ISSN 2039-1676


01 marzo 2011 |

Condannata l'Italia per il trattenimento di una donna Rom in un centro di permanenza temporanea

Nota a Corte EDU, sez. II, sent. 8 febbraio 2011, Pres. Tulkens, ric. n. 12921/04, Seferovic c. Italia

Con la pronuncia Severovic c. Italia dell’8 febbraio 2011, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 5 §§ 1 lett. f  e 5 Cedu, in relazione al trattenimento nel centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria di una donna di etnia rom, originaria della Bosnia Erzegovina, che aveva partorito da soli due mesi. Quanto alle ricadute sul sistema penale italiano, la decisione rende necessaria una riflessione sulla possibilità per il giudice italiano di riconoscere allo straniero che sia stato illegittimamente trattenuto nel corso del procedimento di espulsione il diritto ad un’equa riparazione – in assenza di una previsione espressa nella normativa vigente – dando diretta applicazione all’art. 5 § 5 Cedu, e impedendo così che l’ordinamento italiano possa violare i propri obblighi convenzionali.
 
1. La vicenda processuale
 
Prima di analizzare nel dettaglio le affermazioni rese dalla Corte nella pronuncia in commento, pare opportuno soffermarsi sulla vicenda dalla quale essa è scaturita.
La ricorrente, dal 1995 in Italia, viveva senza un permesso di soggiorno regolare nel campo nomadi di “Casalino 900” di Roma. Nel  settembre 2003 dava alla luce un figlio, che purtroppo moriva dopo soli due mesi in ospedale, dove la donna lo aveva tempestivamente portato a causa di una complicanza post natale. A seguito di un controllo della polizia in ospedale, la donna veniva condotta al commissariato perché priva di permesso di soggiorno e documenti di identità. Tre giorni dopo (e precisamente 11 novembre 2003) le veniva notificato un decreto di espulsione prefettizia; lo stesso giorno, il questore ordinava il suo trasferimento presso il centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria e la decisione veniva convalidata dal giudice di pace, nonostante le autorità fossero a conoscenza del fatto che la donna fosse puerpera. La ricorrente presentava, quindi, un ricorso diretto ad annullare l’ordine d’espulsione. All’esito del processo, il Tribunale di Roma accertava che il provvedimento di espulsione prefettizia era stato emesso in violazione dell’art. 19, comma 2, lett. d d.lgs. n. 286/1998, secondo cui non è consentita l'espulsione di una donna nei sei mesi successivi al parto; vale a dire, in questo caso, fino al 26 marzo 2004, a nulla valendo la circostanza che il bambino fosse tragicamente deceduto dopi soli due mesi dalla nascita. Per tale ragione, l’autorità procedente, con sentenza del 24 dicembre 2003, annullava il provvedimento di espulsione e ordinava di mettere in libertà la donna, che veniva immediatamente rilasciata (dopo ben quarantaquattro giorni di detenzione).
 
2. Le determinazioni della Corte europea sul merito del ricorso
 
La ricorrente lamenta la violazione dell’ art. 5 §§ 1 lett.  f  (per essere stata illegittimamente trattenuta in vista dell’espulsione) e 5 Cedu (per non aver avuto diritto ad ottenere un equa riparazione per la detenzione illegittimamente subita).
 
Per stabilire la legittimità della detenzione subita dalla ricorrente ai fini dell’art. 5 comma 1 lett. f Cedu (che, come è noto, consente l’arresto e la detenzione di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione), la Corte ritiene che occorra verificare se l’ordine con il quale il questore ha disposto il trattenimento della donna nel centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria, nelle more del procedimento di espulsione promosso nei suoi confronti, costituisca una base legale per la privazione della sua libertà, fino al momento in cui tale ordine è stato annullato.
 
Al riguardo la giurisprudenza europea opera una distinzione tra titoli detentivi manifestamente invalidi (come per esempio quelli adottati da un’autorità incompetente) che comportano l’illegittimità della detenzione; e titoli che appaiano prima facie validi ed efficaci e che vengano successivamente annullati da un’altra giurisdizione interna, che costituiscono, invece, una base legale per la detenzione per il periodo antecedente al loro annullamento [sul punto, con riferimento alla misura della custodia cautelare in carcere, cfr. Corte EDU, sent. 4 marzo 2008, Marturana c. Italia (ric. n. 63154/00)].
 
