ISSN 2039-1676


19 giugno 2014 |

Antonella Massaro, La responsabilità  colposa per omesso impedimento di un fatto illecito altrui, Jovene, 2013

Recensione

Il libro di Antonella Massaro, assumendo ad oggetto la responsabilità colposa per l'omesso impedimento dell'altrui fatto illecito, affronta uno dei tema più complessi del diritto penale, là dove il combinarsi della coppia concettuale posizione di garanzia-obbligo di diligenza costituisce un paradigmatico banco di prova per la tenuta dei principi di legalità e di colpevolezza.

Al riguardo si assiste da tempo alla progressiva dilatazione della sfera applicativa di questo peculiare ambito della responsabilità, che si vorrebbe del tutto "eccezionale", ma che finisce per divenire sempre più ordinario, in considerazione del proliferare delle posizioni garanzia e dell'ampiezza di obblighi cautelari, ancora modellati sugli archetipi della culpa in vigilando o della culpa in eligendo.

Pur dando atto della diffusa tendenza giurisprudenziale a moltiplicare gli obblighi di vigilanza e controllo sull'altrui condotta, l'indagine svolta dalla Massaro trae origine dalle fattispecie positive rinvenibili nell'ordinamento e strutturate sullo schema dell'omesso controllo, con particolare riguardo alla responsabilità per reati commessi a mezzo stampa di cui agli artt. 57 e 57-bis c.p., alla responsabilità del concessionario di trasmissione radiofoniche e televisive prevista dalla legge n. 223 del 1990, ed alle ipotesi di responsabilità colposa da comando introdotte dall'art. 28 dello Statuto della Corte penale internazionale.

La questione della responsabilità del direttore di un periodico per i reati commessi a mezzo stampa assurge inevitabilmente a paradigma della responsabilità per omesso controllo, ma i rapporti tra piano dell'omissione e piano della colpa restano tutt'altro che definiti, pur a fronte delle rilevanti modifiche apportate dalla legge n. 127 del 1958. In particolare risulta tangibile il rischio di ritenere sussistente l'omissione in virtù della mera verificazione dell'evento, finendo con il configurare una vera e propria responsabilità di posizione.

Per ovviare a tale pericolo, l'Autrice opportunamente suggerisce di valorizzare il ruolo svolto dalle regole cautelari già in sede di individuazione della condotta tipica, al di là della sussistenza di una posizione di garanzia conseguente all'assunzione di una funzione di controllo e vigilanza. In questa direzione una descrizione maggiormente puntuale del comportamento doveroso imposto può senz'altro ricavarsi dal concetto di "organizzazione", che consente di differenziare il contenuto delle regole cautelari in cui si estrinseca l'obbligo di controllo in considerazione delle dimensioni e dell'attività svolta in concreto dall'azienda.

L'art. 57 c.p. viene analizzato, non solo in riferimento alle interferenze tra omissione e colpa, ma anche in riferimento ai controversi rapporti con la disciplina del concorso di persone nel reato, partendo dall'analisi delle posizioni assunte in dottrina in merito alla portata della clausola di riserva ivi contenuta. In particolare l'Autrice, già in questa sede, anticipa una conclusione che in seguito verrà ulteriormente argomentata, secondo la quale il fondamento dell'obbligo di impedimento dell'altrui illecito va rinvenuto specificatamente nell'art. 40, comma 2, c.p.

Un'ulteriore conferma del rilievo assunto dal paradigma concettuale dell'omesso impedimento colposo di un fatto illecito altrui, si ricava dall'art. 28 dello Statuto della Corte penale internazionale, rubricato "responsabilità dei capi militari ed altri superiori gerarchici", che espressamente prevede ipotesi di "responsabilità da comando", sia in capo a coloro che svolgono funzioni di comando militare, sia, al secondo comma, in capo ai cd. "superiori civili", là dove, accanto a criteri di imputazione fondati su stati psicologici effettivi, fanno la loro comparsa situazioni descritte in termini normativi e riconducibili ad una "responsabilità per colpa". Anche in riferimento a tale peculiare imputazione la giurisprudenza ha mostrato "evidenti contiguità rispetto allo schema della responsabilità da posizione", esemplificando in maniera paradigmatica il rischio di una sovrapposizione tra omissione e colpa, posto che quest'ultima tende a ridursi a mera "clausola di stile".

