili allo studioso che si occupi specificamente dei problemi della penalità.

A parti invertite, ossia quando sono i giuristi a dover 'maneggiare' contributi di conoscenza che esulano dal ristretto 'orticello endogiuridico', addentrandosi in profili filosofici, sociologici, politologici, non è invece infrequente riscontrare un livello qualitativo e una competenza di tutto rispetto. Anche nella dottrina penalistica contemporanea abbiamo dei chiari esempi che evidenziano capacità di muoversi all'interno di orizzonti culturali ampi, non 'endopenalistici', e di sapersi orientare con disinvoltura anche in munere alieno.

 

3. Alla luce di tali squilibri legati all'appeal comunicativo, uno degli obiettivi della comunità scientifica dei penalisti dovrebbe essere l'avvio di un dialogo con la società volto a demistificare l'attuale fuorviante percezione relativa al lavoro di ricerca scientifica nel diritto penale, rivendicando la pari dignità della scienza penale con le altre 'scienze della cultura'.

Un simile obiettivo richiede un miglioramento delle capacità comunicative, ma rappresenta per la comunità degli studiosi di diritto penale anche un impegno a prendere più sul serio il ruolo di 'intellettuali'.

Cosa significa essere 'intellettuali'? Mi affido alla definizione elaborata da Zygmunt Bauman, quando afferma che il significato intenzionale della parola è quello «di porsi al di sopra degli interessi settoriali della propria professione o del proprio genere artistico e di fare i conti con le questioni globali di verità, giudizio e gusto dell'epoca»[3]. Ricordando il movimento dei philosophes della Francia del XVIII secolo, Bauman dice che «Ciascuno di questi individui ha una professione o una occupazione, ciascuno appartiene a un gruppo funzionalmente specializzato. Ma a parte questo ciascuno si innalza a un altro livello, più generale, dove la voce della Ragione e della 'moralità' è intesa senza interferenze e distorsioni. [...] In definitiva rimane una questione di decisione e d'impegno. Accettare per sé l'etichetta di 'intellettuale', assieme agli obblighi che gli altri membri del gruppo accettano di sostenere, è di per sé un elemento di questo impegno»[4].

La questione del metodo si intreccia oggi con la prospettiva di farsi carico di un impegno intellettuale che non sia meramente 'settoriale'.

Winfried Hassemer, nel suo libro recentemente tradotto in italiano, e che rappresenta un ottimo esempio (il primo?) di opera divulgativa sui problemi del penale (destinata a un pubblico medio-colto, ma pensata nella prospettiva di una fruizione non meramente specialistica), ammonisce che «solo se lo si considera da una prospettiva esterna, il diritto penale è un coacervo di norme: se si guarda con più attenzione, però, esso si rivela come una parte della cultura in cui viviamo»[5].

Allo studioso di diritto penale spetta il gravoso compito di confrontarsi non solo con norme ma con la 'cultura' che fa loro da sfondo: con gli universi fattuali, sociali e simbolici che formano tale 'cultura'. L'attenzione alla norma va affiancata alla problematica riflessione sulle fonti della normatività: sull' 'altrove' nel quale ricercare coordinate e orizzonti di senso per una ragionevole lettura della conflittualità fra esseri umani.

Nella retorica mediatica e nella percezione collettiva è evidente la ri(con)duzione della dimensione penalistica a un problema di meccanismi sanzionatori, al 'come' e 'quanto' punire. Del tutto in ombra sono le ben più rilevanti questioni relative al momento precettivo e alla trama di implicazioni sociali e culturali connesse al significato dei bilanciamenti in cui il precetto cerca il senso della propria legittimazione.

Ritengo di fondamentale importanza, anche alla luce dell'attuale situazione spirituale dell'Italia, che la comunità scientifica rifletta sull'importanza di promuovere un flusso comunicativo rivolto alla società, e dunque anche ai 'non addetti', il quale renda percepibile la profondità delle questioni e dei valori che fondano il problema penale.

Riguardo al metodo, sarebbe auspicabile una riflessione critica su approcci che appaiano inclini al cosiddetto 'sanzionocentrismo'[6], a favore di prospettive metodologiche che riescano a importare nel discorso penalistico la complessità che caratterizza il mondo dei fatti e il connesso universo di irradiazioni assiologiche e dinamiche sociali.

L'impegno dello studioso di diritto penale deve essere sostenuto dall'ambizione di fornire contributi intellettuali che non si limitino a una risonanza meramente 'processistica': si tratta di guardare anche a ciò che sta al di fuori e viene prima del processo penale, e che è parte costitutiva del problema penale. La responsabilità per l'agire umano, i chiaroscuri assiologici che fanno da contorno alle azioni dell'uomo, non possono essere ridotti all'angusta dicotomia lecito/illecito.

Per il giurista penale la presa in carico di una responsabilità intellettuale significa impegno a guardare anche al di là delle aule di tribunale, a modulare l'approccio di studio nella prospettiva di dar vita a contributi di conoscenza pensati anche come possibile 'supporto comunicativo' alla funzione responsabilizzante e 'di giustizia' che il precetto, prima che la sanzione, è chiamato a svolgere.


[1] Per una quadro di sintesi della problematica, e senza pretesa di esaustività, si vedano i contributi pubblicati in G. Insolera (a cura di), Riserva di legge e democrazia penale: il ruolo della scienza penale, Monduzzi, 2005. Da ultimo, si veda il dibattito pubblicato su Criminalia, 2010, pp. 127 ss.

[2] G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, a cura di G. Preterossi, Laterza, 2007, p. 156.

[3] Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, tr. it., Bollati Boringhieri, 2007, p. 12

[4] Id., op. cit., p. 34.

[5] W. Hassemer, Perchè punire è necessario, tr. it., Il Mulino, 2012, p. 12.

[6] Secondo l'accezione sviluppata da G. Fiandaca, Rocco: è plausibile una de-specializzazione della scienza penalistica?, in Criminalia, 2010, pp. 202 ss.