Per i giudici europei il provvedimento con cui il questore ha disposto il trattenimento della ricorrente, convalidato dal Giudice di pace e poi annullato dal Tribunale di Roma, è palesemente illegittimo poiché l’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, vieta l’espulsione della donna nei sei mesi successivi al parto e le autorità nazionali erano a conoscenza del fatto che la donna avesse appena partorito.
 
Per tali ragioni, dunque, la detenzione della ricorrente costituisce una grave e manifesta violazione dell’art. 5 § 1 lett. f Cedu.
 
Al riguardo la Corte richiama a contrario la sentenza Hokic e Hrustic c. Italia [Corte EDU, sent. 1° dicembre 2009 (ric. n. 3449/05) in cui  i giudici europei avevano escluso la violazione dell’art. 5 § 1 Cedu in relazione al trattenimento di due cittadini bosniaci nelle more del procedimento di espulsione, osservando come in quell’occasione i provvedimenti di espulsione erano stati adottati dal prefetto nell’ambito delle sue attribuzioni e in conformità con il diritto interno, mentre erano stati successivamente annullati dal giudice di pace nel corso del procedimento di convalida perché questi aveva accertato che i ricorrenti erano titolari di un regolare permesso di soggiorno.
 
Quanto alla violazione del diritto ottenere un’equa riparazione per la detenzione illegittimamente subita riconosciuto dall’art. 5 § 5 Cedu, la Corte ha constatato l’assenza nell’ordinamento italiano di una disposizione che permettesse alla ricorrente di proporre una domanda di riparazione per essere stata ingiustamente trattenuta nel centro di permanenza temporanea, dal momento che:
 
- l’art. 314 c.p.p. riconosce il diritto alla riparazione esclusivamente per il caso di custodia cautelare (ad esempio, la custodia in carcere o l’arresto domiciliare) subita ingiustamente. E in particolare, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato come la stessa Corte di cassazione italiana ha escluso l’applicabilità del principio di equa riparazione nel caso di detenzione illegittima disposta con riferimento all’istituto “limitrofo” dell’estradizione, [cfr. C. cass., sez. VI, 22 aprile 1997, n. 1648];
 
- la l. n. 117 del 1988, che disciplina la responsabilità civile dei magistrati, all’art. 2 comma 3 lett. d) limita la responsabilità dei magistrati per l’applicazione illegittima di una misura privativa della libertà personale ai casi di dolo o colpa grave;
 
- e infine, le autorità giurisdizionali italiane negano l’applicabilità diretta dell’art. 5 § 5 Cedu, che riconosce, appunto, il diritto ad una riparazione ad ogni persona che sia stata vittima di un arresto o di una detenzione in violazione dell’art. 5 Cedu [cfr. C. cass. II sez., sent. 20 maggio 1991, n. 2823, citata nella pronuncia in esame].
 
La Corte, accertata pertanto anche la violazione dell’art. 5 § 5, ha condannato l’Italia al pagamento di 7.500 euro a titolo di risarcimento del danno morale subito dalla ricorrente.
 
3. Alcune considerazioni di ordine generale a margine alla pronuncia della Corte
 
La pronuncia in esame rende necessaria una riflessione sulla possibilità per il giudice italiano di riconoscere allo straniero, che sia stato illegittimamente trattenuto nel corso del procedimento di espulsione (o di estradizione), il diritto ad un’equa riparazionein assenza di una previsione espressa nella normativa interna vigente – dando diretta applicazione all’art. 5 § 5 Cedu.
 
Giova sottolineare come la diretta applicazione della norma convenzionale interverrebbe in questo caso a colmare una lacuna della normativa italiana che, come dicevamo, non riconosce allo straniero il diritto all’equa riparazione per il caso di trattenimento illegittimo. In altre parole, si tratterebbe di dedurre dall’art. 5 § 5 Cedu l’ammissibilità di un rimedio giuridico non previsto nel nostro ordinamento, senza tuttavia disapplicare contestualmente una norma italiana incompatibile con la disciplina convenzionale: impedendo così che lo Stato italiano possa violare i propri obblighi convenzionali.
 