Al di fuori delle ipotesi in cui il diritto positivo prevede esplicitamente l'omesso impedimento colposo di determinati reato, occorre rifarsi ai principi generali ed in particolare all'art. 40, comma 2, c.p., come comprovato dalla vicenda interpretativa relativa all'esistenza o meno di un obbligo di impedimento di commissione dei reati in capo agli appartenenti alle forze dell'ordine. Sul punto la nostra dottrina maggioritaria tende a negare la possibilità di individuare un generalizzato obbligo di impedimento, sia perché difetterebbe il requisito sostanziale della incapacità del soggetto che si pretende di identificare quale oggetto di una posizione di controllo delle forze dell'ordine, sia perché mancherebbe il requisito della "specialità", non essendo concepibile una posizione di garanzia che si estenda a tutti i beni di tutti i consociati. La questione è comunque emblematica delle incertezze che continuano a registrarsi nell'individuazione di un obbligo di garanzia avente ad oggetto fatti illeciti commessi da soggetti terzi, specie quando la responsabilità per omesso impedimento dell'evento mostri significativi punti di connessione con la disciplina del concorso di persone nel reato.

La responsabilità per il mancato impedimento di un fatto illecito altrui viene quindi calata nella cornice sistematica del reato omissivo improprio colposo, per un verso ripercorrendo le tappe del travagliato processo di emancipazione dall'archetipo del reato commissivo doloso, per l'altro individuando il segno più evidente dell'autonomia dell'omissione colposa nella sua indiscussa "natura normativa", che però "ben descrive la pericolosa contiguità dei due nuclei normativi".

L'Autrice passa poi a considerare il concetto di "dominabilità" quale filo conduttore in grado di guidare un'indagine che tagli trasversalmente l'elemento oggettivo e quello soggettivo della fattispecie. Nel reato omissivo colposo tale giudizio non si limita a richiedere la mera possibilità di agire diversamente ma, quale concetto di sintesi, va inteso come possibilità, giuridica e materiale, di adeguare il proprio comportamento a quello imposto dall'ordinamento, attraverso un giudizio che si articola in tre componenti: la predeterminazione della regola cautelare e dunque la sua previa riconoscibilità; la possibilità di agire diversamente, intesa come possibilità di tenere una condotta conforme a quanto prescritto dal modello astratto di comportamento; la possibilità di agire utilmente e quindi la possibilità di ottenere concretamente il risultato atteso.

A giudizio della Massaro tale concetto potrebbe effettivamente contribuire a rendere maggiormente afferrabile l'assai poco descrittivo contenitore della esigibilità, affrancando il concetto di "potere" dalla mera possibilità materiale di intervento e conferendogli una dimensione più propriamente "giuridica", attraverso l'esatta individuazione del modello di comportamento astratto e la necessaria attualizzazione dello stesso in riferimento alla fattispecie concreta.

Ad accumunare omissione e colpa c'è anche il carattere "eccezionale" di tali forme di responsabilità, da intendere non già come modello secondario sotto il profilo qualitativo e quantitativo rispetto alla regola rappresentata dal reato commissivo, ma come schema di responsabilità applicabile solo a determinati soggetti previamente individuati e solo al verificarsi di tutte le condizioni richieste dall'ordinamento, al fine di contenere le spiccate tendenze espansive del modello in questione. In questa direzione l'imprescindibile carattere "giuridico" dell'obbligo di impedimento dell'evento rappresenta l'esatto equivalente del principio secondo cui, in tema di colpa, le regole cautelari devono essere preesistenti e predeterminate rispetto alla condotta posta in essere dal soggetto agente, con ciò emergendo il carattere deontico-relazionale dell'omissione e della colpa.

Preliminare alla trattazione dell'omissione penalmente rilevante è poi l'annosa questione relativa all'actio finium regundorum tra agire ed omettere, ancora avvolta da notevoli incertezze interpretative, come testimoniato dalle oscillazioni giurisprudenziali che si registrano nei due paradigmatici settori dell'attività medico-chirurgica e dell'esposizione dei lavoratori a sostanze tossiche. Al riguardo, se è vero che a seguito della cd. sentenza Franzese la distinzione sembra aver perso le sue ricadute in termini di rigore nell'accertamento del nesso eziologico, è altrettanto vero che solo una chiara differenziazione tra agire ed omettere consente di evitare che la qualificazione della condotta venga strumentalizzata per semplificare l'accertamento processuale.

