ISSN 2039-1676


06 maggio 2014 |

Scarpe tossiche e pericolo penalmente rilevante: brevi note a una sentenza del Tribunale di Milano

Tribunale di Milano, sez. XI pen., sent. 18 ottobre 2013, Giud. Bernante

1. Con sentenza del 18 ottobre 2013, il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, ha condannato alla pena di 8 mesi di arresto e 20 mila euro di ammenda il titolare di un esercizio commerciale, accusato di aver posto in vendita all'incirca due mila paia di scarpe contenenti tracce di cromo esavalente, per la contravvenzione di cui al capoverso dell'art. 112, d.lgs. 206/05 (c.d. codice del consumo) - norma che punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, "il produttore che immette sul mercato prodotti pericolosi".

 

2. La succinta motivazione del provvedimento in esame ripercorre anzitutto gli esiti delle indagini preliminari e della successiva istruttoria dibattimentale.

A settembre 2011, la Guardia di Finanza effettua un controllo presso un negozio di proprietà dell'imputato e nell'occasione sequestra 65 paia di scarpe "potenzialmente tossiche"; successivamente, le attività di perquisizione si estendono a tre magazzini, nella disponibilità dello stesso imputato, presso i quali vengono rinvenute e sequestrate altre 1855 paia di calzature.

Tutte le calzature acquisite dalla Guardia di Finanza vengono quindi sottoposte ad accertamenti tecnici presso un laboratorio specializzato in analisi su manufatti di pelle/cuoio. Da tali accertamenti emerge che le calzature "contenevano nella tomaia e/o nella fodera cromo esavalente con concentrazione superiore al limite rilevabile con il metodo UNI EN ISO 17075:2008, pari a 3 mg/kg".

La successiva istruttoria dibattimentale consente infine di accertare che le calzature oggetto di sequestro non erano state prodotte dall'imputato, ma erano state da questi importate in Italia a seguito di ordine effettuato su internet a una ditta con sede in territorio francese; ditta che aveva provveduto a spedirle in Italia tramite corriere.

 

3. Sulla base di questi elementi di fatto, la sentenza svolge quindi alcune sintetiche osservazioni in punto di diritto, rilevando anzitutto che i suddetti elementi probatori sarebbero sufficienti a ritenere sussistenti gli estremi della contravvenzione prevista dal secondo comma dell'art. 112 del codice del consumo, che, come detto, punisce il fatto del "produttore" che immetta sul mercato "prodotti pericolosi".

A tal proposito, il giudice milanese osserva in primo luogo che la circostanza che l'imputato non risulti produttore, bensì solo importatore delle calzature poi messe in vendita, non rappresenterebbe un ostacolo all'applicazione della fattispecie in parola, dal momento che, ai sensi dell'art. 103, co. 1, lett. d), del codice del consumo, per "produttore" dovrebbe intendersi non solo il fabbricante e il rappresentante del fabbricante, bensì anche "l'importatore del prodotto".  

In secondo luogo, la sentenza afferma che il rinvenimento nelle calzature sequestrate di tracce di cromo esavalente, "elemento notoriamente cancerogeno", consentirebbe di concludere "per la intrinseca pericolosità per la salute pubblica delle calzature in sequestro", con conseguente integrazione del requisito della pericolosità dei prodotti.

 

4. Viceversa, a detta del Tribunale, i medesimi elementi probatori non permetterebbero l'applicazione delle più gravi ipotesi delittuose previste dagli artt. 441 (adulterazione o contraffazione di cose in danno della salute pubblica) e 442 (commercio di alimenti, acque o cose da altri contraffatte o adulterate), punite a titolo di colpa ai sensi dell'art. 452 c.p.

Il giudice milanese giunge a questa conclusione muovendo dalla preliminare constatazione che entrambi i succitati delitti richiedono "che vi sia stata immissione di sostanze di qualità e in quantità tali da determinare il pericolo scientificamente accertato, di effetti tossico-nocivi per la salute"; in altre parole, si afferma, "è necessario che le cose delle quali si fa commercio, a causa della corruzione, della adulterazione o della contraffazione, siansi rese concretamente pericolose per la salute pubblica".