Per il vero, nella giurisprudenza di legittimità emergono orientamenti contrastanti riguardo alla possibilità per il giudice interno di dare diretta applicazione alle norme Cedu nella decisione del caso concreto sottoposto al suo esame. In particolare, la Suprema Corte ha affermato la possibilità di applicare direttamente una norma Cedu per colmare una lacuna della normativa italiana vigente in: sez. un. pen. 23 novembre 1988, Polo Castro, che afferma il carattere self executing dell’art. 5 § 4 Cedu; sez. I, 12 maggio 1993, Medrano, in relazione invece all’art. 8 Cedu e, più recentemente, sez. I, 12 luglio 2006, Somogyi, nella quale è stata riconosciuta l’illegittimità di un ordine di carcerazione emesso a seguito di una sentenza definitiva di condanna pronunciata in esito ad un processo giudicato ‘‘non equo’’ dalla Corte di Strasburgo, dando diretta applicazione alla art. 5 comma 4 Cedu che impone di ordinare l’immediata scarcerazione di una persona illegittimamente detenuta [per un’analisi approfondita, cfr. A Colella, Verso un diritto comune delle libertà in Europa: riflessioni sul tema dell’integrazione della Cedu nell’ordinamento italiano, in www.forumcostituzionale.it, sezione Paper]. Per quel che qui interessa, nega, invece, la diretta applicazione dell’art. 5 comma 5 Cedu, C. Cass. II sez., sent. 20 maggio 1991, n. 2823, citata nella pronuncia in esame.
 
La diretta applicabilità delle norme della Cedu, invece, è stata riconosciuta da lungo tempo da una parte della dottrina almeno nel caso in cui la diretta applicazione della norma intervenga a disciplinare un’area non previamente regolata dal diritto italiano: le norme della Cedu, infatti, hanno nell’ordinamento italiano il rango di fonte ordinaria, che deriva loro dal rango della legge di autorizzazione alla ratifica (cfr. l. 4 agosto 1955, n. 848) e come tali sono direttamente applicabili dal giudice interno, al pari di qualsiasi altra norma dell’ordinamento, laddove non contrastino con un’altra norma di rango ordinario, emanata successivamente alla l. n. 848 del 1995 [sul punto cfr. F. Viganò, Diritto penale sostanziale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007].
 
Secondo i sostenitori di tale tesi, del resto, tale conclusione non sembra essere stata posta in discussione nemmeno dalle sent. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale, che si limitano ad escludere espressamente che il giudice italiano possa disapplicare una norma ordinaria interna configgente con la Cedu in favore della norma convenzionale, affermando che nel caso di contrasto tra una norma interna e la Cedu, il giudice dovrà dapprima tentare di risolvere il contrasto in via interpretativa, quindi, verificata l’impossibilita` di un’interpretazione conforme alla Cedu, dovrà sollevare questione di illegittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 117 Cost. [sul punto, per un’analisi approfondita cfr. F. Viganò, Il diritto penale sostanziale italiano davanti ai giudici della Cedu, in Giur. merito, n. 12, 2008].
 
Sembrerebbero, inoltre, confermare la possibilità per il giudice ordinario di dare diretta applicazione alle norme Cedu – laddove non contrastino con alcuna norma interna contemporaneamente vigente – anche la recenti sentenze della Corte costituzionale nn. 311 e 317 del 2009 (affidate agli stessi giudici relatori delle sentenze gemelle del 2007), in cui la Corte, specificando quanto detto due anni prima, ha affermato che al giudice comune spetta il compito di interpretare la norma interna in conformità della Convenzione e alla Corte costituzionale quello di controllare, nell’impossibilità di operare un’interpretazione convenzionalmente conforme, che non continui ad avere efficacia nell’ordinamento nazionale una norma interna contrastante con la CEDU. In altre parole, se il giudice comune non può certamente procedere alla applicazione della norma Cedu in luogo di una norma interna con essa contrastante, dovendo in tal caso necessariamente sollevare una questione di legittimità costituzionale), a quest’ultimo non sembra, tuttavia, vietato di procedere alla diretta applicazione della norma convenzionale allorché alla sua applicazione non osti un’altra norma di rango ordinario.
 
La rilevanza delle norme Cedu come fonte del diritto idonea ad essere direttamente applicata dal giudice nazionale resta, peraltro, estremamente controversa, in particolare, come dicevamo, nella giurisprudenza di legittimità. Sarebbe quindi fortemente auspicabile che si giungesse ad una posizione definitiva sul punto, date le rilevanti implicazioni pratiche che ne discendono. Implicazioni pratiche che, del resto, risultano particolarmente evidenti nel caso in esame: il mancato riconoscimento da parte dei giudici interni della diretta applicabilità dell’art. 5 § 5 Cedu nel caso in cui lo straniero sia stato illegittimamente trattenuto nel corso del procedimento di espulsione (o di estradizione), infatti, esporrebbe l’Italia ad una serie potenzialmente infinita di condanne per la violazione di detta norma.