ISSN 2039-1676


22 dicembre 2010 |

Rilascio di licenza per il porto d'armi a persona non idonea e responsabilità del dirigente di Polizia per l'omicidio commesso con l'arma

Nota a Cass. pen., sez. IV, ud. 4 maggio 2010, n. 34748

Secondo la sentenza annotata, il rilascio della licenza di porto di fucile per il tiro a volo, in presenza di indicatori di notevole pericolosità, litigiosità e scarsa capacità di autocontrollo del soggetto licenziatario, può dar luogo - in caso di omicidio doloso da questi commesso con quell'arma - a un’imputazione a titolo di omicidio colposo nei confronti del funzionario di polizia responsabile del rilascio della licenza.

 

Prima di ripercorrere brevemente l’itinerario argomentativo seguito dalla pronuncia della quarta sezione, occorre partire dall’analisi della vicenda.

 

C. richiedeva la licenza di porto di fucile per il tiro a segno, che gli veniva rilasciata dal dirigente del commissariato; in forza di tale licenza acquistava una pistola semiautomatica calibro 45. A distanza di soli tre mesi, con quella stessa arma, C. faceva fuoco sui passanti dalla sua abitazione, sita al terzo piano di un palazzo, per poi togliersi la vita: oltre all’autore suicida, nella sparatoria trovavano la morte due persone e altre tre riportavano lesioni gravissime con perdita o indebolimento d’organo.

 

Il giudizio in esito al quale è stata resa la pronuncia in commento vedeva imputato il dirigente del commissariato che aveva rilasciato la licenza per il reato di cui agli artt. 40 co. 2, 41 e 589 co. 1 e 3 c.p., per aver cagionato la morte dei passanti, in concorso con i medici che avevano sottoscritto le necessarie certificazioni, condannati in via definitiva in un separato processo.

 

Confermando le valutazioni dei giudici d’appello, la Suprema Corte ha ravvisato nella condotta del funzionario di polizia gli estremi della colpa specifica, per violazione delle regole cautelari fissate dall’art. 43 T.U.L.P.S., che – nella parte rimasta in vigore dopo la sentenza della Corte cost. n. 440/1993 – prevede al co. 2 che la licenza può essere negata alle persone a carico delle quali siano stati acquisiti elementi indicativi della insussistenza della buona condotta e di quelle che non diano affidamento di saper evitare l’abuso delle armi: tale norma, dettata per il rilascio del porto d’armi, è infatti ritenuta applicabile, per giurisprudenza costante, anche al rilascio della licenza di porto di fucile per tiro a volo.

 

Ad avviso dei giudici di legittimità, nel caso di specie è ravvisabile una violazione dell’art. 43 T.U.L.P.S. perché – pur essendo il licenziatario del porto di fucile incensurato, e pur avendo questi consegnato le necessarie autorizzazioni mediche ai fini del rilascio della licenza – presso lo stesso commissariato di polizia erano state, tra l'altro, in precedenza raccolte le denunzie-querele sporte nei confronti del C. o da quest’ultimo contro terzi, che attestavano la particolare litigiosità del soggetto. “Regola di ordinaria prudenza e diligenza” – affermano i giudici della quarta sezione – “avrebbe imposto di esercitare in senso negativo il potere discrezionale di rilascio della licenza, nel caso di assenza nel richiedente dei requisiti generali”.

 

La pronuncia si segnala per alcune interessanti precisazioni di ordine generale:

 

a)      quanto al rapporto tra le regole cautelari applicabili alla condotta provvedimentale del funzionario (in questo caso, l’addetto al rilascio della licenza per il porto di fucile, ma l’affermazione è di più ampio respiro) e la discrezionalità che la caratterizza, i giudici della quarta sezione affermano che “uno spazio tecnico di libera scelta tra le diverse opzioni provvedimentali è riconoscibile entro il limite dell’esercizio prudente, diligente e ragionevole dei propri compiti”;

 

b)      quanto alla configurabilità di un concorso colposo in un delitto doloso, la pronuncia ritiene che essa sia del tutto pacifica “sia nel caso di cause colpose indipendenti, sia nel caso di cooperazione colposa tra alcuno dei compartecipi dei quali uno o più sia in dolo, purché in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto nella forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa”.

 

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L'ultimo profilo evidenziato appare di particolare interesse, perché prende posizione in senso affermativo su una questione - quella della configurabilità di un concorso colposo nel delitto doloso - notoriamente discussa in dottrina.