Nel caso di specie, prosegue la sentenza, "pur essendosi accertata la presenza nei prodotti in sequestro di cromo esavalente, sostanza notoriamente pericolosa in quanto cancerogena", la pubblica accusa non avrebbe tuttavia fornito nessun elemento concreto "in ordine alla effettiva pericolosità della concentrazione di detta sostanza in concreto rilevata nelle calzature in sequestro".

"Ne discende", conclude sul punto il giudice milanese, "che la semplice rilevazione della presenza nelle calzature in sequestro di cromo esavalente in concentrazione superiore al limite minimo rilevabile con il metodo UNI EN ISO 17075:2008, costituisce di per sé prova della pericolosità dei prodotti, essendo tale sostanza pericolosa per la salute, tanto da essere sottoposta sia in Italia che in Europa a notevoli restrizioni atte a controllarne il livello, in accordo con quanto stabilito da legislazioni nazionali o da norme di riferimento. Non sono invece emersi dati più pregnanti sulla effettiva possibilità di pericolo per la salute pubblica concretamente connessa alle concentrazioni accertate, come tale idonea a configurare la più grave fattispecie delittuosa di cui agli artt. 441, 442, 452 c.p.".  


5. Fatta eccezione per la breve digressione in ordine all'esatta estensione della definizione di "produttore", rilevante al fine di stabilire chi possa commettere il reato di cui al capoverso dell'art. 112, d.lgs. 206/05, per il resto, le argomentazioni svolte dal Tribunale sono interamente dedicate alla questione relativa alla sussistenza del requisito della pericolosità per la salute umana delle calzature messe in vendita dall'imputato, questione che assume rilievo sia per l'applicazione della contravvenzione prevista dal codice del consumo - la quale richiede che siano immessi sul mercato "prodotti pericolosi" -, sia per l'applicazione dei delitti di cui agli artt. 441 e 442 c.p. - i quali, dal canto loro, richiedono che l'oggetto della condotta risulti modificato "in modo pericoloso alla salute pubblica".

Ebbene, sul punto, si è visto come il Tribunale ritenga che gli esiti delle prove di laboratorio effettuate nel corso delle indagini preliminari, che hanno riscontrato la presenza di cromo esavalente in concentrazioni superiori al limite di rilevabilità di 3 mg/kg, permetterebbero di qualificare le calzature sequestrate all'imputato come prodotto intrinsecamente pericoloso per la sicurezza dei consumatori, con conseguente applicabilità della contravvenzione ex art. 112 del codice del consumo.

È importante chiarire che il limite di rilevabilità non esprime una soglia di pericolosità, ma costituisce la più bassa concentrazione di sostanza che il metodo analitico prescelto per effettuare l'analisi è in grado di rilevare. Nel nostro caso, dunque, 3 mg/kg rappresenta il quantitativo minimo di cromo esavalente che il metodo analitico UNI EN ISO 17075:2008, utilizzato dal laboratorio che ha condotto gli accertamenti tecnici, era in grado di rilevare all'interno delle calzature sequestrate.

Viceversa, dice ancora il Tribunale, quegli stessi accertamenti, che nulla dicono in merito alla effettiva pericolosità delle concentrazioni di cromo esavalente rilevate in concreto nelle calzature, non fornirebbero la prova che la salute pubblica sia stata concretamente messa in pericolo dalla condotta dell'imputato, e, dunque, non consentirebbero l'applicazione dei delitti di cui agli artt. 441 e 442 c.p.

Ciò che nitidamente emerge dalle considerazioni espresse dal Tribunale in ordine alla capacità/incapacità del materiale probatorio raccolto dalla pubblica accusa a integrare le diverse fattispecie contestate all'imputato è l'idea che la pericolosità del prodotto richiesta dall'ipotesi contravvenzionale sia qualcosa di diverso - rectius, qualcosa di meno - rispetto al pericolo per la salute pubblica espressamente evocato sia dall'art. 441, sia dall'art. 442 c.p.