Il cd. momento omissivo della colpa costituisce infatti il primo punto di interferenza tra colpa ed omissione, comportando il rischio di un'automatica conversione di ogni reato colposo in reato omissivo e, in secondo luogo, il sostanziale annullamento del nesso tra violazione della regola cautelare ed evento entro la formula della causalità omissiva, quando invece non dovrebbe esserci difficoltà nell'ammettere che anche l'azione colposa si risolva, in definitiva, nell'omissione di cautele doverose.

Nella ricerca dei criteri atti a discernere tra azione ed omissione, una volta ritenuta non risolutiva la distinzione tra comandi e divieti, l'Autrice ritiene preferibile la tesi volta a distinguere tra situazioni in cui l'agente abbia introdotto un nuovo fattore di rischio e situazioni in cui l'agente non abbia contrastato un rischio già esistente, a prescindere dalla presenza o meno di contegni naturalisticamente attivi. A risultati simili a quest'ultima ricostruzione perviene poi la tesi che incentra la distinzione sul momento della catena eziologica che risulta significativo ai fini dell'individuazione della causa penalmente rilevante, rectius al momento in cui risulti avviato il decorso causale che ha avuto come esito finale l'evento hic et nunc divenuto "incontrollabile" .

Di particolare interesse risulta poi l'originale parallelismo svolto dall'Autrice tra tutela civile e tutela penale in relazione al concetto di "fatto altrui", con particolare riguardo ai suoi rapporti con le categorie di "fatto proprio" e "fatto colpevole". Per quanto infatti il concetto stesso di responsabilità per fatto altrui, in considerazione dell'art. 27 Cost., segni il punto di massima distanza tra l'illecito civile e l'illecito penale, non può negarsi che proprio il tema della responsabilità penale per l'altrui fatto illecito celi il rischio di indebiti sconfinamenti in forme di responsabilità di posizione non dissimili dalle espresse ipotesi di responsabilità rinvenibili nel codice civile. In particolare, a giudizio della Massaro, proprio quando si discuta dell'omesso impedimento dell'illecito altrui, capita di imbattersi in esiti applicativi sorprendenti, posto che, per un verso la giurisprudenza civile sembra a volte "temperare l'altrimenti troppo ampio spettro applicativo di talune forme di responsabilità oggettiva", per l'altro, invece, la giurisprudenza penale rischia di appiattirsi su schemi e argomenti di chiara matrice civilistica, come la culpa in vigilando o la culpa in eligendo.

L'Autrice passa quindi ad analizzare la parabola della responsabilità penale "personale" in presenza di un illecito altrui, ritenendo di non poter prescindere da un rimando ai principi di autoresponsabilità e di affidamento, per quanto gli stessi non sempre risultino bene definiti nella loro portata sistematica e nei loro rapporti reciproci. Partendo dal contesto della causalità individuale viene in esame specificatamente l'art. 41, comma 2, c.p., con particolare riguardo al ben noto problema delle cd. cause mediate della responsabilità colposa, in riferimento al quale la Massaro suggerisce una possibile integrazione dell'accertamento del nesso di causalità materiale sulla base di coefficienti di tipo "soggettivo", senza con ciò giungere ad un'indebita anticipazione dei giudizi relativi al dolo e alla colpa. Un'effettiva interruzione del nesso causale ex art. 41 c.p., infatti, può dirsi sussistente solo laddove il fattore causale sopravvenuto ed apparentemente indipendente risulti non previsto né prevedibile nel momento in cui è stata posta la condotta umana precedente. Qualora invece il fattore causale sopravvenuto consista nell'altrui fatto illecito e sia stato oggetto di rappresentazione o comunque rappresentabile per il soggetto agente, viene in considerazione una possibile ipotesi di concorso di persone nel reato ex art. 110 o 113 c.p.