 

La succinta motivazione della Corte sopra riportata sembra, peraltro, porre sullo stesso piano tre situazioni concettualmente distinte, anche se convergenti nel risultato pratico di affermare la responsabilità dell'agente a titolo di colpa:

 

a)      il concorso colposo nel delitto doloso, ove si dovrebbe verosimilmente richiedere (perché si possa parlare di "concorso") che il soggetto in colpa sia consapevole di interagire con la condotta dolosa di un terzo, senza peraltro rappresentarsi il carattere criminoso di tale condotta (ché, altrimenti, il soggetto dovrebbe anch'egli rispondere del fatto commesso dal terzo ex art. 110 o, secondo i casi, 116 c.p.);

 

b)      la cooperazione colposa di cui all'art. 113 c.p., la quale presuppone, almeno secondo un'opinione diffusa, la consapevolezza di interagire con una condotta colposa altrui;

 

c)       il concorso di cause indipendenti, ove invece l’evento è il frutto di una semplice coincidenza di più azioni od omissioni, compiute da più soggetti all'insaputa l'uno dell'altro, e delle quali ciascuno risponderà a titolo di dolo o di colpa, sussistendone i relativi presupposti.

 

Nel caso di specie, dunque, si sarebbe potuto sgombrare il campo da qualsiasi ambiguità inquadrando senza incertezze le condotte dei medici, la condotta del funzionario di polizia e la condotta dolosa del C. come altrettante cause indipendenti, ex art. 41 c.p., come del resto lo stesso capo di imputazione suggeriva, in assenza di qualsiasi prova circa l'effettiva consapevolezza da parte dell'imputato che l'agente avrebbe effettivamente utilizzato l'arma per commettere la condotta omicidiaria, la condanna fondandosi qui semplicemente sull'imprudenza dell'agente, consistita nel rilasciare una licenza di porto di fucile a un soggetto che secondo quanto ritenuto in sentenza avrebbe prevedibilmente utilizzato l'arma, in futuro, per compiere azioni aggressive della vita e incolumità altrui.

 

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Un secondo, e meno evidente, profilo di interesse della sentenza si coglie ove si esamini la vicenda oggetto della sentenza sotto le lenti degli obblighi che discendono sullo Stato italiano dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Profilo, quest'ultimo, ancora poco familiare all'operatore giuridico italiano, e sul quale non sarà forse inutile spendere qualche considerazione.

Quella decisa dalla Cassazione è, infatti, una tipica vicenda in cui, in assenza di una condanna del funzionario responsabile del rilascio della licenza in sede penale o, almeno, in sede risarcitoria, l'Italia si sarebe esposta al rischio di una condanna da parte della Corte di Strasburgo per violazione degli obblighi di tutela discendenti dall'art. 2 Cedu.

 

Da tale norma convenzionale, che tutela il diritto alla vita di ogni individuo, sorge infatti in capo agli organi dello Stato l’obbligo (c.d. positivo) di proteggere la vita dei propri cittadini contro condotte lesive prevedibili ed evitabili da parte di altri privati individui, nonché - una volta che la lesione si sia verificata, come nel caso di specie - l'obbligo (c.d. procedurale) di indagare sulle eventuali responsabilità delle pubbliche autorità che abbiano mancato a tale obbligo positivo di tutela, e quindi di sanzionare coloro che, in esito a tali indagini, siano stati riconosciuti responsabili. Versandosi in un’ipotesi di violazione del diritto alla vita di un privato in conseguenza di una mera condotta colposa da parte del funzionario, d’altra parte, la sua condanna anche in sede penale non sarebbe stata “convenzionalmente imposta”, la Corte ritenendo in questi casi sufficiente a garantire un’equa riparazione  ai sensi dell’art. 41 Cedu la corresponsione in sede civile alle vittime di una congrua somma a titolo di risarcimento (ovviamente, previo compiuto accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali) (su tali profili cfr., per tutti, F. Viganò, Il diritto penale italiano davanti ai giudici della CEDU, in Giur. merito, 2008, suppl. al n. 12, pp. 81-112).

 

Nel caso di specie può dunque affermarsi che pubblici ministeri e giudici nazionali abbiano qui pienamente adempiuto i propri obblighi discendenti dalla Convenzione, accertando in sede penale le responsabilità del funzionario e condannando quest'ultimo, oltre a una pena detentiva condizionalmente sospesa, al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi in sede civile.

 

A questo punto, un eventuale ricorso a Strasburgo dei parenti delle persone rimaste uccise o ferite nel corso della sparatoria dovrebbe  essere dichiarato irricevibile, dal momento che i ricorrenti non potrebbero più proclamarsi “vittime” di una violazione della Convenzione ai sensi dell’art. 34 Cedu, essendo nel frattempo intervenuta, in sede nazionale, una adeguata riparazione ex art. 41 Cedu (sempre che, ovviamente, la somma liquidata in sede civile sia congrua, e comunque non inferiore a quelle corrisposte dalla Corte di Strasburgo in casi analoghi).