In termini di categorie concettuali, il giudice milanese esprime questa idea distinguendo tra pericolosità intrinseca e pericolosità effettiva del prodotto: la prima, rilevante ai fini dell'applicazione della contravvenzione ex art. 112, che ricorrerebbe ogni qualvolta un determinato prodotto contenesse, in qualsiasi quantità, una sostanza potenzialmente idonea a provocare un danno alla salute; la seconda, dalla cui sussistenza dipenderebbe la possibilità di applicare le ipotesi delittuose previste dal Titolo VI, che risulterebbe invece integrata nel solo caso in cui la sostanza in questione risultasse presente nel prodotto in concentrazioni realmente idonee a mettere in pericolo la salute di un eventuale consumatore.

 

6. Ora, il primo problema che si pone, allorché ci si confronti con la distinzione concettuale proposta dal Tribunale, è che il concetto di pericolosità intrinseca, che la sentenza associa alla contravvenzione prevista dal codice del consumo, risulta del tutto sprovvisto di copertura scientifica, dal momento che in tossicologia è ormai consolidato l'assunto secondo cui non è possibile stabilire a priori se una data sostanza sia o meno pericolosa, la probabilità che essa produca effetti lesivi alla salute dipendendo in misura determinante da fattori squisitamente quantitativi, e in particolare dall'entità delle dosi e dalla durata dell'esposizione.

Tant'è che anche sostanze note per i loro effetti tossici o cancerogeni risultano normalmente innocue se assunte in dosi basse (potendo anzi essere utilizzate, in particolari contesti clinici e con particolare modalità, anche a fini terapeutici), così come, per converso, anche sostanze ordinariamente innocue possono creare effetti dannosi se assunte ad alte dosi.

Insomma, sotto il profilo epistemologico, il concetto di pericolosità intrinseca, così come declinato dal Tribunale, rappresenta un concetto sostanzialmente vuoto.

 

7. A questa prima obiezione, peraltro, si potrebbe replicare sottolineando come sia lo stesso Tribunale ad affermare che il pericolo richiesto dalla contravvenzione ex art. 112 si caratterizzerebbe proprio per il fatto di non richiedere la dimostrazione, asseverata sul piano scientifico, di una effettiva possibilità di lesione della salute dei consumatori.

Guardando la questione da un altro punto di vista, si potrebbe in particolare sostenere che il Tribunale, evocando il binomio concettuale pericolosità effettiva/pericolosità intrinseca, e inquadrando la fattispecie contravvenzionale nella seconda di queste categorie, abbia inteso affermare che la contravvenzione prevista dal capoverso dell'art. 112, sebbene evochi espressamente il concetto di pericolo, in realtà non configurerebbe un reato di pericolo concreto, ma sarebbe piuttosto inquadrabile nella categoria dei reati di pericolo presunto, che, come è noto, non richiedono la dimostrazione che il bene giuridico protetto abbia effettivamente corso il pericolo di essere leso, bensì, solo, che sia accertato che il fatto commesso dall'agente sia sussumibile in una categoria di fatti selezionati a priori dal legislatore in quanto normalmente idonei a mettere in pericolo il bene.

 

8. Proviamo, allora, a muoverci in questa direzione, chiedendoci anzitutto se la contravvenzione ex art. 112 sia effettivamente inquadrabile nella categoria del pericolo presunto, e, in caso di risposta affermativa, a quali parametri il legislatore richieda di fare riferimento per enucleare modelli di prodotto presuntivamente pericolosi.

Ora, per rispondere al primo quesito, occorre in primo luogo tenere conto che, mentre il codice penale non contiene una espressa definizione di pericolo per la salute pubblica, rimettendosi così alla giurisprudenza e alla dottrina il compito di stabilire i criteri attraverso i quali verificare di volta in volta la sussistenza di questo requisito, il codice del consumo, al contrario, provvede a definire il concetto di "prodotto pericoloso", stabilendo in particolare che, con tale espressione, si deve intendere "qualsiasi prodotto che non risponda alla definizione di prodotto sicuro" (art. 103, co. 1, lett. b).