L'Autrice si sofferma poi a considerare i rapporti che intercorrono tra la colpa e le cd. forme di responsabilità oggettiva, ritenendo non corretto sostenere necessariamente l'equivalenza tra responsabilità penale e responsabilità "per colpa", con la conseguenza di subordinare l'affermazione della responsabilità penale all'accertamento dei requisiti di imputazione specificatamente richiesti per la colpa. Il principio di personalità della responsabilità penale impone infatti di ricercare, anche nelle ipotesi riconducibili all'art. 42, comma 3, c.p., un requisito di imputazione ulteriore rispetto al mero nesso causale, ma strutturalmente diverso, sia rispetto al dolo che rispetto alla colpa. Ciò in quanto le peculiarità della colpa penale, fondata sulla violazione di regole modali e su una responsabilità da rischio illecito che afferisce ad un'attività di base lecita, risultano difficilmente compatibili con le attività ritenute dall'ordinamento illecite in radice. In tali contesti, infatti, la norma che meglio si presta a fungere da "valvola di sicurezza" rispetto alla presunzione della potenzialità lesiva di certe condotte operata dal legislatore viene individuata nella previsione di cui all'art. 45 c.p., la quale impedisce che la semplificazione probatoria introdotta dal legislatore si traduca in un'autentica presunzione assoluta in ordine al collegamento soggettivo minimo tra soggetto e fatto di reato.

La Massaro passa quindi ad affrontare l'obbligo di impedimento del fatto illecito altrui nella sistematica dei reati omissivi impropri colposi precisando come, per quanto concerne la base giuridica su cui fondare tale responsabilità, per un verso può ipotizzarsi una diretta applicabilità dell'art. 40, comma 2, c.p., ritenendo che il concetto di evento possa ricomprendere anche il fatto illecito altrui; per l'altro occorre rifarsi alle disposizioni in materia di concorso di persone nel reato, chiarendo se le stesse rivestano una mera funzione di disciplina o una vera e propria funzione incriminatrice. Per quanto l'adozione della seconda opzione risulti spesso considerata come "metodologicamente necessaria", si perviene a conclusione opposta laddove si ritenga che la clausola generale di cui all'art. 40, comma 2, c.p. possa essere riferita all'omesso impedimento del reato altrui.

Al riguardo la Massaro sostiene in maniera convincente che una lettura ampia del concetto di evento nell'art. 40, comma 2, c.p., tale da ricomprendere l'illecito altrui, non pare incontrare ostacoli decisivi né sotto il profilo testuale né sotto quello sistematico, basti considerare ad esempio l'art. 116 c.p., in cui il termine evento equivale a "fatto di reato nel suo complesso". Inoltre, se è vero che nelle ipotesi di omesso impedimento, in assenza di un risultato esteriore, manca proprio quel quid che possa essere giuridicamente cagionato ed in riferimento al quale possa ipotizzarsi una responsabilità per omissione, è altrettanto vero che tali considerazioni perdono la loro rilevanza allorquando si consideri l'omesso impedimento di un illecito altrui, che finisce per costituire proprio quell'elemento naturalisticamente e giuridicamente distinto dalla condotta, rispetto al quale diviene logicamente possibile verificare l'efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito. In questa direzione è sufficiente riferirsi al concetto di offesa quale traduzione giuridica del concetto di evento, valorizzando la sua precipua dimensione oggettiva quale lesione o messa in pericolo del bene oggetto di tutela.

Di seguito l'Autrice affronta un'altra questione particolarmente dibattuta, ovvero la collocazione classificatoria dell'obbligo di impedimento dell'illecito altrui, là dove in particolare ci si chiede se tale obbligo vada ricondotto nella tradizionale dicotomia tra obblighi di  protezione e obblighi di controllo o se invece assuma una caratterizzazione tale da configurare una categoria autonoma. La Massaro, al riguardo, ribadisce di non  dover muovere dal presupposto di un collegamento necessario tra l'omesso impedimento del reato altrui e la disciplina del concorso di persone, per cui, l'eventuale collocazione dell'obbligo di impedimento dell'illecito altrui in una categoria ulteriore rispetto a quella degli obblighi di protezione e di controllo potrebbe ammettersi per il peculiare contenuto dell'obbligo di impedimento in questione, ma non per il suo diretto ed ineludibile legame con la disciplina del concorso di persone nel reato.

Quanto poi all'annosa questione dell'esatta individuazione delle fonti da cui può ricavarsi l'obbligo giuridico di impedire l'evento, con particolare riguardo alla ben nota disputa tra concezione formale e concezione sostanziale, si ritiene che, in un ordinamento fondato sul principio di stretta legalità, i criteri sostanziali non possano assumere il ruolo di autentiche alternative rispetto ai criteri formali, ma possano fungere da correttivi ai quali ricorrere per evitare che la giuridicità formale degeneri in mero formalismo, andando a colmare il possibile scarto tra il piano astratto individuato dalla giuridicità formale e quello concreto modellato sulle peculiarità del singolo caso. Ciò che non può mancare è però la predeterminazione dell'obbligo, che determina l'affidamento di un certo bene al soggetto garante in un momento antecedente rispetto all'insorgere della situazione di pericolo che attualizza l'obbligo stesso.

