ISSN 2039-1676


09 ottobre 2015 |

Abuso del diritto e reati tributari: la Corte di Cassazione fissa limiti e ambiti applicativi

Cass., Sez. III pen., 1 ottobre 2015 (dep. 7 ottobre 2015), n. 40272, Pres. Squassoni, Est. Scarcella, imp. M.A.

 

1. Meritevole d'attenzione non soltanto per l'opportuna tempestività e l'indubbia oggettiva rilevanza della materia scrutinata, la qui pubblicata decisione della Corte di Cassazione fornisce una prima ma non per questo né affrettata né certo superficiale lettura dell'art. 10-bis l. 212/2000 (introdotto dall'art. 1 d.lgs 128/2015): il Giudice della Legge affronta e risolve in maniera condivisibile gli snodi essenziali che, sul versante penale, derivano dalla disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale, tema sul quale dottrina e giurisprudenza si erano ripetutamente interrogate con esiti incerti e sovente ben poco soddisfacenti.

In sintesi estrema il caso sottoposto ai giudici di legittimità consisteva nella ritenuta applicabilità dell'incriminazione dell'art. 4 d. lgs 74/2000[1] ad una complessa operazione finanziaria articolata in una serie di contratti di prestito titoli e di correlata scommessa sui dividendi, che avevano permesso l'esposizione nella dichiarazione dei redditi di elementi passivi fittizi. I giudici di merito, pur ammettendo in astratto la liceità dell'operazione negoziale «in quanto non fraudolenta, ma al più elusiva», avevano ritenuto che non se ne potesse negare la natura fittizia, partendo dalla constatazione che la stessa era stata costruita "a ritroso", partendo cioè dalla misura del risparmio fiscale da perseguire. Sicché la natura fittizia veniva riconosciuta pur ammettendosi l'esistenza in rerum natura degli elementi passivi, giudicati tuttavia fittizi in quanto creati artificialmente al solo scopo di essere esposti nella dichiarazione dei redditi, senza che gli stessi facessero riferimento a una effettiva operatività. Allo stesso modo veniva considerata irrilevante la natura non simulata (in senso civilistico) dei contratti (in quanto voluti come tali dalle parti ed eventualmente nulli per difetto di causa - l'alea), posto che ad aver rilevanza (nel previgente assetto normativo) era bensì la divergenza tra realtà economica ed espressione documentale della stessa (e non soltanto la mancanza assoluta dell'operazione e l'inesistenza in natura della voce passiva), osservandosi infine che anche ciò che è giuridicamente effettivo può altresì essere fraudolento e determinare effetti fittizi se sul piano economico non vi fu affatto l'operazione convenuta fra le parti.

Detto che siffatta conclusione (che la decisione in discorso giudica in astratto condivisibile alla luce della previgente normativa) sembra adombrare una nozione di fittizietà comunque legata a una inesistenza di carattere giuridico e non materiale, derivante quindi dallo scarto tra quanto risulta dall'apparato negoziale e quanto è avvenuto (o non avvenuto) sul piano economico, la Corte di Cassazione correttamente ritiene necessaria una radicale rivisitazione della materia alla luce della nuova disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale.

 

2. La decisone ripercorre dapprima l'iter storico della disposizione, segnalando che l'ordinamento, se pur non conosceva una nozione legislativa di abuso del diritto, prevedeva tuttavia una disposizione generale anti-elusiva (art. 37-bis d. P. R. 600/73, ora abrogato). Con apprezzabile acribia argomentativa la Corte regolatrice dà conto dei contenuti della legge delega (l. 11 marzo 2014, n. 23) e mostra come il nuovo art. 10-bis l. 212/2000 ne costituisca una sostanzialmente corretta attuazione: viene dapprima evidenziata la unificazione tra i concetti di elusione e di abuso del diritto, riconoscendo poi «i tre presupposti per l'esistenza dell'abuso: 1) l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che il vantaggio è l'effetto essenziale dell'operazione», mentre all'esigenza di dare all'abuso un rilievo massimamente oggettivo si deve ricondurre la clausola «indipendentemente dalle intenzioni del contribuente».