Il concetto di "prodotto pericoloso" è quindi costruito in senso speculare rispetto alla nozione di "prodotto sicuro", che il legislatore declina in questi termini (art. 103, co. 1, lett. a): "qualsiasi prodotto [...] che, in condizioni di uso normali o ragionevolmente prevedibili, compresa la durata e, se del caso, la messa in servizio, l'installazione e la manutenzione, non presenti alcun rischio oppure presenti unicamente rischi minimi, compatibili con l'impiego del prodotto e considerati accettabili nell'osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone".

Sulla base di queste definizioni normative, si ricava quindi che, ai fini dell'applicazione delle contravvenzioni previste dal codice del consumo, va considerato pericoloso qualsiasi prodotto che, in condizioni di uso normali o ragionevolmente prevedibili, comporti rischi valutati inaccettabili in base a standard di sicurezza in grado di garantire un elevato livello di tutela della salute delle persone.

Declinata in questo senso, la qualificazione di pericolosità del prodotto non pare, allora, dipendere dall'effettiva capacità del prodotto di arrecare un danno alla salute umana, bensì dalla mera difformità dello stesso a predeterminati requisiti di sicurezza, secondo una prospettiva tipica dello schema dei reati di pericolo presunto; schema al quale, dunque, pare doversi ricondurre la contravvenzione prevista dall'art. 112. 

 

9. A quali fonti si debba guardare per enucleare gli standard di sicurezza che ciascun prodotto deve possedere per dirsi sicuro (e la cui assenza determinerà, per converso, una presunzione di pericolosità), poi, è un quesito che trova anch'esso risposta nella disciplina del codice del consumo e, in particolare, nell'art. 105, il quale, rubricato "presunzione e valutazione di sicurezza", stabilisce che "un prodotto si presume sicuro quando è conforme alla legislazione vigente nello Stato membro in cui il prodotto stesso è commercializzato e con riferimento ai requisiti cui deve rispondere sul piano sanitario e della sicurezza", ovvero "quando è conforme alle norme nazionali non cogenti che recepiscono le norme europee i cui riferimenti sono stati pubblicati dalla Commissione europea nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee a norma dell'art. 4 della direttiva 2001/95/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 dicembre 2001".

In assenza di tali norme, dice ancora la disposizione in esame, "la sicurezza del prodotto è valutata in base alle norme nazionali non cogenti che recepiscono norme europee, alle norme in vigore nello Stato membro in cui il prodotto è commercializzato, alle raccomandazioni della Commissione europea relative a orientamenti sulla valutazione della sicurezza dei prodotti, ai codici di buona condotta in materia di sicurezza vigenti nel settore interessato, agli ultimi ritrovati della tecnica, al livello di sicurezza che i consumatori possono ragionevolmente attendersi".

Ora, a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine all'opportunità della scelta del legislatore di rinviare a fonti tanto eterogenee per l'individuazione dei parametri alla luce dei quali il giudice sarà chiamato a valutare la sicurezza/non sicurezza del prodotto - e, conseguentemente, a valutare l'applicabilità o meno della contravvenzione di cui all'art. 112 -, ciò che emerge con sufficiente chiarezza dalla lettura combinata degli artt. 103 e 105 è che il giudizio di pericolosità del singolo prodotto deve necessariamente sostanziarsi in un giudizio di conformità/non conformità a specifici standard di sicurezza, che vanno enucleati da una delle fonti indicate dall'art. 105 e che il giudice dovrà poi puntualmente indicare in sede di motivazione.

Ciò che, invece, non è accaduto nella sentenza in commento, ove il giudice, per motivare il giudizio di pericolosità del prodotto, si è limitato a evocare un non meglio definito concetto di pericolosità intrinseca, senza tuttavia chiarire quali specifici requisiti di sicurezza risulterebbero violati nel caso concreto, e, in particolare, senza indicare alcuna norma che imponga che nelle calzature non vi debba essere alcuna traccia di cromo esavalente; il che, in definitiva, non consente di apprezzare con sufficiente precisione su quali dati si fondi la presunzione di pericolosità che ha condotto all'applicazione della contravvenzione ex art. 112.