Di qui la Massaro giunge alla conclusione per la quale l'obbligo giuridico di impedimento di un illecito altrui è ravvisabile nei soli casi in cui il preteso responsabile sia titolare di poteri giuridici che gli consentano di intervenire sulla sfera giuridica altrui e la cui attivazione è considerata doverosa da parte dell'ordinamento, situazione che si riscontra di regola nei rapporti di tipo gerarchico, ma non in relazione ai casi in cui, per il soggetto controllato, residuino margini di scelta in ordine alla condotta da tenere, dovendosi distinguere il piano dei poteri giuridici da quello della mera possibilità materiale di intervento nel caso concreto.

La rilevanza della possibilità materiale di agire del preteso garante può in realtà collocarsi anche sul piano della cd. suitas, incidendo non tanto sulla delimitazione dell'obbligo di garanzia, quanto direttamente sulla definizione dei requisiti della coscienza e volontà, mediante il già precisato concetto di "dominabilità". A parere dell'Autrice infatti la coscienza e volontà andrebbero accertate nel primo momento in cui sia possibile muovere al soggetto un rimprovero di negligenza o di imprudenza con riferimento concreto al tipo di evento che si è verificato, per cui ogni qual volta sopravviene un fattore necessitante (ad es. un malore alla guida) il giudizio di prevedibilità riguarda solo tale fattore, mentre nella colpa la prevedibilità e l'evitabilità dell'evento devono essere riferite all'intero fatto di reato. Quanto, infine, alla possibilità di agire "utilmente", nei casi in cui l'obbligo giuridico di impedire l'evento abbia ad oggetto specifico l'altrui condotta illecita, si rende anzitutto necessario verificare che la condotta non impedita sia stata causa del risultato vietato, per poi verificare se l'esercizio dei poteri impeditivi di cui è titolare il garante fosse in grado di impedire quella condotta e, quindi, quell'evento.

Nell'ultima parte della trattazione l'Autrice rileva come la ricostruzione della colpa penale sotto il filo conduttore della "dominabilità", nella verifica delle sue tre componenti (riconoscibilità della regola di comportamento, possibilità di agire diversamente e possibilità di agire utilmente), è resa particolarmente complessa dalla natura ibrida di questo criterio di imputazione, con ciò riferendosi alla cd. doppia misura della colpa penale, per cui il giudizio viene solitamente scomposto in due momenti, uno di carattere oggettivo e generalizzante, l'altro di tipo soggettivo ed individualizzante. Occorre sottolineare però che intanto può riconoscersi alla doppia misura della colpa una reale autonomia dogmatica, in quanto si individuino parametri di accertamento differenziati tra misura soggettiva e misura oggettiva e, non a caso, proprio nell'individuazione di tali parametri, si riscontrano le maggiori divergenze, per cui dall'adozione di medesime premesse discendono spesso conclusioni diversificate.

Al riguardo la Massaro ritiene che, per quanto attiene ai parametri di giudizio atti ad individuare oggettivamente i contenuti del comportamento diligente, non si possa prescindere dal riferimento al parametro dell'homo eiusdem professionis et condicionis, sebbene siano per molti aspetti condivisibili le perplessità avanzate rispetto allo sfuggente misura dell'agente modello, "condensato di umane virtù". Tale parametro mantiene un carattere eminentemente oggettivo, posto che solo nominalisticamente focalizza l'accertamento sul soggetto agente, fondandosi in realtà sull'id quod plerumque accidit e sulla "attività modello".

