Disattendendo un proprio precedente orientamento (cfr. da ultimo sez. III, 18.3-27.4.2004, n. 19514), la Suprema Corte ha ritenuto che il reato di omesso versamento dell’IVA all’importazione possa integrarsi anche con la condotta di chi – senza essere intervenuto nell’operazione di importazione abusiva – detenga tuttavia la merce illecitamente introdotta nel territorio dello Stato.
Un simile esito, secondo la pronuncia in esame, risulterebbe imposta da un’interpretazione conforme al diritto comunitario della normativa nazionale in materia di IVA: il Codice Doganale Comunitario (Reg. CEE 12.10.1992 n. 2913), infatti, assoggetta in solido al pagamento dell’imposta non solo chi abbia materialmente valicato il confine trasportando abusivamente la merce, ma anche quei soggetti che, successivamente, abbiano detenuto i beni pur essendo a conoscenza dell’obbligo di pagamento del tributo. Anche la Corte di Giustizia - prosegue la Cassazione - ha rilevato come il nucleo di disvalore della condotta non si esaurisca nel transito illecito della merce attraverso il confine, ma in tutte quelle condotte precedenti o successive che avessero il risultato di impedire all’Autorità di frontiera di effettuare i necessari controlli.
Pertanto, la sentenza in esame, rammenta al giudice del merito la necessità di valutare - anche nel caso in cui gli imputati non abbiano partecipato all’introduzione delle merci nel territorio italiano - la sussistenza di eventuali comportamenti ulteriori che abbiano sortito l’effetto di sottrarre i beni al debito controllo da parte dell’Autorità doganale.
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Senza addentrarsi in un’approfondita riflessione, ci si limita a notare come l’orientamento espresso in questa decisione, pur condivisibile per certi versi, non pare cogliere completamente nel segno.
L'orientamento giurisprudenziale da cui il Collegio si discosta, infatti, riteneva irrilevante ai fini dell’integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA la mera condotta di chi detenesse la merce senza aver partecipato all’illecita introduzione nel territorio nazionale, ravvisando altrimenti un’inaccettabile estensione analogica della fattispecie penale, che si incentra - dal punto di vista letterale - solamente sul momento di ingresso delle merci nel territorio nazionale.
A ben guardare, però, l’interpretazione “ampia” del concetto di importazione fornita dalla sentenza 42161 non sembra di per sé cadere nel divieto di analogia delle norme penali.
La definizione di “importazione” è infatti fornita dall’art. 67 d.P.R. 633/72, secondo cui “costituiscono importazioni le seguenti operazioni aventi per oggetto beni introdotti nel territorio dello Stato, che siano originari da Paesi o territori non compresi nel territorio della Comunità e che non siano stati già immessi in libera pratica in altro Paese membro della Comunità medesima, ovvero che siano provenienti dai territori da considerarsi esclusi dalla Comunità a norma dell'articolo 7:
a) le operazioni di immissione in libera pratica, con sospensione del pagamento dell'imposta qualora si tratti di beni destinati a proseguire verso altro Stato membro della Comunità economica europea;
b) le operazioni di perfezionamento attivo di cui all'articolo 2, lettera b), del regolamento CEE n. 1999/85 del Consiglio del 16 luglio 1985;
c) le operazioni di ammissione temporanea aventi per oggetto beni, destinati ad essere riesportati tal quali, che, in ottemperanza alle disposizioni della Comunità economica europea, non fruiscano della esenzione totale dai dazi di importazione;
d) le operazioni di immissione in consumo relative a beni provenienti dal Monte Athos, dalle isole Canarie e dai Dipartimenti francesi d'oltremare.”
A sua volta, l’art. 70 co. 1 del medesimo d.P.R. stabilisce che, in caso di irregolarità delle importazioni, si applichino le sanzioni previste dalle leggi doganali; la sanzione vera e propria è dunque contenuta all’interno del Testo Unico in materia doganale (d.P.R. 43/1973), ed in particolare dall’art. 282, che prevede una sanzione pecuniaria proporzionale all’imposta evasa.