Procede l'esame con la considerazione delle specificazioni definitorie adottate dal legislatore per meglio circoscrivere i sintagmi «operazioni prive di sostanza economica» e «vantaggi fiscali indebiti», che per la Corte sono chiamati a svolgere una funzione di primario rilievo, posto che «la ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d'imposta dall'elusione».

Non dimentica da ultimo la Corte di legittimità di dar risalto anche alla previsione per la quale non rientrano nell'ambito dell'abuso del diritto anche le operazioni giustificate da non marginali ragioni extrafiscali, tra le quali vanno comprese anche quelle di ordine organizzativo o gestionale, strumentali al miglioramento strutturale o funzionale dell'attività d'impresa o professionale.

 

3. Un frettoloso lettore potrebbe legittimamente domandarsi la ragione di un siffatto percorso argomentativo, dal momento che il comma 13 dell'art. 10-bis l. 212/2000 esplicitamente afferma che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie», sicché la tentazione potrebbe essere quella di far rinvio al risalente dibattito in materia di elusione e abuso del diritto, limitandosi a prender atto dalla intervenuta sua estromissione dal penalmente rilevante.

Ma le cose non stanno affatto così: prima di riprendere il cammino segnato dai giudici della legge, sia permessa qualche notazione. Sta in principio il canone inflessibile della legalità, che governa il mondo del diritto penale: perché un fatto sia definibile come reato occorre che il comportamento (id est: la condotta concreta) sia sussumibile sotto una fattispecie incriminatrice. L'indiscussa ovvietà della constatazione non tragga in inganno: al cospetto dei temi dell'abuso del diritto e dell'elusione, il problema consiste (e consisteva, sub specie elusione/evasione) nel decidere se una condotta integratrice di una figura di abuso/elusione sia altresì riportabile a una delle figure d'incriminazione contemplate dalla normativa penaltributaria[2]. Sicché diventa cruciale, soprattutto alla luce di una disposizione che definisce, unificandole, le nozioni di abuso del diritto e di elusione, determinare con precisione massima il contenuto e i limiti di tali nozioni: traguardata la questione dal punto di vista del penalista, ciò significa individuare in maniera appropriata e adeguata criteri selettivi idonei per decidere quali condotte siano qualificabili come abusive del diritto e, pertanto, in osservanza del disposto dell'art. 10-bis l. 212/2000, per ciò solo non costitutive di reato.

Questo compito, tanto delicato quanto non rinunciabile, si è assunta la Corte di Cassazione, com'è istituzionalmente giusto e doveroso che sia.

Il primo passo ermeneutico muove dalla premessa appena sopra ricordata: in base al «nuovo art. 10 bis (...) l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del d. lgs. n. 74 del 2000, ovvero la violazione di altre disposizioni» (il dato ermeneutico si ricava immediatamente dal comma 12 del citato art. 10-bis, che funge da condizione negativa per la configurabilità dell'abuso[3]).

Detto in altre parole (ma sempre quelle dei giudici della legge): stando all'art. 5 della legge delega (cui l'art. 10-bis dà attuazione), l'abuso «postula l'assenza, nel comportamento elusivo del contribuente, di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza». Ciò che, come correttamente osserva la Corte stessa, «imprime alla disciplina dell'abuso caratteri di residualità», rimanendo «impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali - sempre, naturalmente, che ne sussistano i requisiti - nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (...). Parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi che (...) operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione».

Come ognun vede, si torna circolarmente al canone della legalità: perché una condotta sia penalmente rilevante occorre che la stessa sia sussumibile sotto una figura d'incriminazione. E alla definizione della tipicità contribuisce ora anche l'art. 10-bis l. 212/2000, che ridisegna per sottrazione le fattispecie di reato, escludendo dal loro perimetro i comportamenti rientranti nella nozione di abuso del diritto. Sicché, coerentemente con il principio informatore dettato dall'art. 8 legge delega (per il quale la reazione penale deve essere riservata soltanto ai «comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo della documentazione falsa»), dovranno considerarsi abusive (e dunque estranee al rilievo penale) condotte che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, siano prive di sostanza economica e volte essenzialmente alla realizzazione di un vantaggio fiscale.