Per conferire un'effettiva utilità alla teoria della cd. doppia misura della colpa è necessario poi differenziare i parametri di giudizio dei due momenti dell'imputazione e riferire il giudizio di individualizzazione specificatamente all'agente concreto. L'Autrice non ritiene infatti decisiva la ben nota obiezione secondo la quale, considerando tutte le caratteristiche dell'agente, si giungerebbe sempre a ritenere non esigibile la condotta conforme a quella prescritta dall'ordinamento per il semplice fatto che nella realtà non è stata tenuta. La circostanza per cui l'agente non abbia preveduto il verificarsi di un determinato risultato significa soltanto che non si è adeguato al modello di agire imposto, ma non anche che, in quelle stesse condizioni, non avrebbe potuto e dovuto prevedere ed evitare un certo risultato. D'altronde la tendenza ad un'effettiva individualizzazione del giudizio di imputazione emerge a più riprese sia in dottrina che in giurisprudenza, basti pensare all'opinione sufficientemente condivisa secondo cui il parametro dell'homo eiusdem professionis et condicionis andrebbe corretto ed integrato sulla base delle maggiori conoscenze eventualmente possedute dall'agente concreto. Si tratta, in particolare, di specificare adeguatamente il "modello" di riferimento, senza con ciò anticipare il riferimento all'agente concreto in sede di individuazione della regola cautelare e senza rinunciare alla distinzione tra misura oggettiva e misura soggettiva.

Garantire la preventiva determinazione della regola cautelare diviene assai complesso nei contesti di incertezza scientifica ed in particolare nei casi di progressiva acquisizione di conoscenze scientifiche, là dove l'incertezza nomologica è riferibile alla prospettiva ex ante del soggetto agente, ma superata ex post al momento del giudizio. Si tratta dei ben noti rapporti tra regola cautelare ed evoluzione del sapere scientifico, che sottendono il rischio di individuare vere e proprie "regole cautelari retroattive", improntate al paradigma della precauzione. Le difficoltà si concentrano nell'individuazione del momento a partire dal quale si può pretendere che l'agente riconosca i rischi connessi ad una determinata attività e l'Autrice, al riguardo, aderisce alla posizione della dottrina maggioritaria secondo cui l'osservanza della regola cautelare diventa doverosa nel momento in cui le conoscenze specialistiche trovano adeguata diffusione e l'agente modello è in grado di acquisirle, ferma restando l'eventuale rilevanza delle sue maggiori conoscenze.

Diviene centrale inoltre il riferimento alla cd. causalità della colpa, per quanto il requisito della cd. concretizzazione del rischio non sembri dotato di effettiva autonomia nella sistematica del reato colposo, poiché in realtà concorre all'individuazione della regola stessa, selezionando "a monte" la condotta penalmente rilevante.

Altro momento fondamentale dell'imputazione colposa è costituito dalla descrizione dell'evento che la regola cautelare mira ad evitare, là dove per un verso una descrizione troppo ampia dell'evento finirebbe per vanificare l'accertamento in questione, per l'altro una particolarizzazione dello stesso, che pretendesse di ricomprendere tutte le peculiarità del caso di specie, rischierebbe di rilevarsi paralizzante. A giudizio dell'Autrice le conoscenze disponibili ex post possono precisare lo scopo di tutela solo allorquando ineriscano ad una regola la cui finalità preventiva, sebbene riferita a classi diverse di eventi, fosse già nota al momento della condotta, potendosi fondatamente distinguere la preventiva riconoscibilità del comportamento doveroso e la mera ampiezza dello scopo di tutela che alla stessa regola si ritenga di attribuire.

Quanto poi alla valutazione circa l'effettiva rilevanza del comportamento alternativo diligente, la Massaro non ritiene sufficiente l'accertamento del mero aumento del rischio, non potendosi comprendere fino in fondo le ragioni "di una sorta di sistemazione gerarchica degli elemento di reato, tale per cui, a mano a mano che ci si allontana dall'elemento oggettivo, sarebbero giustificati modelli di accertamento meno rigoroso". In particolare a suscitare perplessità è il contrasto che verrebbe a determinarsi rispetto al principio dell'in dubio pro reo, ormai codificato all'interno dell'ordinamento quale canone generale.

Il rischio di sovrapposizione tra causalità della colpa e causalità materiale risulta tangibile in riferimento alle fattispecie omissive, posto che la condotta omissiva colposa è descritta dalla congiunta operatività dell'obbligo di garanzia e dell'obbligo di diligenza e la regola cautelare rileva già in sede di descrizione della condotta da "aggiungere mentalmente", per verificare la sussistenza del nesso di causalità materiale.

Tale regola, però, non può essere solo quella riconoscibile ex ante, altrimenti il giudizio sulla causalità perderebbe la sua caratteristica di giudizio di imputazione da effettuare alla stregua delle conoscenze disponibili al momento del giudizio ed i due accertamenti sarebbero perfettamente sovrapponibili.