Un tale complesso di norme disegna dunque una figura di reato che punisce con “la multa non minore di due e non maggiore di dieci volte i diritti di confine dovuti” (art. 282 co. 1 d.p.r. 43/1973) chiunque effettui l’importazione (nel senso delineato dall’art. 67 d.p.r. 633/1972) di merci impedendo l’applicazione dell’IVA.
Come si è visto, l’art. 67 d.p.r. 633/1972 adotta una nozione ampia di “importazione”, non limitata alla mera introduzione nel territorio dello Stato delle merci; nessun dubbio, dunque, che il legislatore abbia inteso - attraverso il richiamo alle sanzioni penali - punire comportamenti ulteriori rispetto alla mera introduzione abusiva di merci in Italia; e tale conclusione risulta ancor più lampante ove si noti che la fattispecie incriminatrice generale di cui all’art. 282 d.p.r. 43/1973 - rispetto a cui gli artt. 67 e 70 d.p.r. 633/1972 si pongono in rapporto di specialità - punisce solamente l’introduzione nel territorio dello Stato, e non già le ulteriori condotte appena descritte.
Ciò che pare meno condivisibile, invece, è l’inclusione anche della mera detenzione tra le condotte penalmente rilevanti. Come si è visto, la Cassazione effettua una simile operazione sulla base non già della definizione di "importazione" di cui all'art. 67 d.P.R. 633/1972, bensì del diritto comunitario, che considera soggetti obbligati al pagamento dell’IVA anche i detentori consapevoli dell’illecito trasporto transfrontaliero della merce.
La soluzione non sembra però reggere: tanto il richiamato Codice Doganale Comunitario, quanto le pronunce della Corte di giustizia, infatti, si occupano di definire quali siano i soggetti obbligati al pagamento dell’imposta, senza però prevedere alcuna equiparazione - con riguardo agli effetti penali della condotta di evasione - tra chi abbia materialmente effettuato il trasporto transfrontaliero e chi abbia successivamente detenuto. In altre parole, il diritto comunitario stabilisce che il detentore della merce sia obbligato in solido al pagamento del tributo, qualora l’importatore materiale non abbia assolto tale obbligo; non giunge, però, a imporre la sanzione penale in caso di mancato pagamento da parte del detentore medesimo - senza contare che, anche ove per absurdum un tale obbligo fosse desumibile dalla normativa comunitaria, esso rimarrebbe pacificamente sprovvisto di effetto diretto in malam partem, in difetto di una sua recezione da parte del legislatore nazionale, stante il principio (pacifico anche presso la giurisprudenza della Corte di giustizia) per cui un atto comunitario non può mai determinare, di per sé e in assenza di una normativa di attuazione dello Stato membro, la responsabilità penale di un individuo né il suo aggravamtento.
Non pare, di conseguenza, appropriato il ragionamento della Corte: se da una parte infatti si può condividere un’accezione ampia del termine “importazione” non limitato alla condotta di materiale introduzione, non si possono d’altro lato ritenere penalmente rilevanti tutte le condotte successive all'importazione che non siano penalmente sanzionate da espressa disposizione di legge.
Deve pertanto, in definitiva, preferirsi l’orientamento precedentemente espresso dalla Cassazione, che aveva avuto già modo di rilevare come nell’illecito di cui si tratta mancasse qualsivoglia clausola legislativa volta a consentire un’estensione della responsabilità penale anche al mero detentore, clausola viceversa esistente a proposito di diverse fattispecie penal-tributarie (cfr. ad es. l’art. 25 co. 2 d.p.r. 43/1973, secondo cui in caso di mancata o inattendibile prova della legittimità della provenienza delle merci il detentore è ritenuto responsabile di contrabbando).