Così, rispetto al caso esaminato dalla Corte di Cassazione, posto che, da un lato, «il contratto di prestito delle azioni (era) privo di sostanza economica ed essenzialmente volto alla realizzazione di un vantaggio fiscale indebito» (contratto costruito appositamente in funzione di un preciso risparmio fiscale) e, dall'altro, che «non è stata direttamente violata alcuna norma fiscale» (esistenza dell'accordo consolidato in un negozio giuridico formalmente ineccepibile, prestazioni effettivamente regolate, assenza di contratti simulati), la «condotta non può che essere considerata come penalmente irrilevante in forza della statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive sancita dal comma 13 del nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente».

 

4. Il breve riassunto della pregevole decisione della Corte di legittimità non potrebbe dirsi completo se non si facesse cenno anche alla questione, risolta con polso fermo e trama argomentativa ineccepibile, concernente la portata retroattiva della disposizione dell'art. 10-bis co. 13 l. 212/2000.

Detto che la non felice fattura del quinto comma dell'art. 1 d.lgs 128/2015 - a tenore del quale le disposizioni del nuovo art. 10-bis si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore al 1 ottobre 2015 per le quali, a tale data, non sia stato ancora notificato il relativo atto impositivo -  avrebbe potuto generare qualche perplessità (per vero plausibile soltanto in un distratto lettore non tanto pratico dei principi generali del diritto penale), la Corte di Cassazione ha cura di segnalare che il canone della retroattività della legge penale più favorevole di cui all'art. 2 c.p. non soffre qui limitazione alcuna nemmeno rispetto ai casi in cui, invece, sia stato già notificato l'atto impositivo da parte dell'amministrazione finanziaria.

Per un verso il vincolo costituzionale dell'art. 117 co. 1 importa il presidio dettato dall'art. 15 co. 1 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 (ratificato dall'Italia con l. 881/1977 e divenuto esecutivo il 15 dicembre 1978), che stabilisce la retroattività delle leggi penali più favorevoli, principio ribadito dall'art. 7 CEDU. Per altro canto, anche al cospetto dell'approccio della Corte costituzionale, secondo cui il legislatore può introdurre - con il limite della ragionevolezza - deroghe o limitazioni al principio di retroattività della legge più favorevole, il Giudice della Legge fa notare in primo luogo il canone dell'art. 15 Patto internazionale «non ammette deroghe» e, secondariamente, che «una deroga (...) non risponderebbe al principio di ragionevolezza».

L'avvenuta notifica dell'atto impositivo pone dunque un limite all'applicazione retroattiva dell'art. 10-bis nel procedimento amministrativo; ma non spiega alcun effetto sul piano penale.

Inevitabile a questo punto la conclusione: la sentenza di merito deve essere annullata, il fatto contestato non essendo, oggi, più previsto come reato.

 

5. Una considerazione conclusiva e qualche questione 'aperta'.

Sebbene la formulazione dell'art. 10-bis co. 13 l. 212/2000 sia tutt'altro che perspicua («le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie») e insuscettibile di fornire indicazioni all'interprete, occorre domandarsi se la disposizione in discorso dia luogo a una vera e propria abolitio criminis[4]. La sentenza non assume una posizione esplicita al riguardo: ma il dispositivo è suggestivo in tal senso (la formula terminativa è «il fatto non è più previsto dalla legge come reato») e, soprattutto, la trama argomentativa dà conto di una costruzione ermeneutica nella quale le condotte abusive vengono colte come estremi non più compresi nelle fattispecie astratte.

Se si osserva l'assetto normativo ora vigente, l'esito si presenta difficilmente controvertibile: la disposizione dell'art. 10-bis, al di là della formula linguistica certamente non meritevole di ricordo nella sintassi e nella prosa del penalista, dà vita a una sottofattispecie destinata a integrare - in negativo, per sottrazione - figure incriminatrici che contemplavano originariamente anche le condotte ora esplicitamente escluse dal rilievo penale (richiamando schemi tradizionali: verrebbe da dire che si è in presenza di un elemento negativo costitutivo del fatto, che il legislatore ha collocato non nella singola fattispecie astratta, bensì in una norma di carattere generale).