Con estrema chiarezza di pensiero l'Autrice sottolinea che in realtà, quando si tratti di accertare il nesso causale, l'ampiezza dello scopo della regola cautelare disattesa ben può essere valutata sulla scorta delle conoscenze riferibili al momento del giudizio, dovendosi recuperare la prospettiva ex ante relativa alla valutazione delle regole precauzionali riconoscibili al momento della condotta in tema di accertamento della cd. causalità della colpa.

La Massaro individua infine la sede fisiologica dell'obbligo di impedimento di impedimento di un fatto altrui nelle organizzazioni piramidali, là dove il vertice è "per definizione" dotato di poteri-doveri giuridici che gli consentono di intervenire nella sfera giuridica dei sottoposti. Per tali soggetti l'obbligo di impedimento risulta però inevitabilmente privo di un'effettiva capacità selettiva e, nella ricerca di una più puntuale descrizione del comportamento diligente, un utile punto di riferimento può essere rinvenuto nel concetto di corretta organizzazione che, una volta mutuato dal paradigma della responsabilità a reato degli enti, andrebbe impiegato sul piano della colpa individuale, per meglio circoscrivere i contorni del comportamento diligente.

Non a caso da tempo si assiste ad una sempre più accurata "procedimentalizzazione dell'agire diligente", basti pensare agli archetipi dell'attività d'impresa e nell'attività medico-chirurgica. In merito l'Autrice sottolinea l'alto tasso di positivizzazione che caratterizza la normativa in tema di sicurezza sul lavoro di settore, con particolare riguardo al d.lgs. n.81/2008 che, nello sforzo di una più puntuale definizione dei soggetti responsabili, ricorre spesso ai concetti di "potere" e di "organizzazione". Nell'attività medica plurisoggettiva trova invece piena espressione la dialettica tra principio di affidamento e dovere di vigilanza sull'operato altrui, per quanto il rapporto regola-eccezione tende a presentarsi sempre più in termini capovolti, là dove invece non sembra potersi prescindere da una valutazione parametrata sulle caratteristiche peculiari della diverse fattispecie.

In tali situazioni  la Massaro ritiene che lo schema generale della colpa di organizzazione risulti maggiormente predeterminabile rispetto ad uno slabbrato obbligo di vigilanza, per cui il soggetto in posizione apicale potrebbe legittimante confidare sul corretto adempimento dei propri collaboratori, a meno che sia possibile ravvisare una sua colpa per l'organizzazione e ferma restando l'eccezione dell'errore altrui riconoscibile.

La tendenza alla "procedimentalizzazione" dell'agire diligente ha trovato poi un accoglimento parziale nell'art. 3 della legge n. 189/2012, meglio nota come legge Balduzzi, volta a configurare una nozione di colpa maggiormente determinata e selettiva, attraverso l'espressa indicazione di parametri di giudizi codificati e predeterminati come le linee guida e le buone pratiche accreditate presso la comunità scientifica. Al riguardo, l'Autrice si interroga sulla possibilità che le linee guida o i protocolli contengano anche regole cautelari riferite all'operato altrui, là dove un'esclusione di responsabilità per il sussistere di una colpa lieve potrebbe verificarsi in ipotesi di errore altrui non agevolmente riconoscibile. Quanto invece al medico in posizione apicale il ricorso ad una più accurata procedimentalizzazione dei controlli potrebbe contribuire a rendere meno evanescente il riferimento alla "colpa per l'organizzazione".

Nel concludere la trattazione, la Massaro muove dalla considerazione secondo cui la pressoché automatica sovrapposizione tra l'omesso impedimento del reato altrui e il concorso di persone derivi dall'attenzione quasi esclusiva che viene riservata all'omesso impedimento doloso, in quanto la ricerca di un obbligo giuridico di impedimento dell'evento si rende necessaria solo nel caso in cui il contegno naturalisticamente omissivo non abbia avuto alcuna rilevanza nei termini di una causalità attiva, anche solo nelle forme della partecipazione psichica. Un analogo automatismo non sembra però rinvenibile nel caso dell'omesso impedimento colposo, tanto che il riferimento alla disciplina del concorso di persone appare il più delle volte finalizzato a colmare i presunti vuoti di tipicità riferibili alle fattispecie di omesso controllo ed omessa vigilanza.