Riguardando il caso anche da un'altra prospettiva (e richiamando la distinzione di Hassemer fra Tatbestand e Typus), non sembra azzardato osservare che l'insieme dei fatti concreti astrattamente sussumibili sotto la fattispecie astratta si è ora ridotto, poiché quelli definibili come comportamenti abusivi fuoriescono dall'area di applicabilità della fattispecie astratta.

In sintesi: si è al cospetto di una abolitio criminis parziale, dal momento che ad essere espunta dall'ordinamento non è una figura di reato nella sua interezza, ma soltanto un tratto della fattispecie astratta, che il legislatore ha per tal modo ridisegnato, delimitandone i confini in modo diverso (e ridotto).

Ma se così è - e tutto lascia intendere che così sia - allora gli effetti della disposizione di nuovo conio finiranno con l'essere di ben vasta portata: in quanto abolitiva del reato, la valenza retroattiva travolge il giudicato con ben immaginabili effetti pratici di dimensioni non marginali, resi ancora più complessi e delicati dal fatto che il giudice chiamato a provvedere sarà 'costretto' a rivalutare il fatto, per poter decidere se la condotta punita integra o no una figura di abuso del diritto.

 

6. Quanto alle questioni aperte - e sulle quali occorrerà tornare dopo il tempo necessario a ragionare - alcune in ordine sparso.

Dapprima l'esigenza di approfondire e dettagliare la nozione di abuso del diritto: sul punto la decisione della Corte di Cassazione ha fatto molta strada, ma alcuni spazi meritano d'essere ancora esplorati (ad esempio: alcuni passaggi delle definizioni e delle specificazioni contenute nel comma 1 e nelle lettere a e b del comma 2 dell'art. 10-bis si presentano come parziali tautologie), tanto più che la nozione 'classica' di abuso del diritto si concentra sulla sua natura atipica, per sé incompatibile con l'illecito penale, esempio massimo di tipicità dell'illecito. Sicché l'idea stessa di abuso del diritto con rilevanza penale (ancorché in negativo) ne importa una definizione autonoma, valevole esclusivamente per la materia rispetto alla quale è stato introdotto (quella tributaria). Ciò che darebbe ragione anche di un'altra peculiarità: l'equiparazione tra elusione e abuso del diritto, dal momento che l'elusione fiscale era colta come una specie (almeno parzialmente tipizzata) del genere abuso del diritto (per sua natura atipico).

E poi la necessità di definire con esattezza la portata del comma dodicesimo dell'art. 10-bis, che, come s'è accennato, costituisce un limite esegetico della categoria dell'abuso di diritto, ma che si affida a una formula sintatticamente chiara, ma sul versante sistematico tutt'altro che scevra da incertezze interpretative.

E infine, in questo improvvisato catalogo, l'esigenza di coordinare la portata della norma sull'abuso del diritto con le riformulate incriminazioni del d. lgs 74/2000, così come emergono dal d. lgs 158/2015. Oltre alla già ricordata figura delittuosa della dichiarazione infedele (art. 4)[5], il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) presenta ora un terzo comma nel quale dalla nozione di mezzi fraudolenti sono esplicitamente esclusi «la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali».

Né in questo contesto possono sfuggire le nuove definizioni di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» (colte come «operazioni apparenti diverse da quelle disciplinate dall'art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti») e di «mezzi fraudolenti» da intendersi tassativamente come «condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà». 

 

7. La vicenda dell'abuso del diritto e la sua disciplina penale si presta a una riflessione d'altro genere, che principia con la distinzione fra disposizione e norma. La disposizione, nel suo farsi norma attraverso la ineliminabile (e necessaria) attività dell'interprete, ha finito con l'assumere una fisionomia che rischiava di avere connotati non sufficientemente precisi e determinati, che potevano riflettersi in passaggi applicativi ex ante non facilmente prevedibili. Sicché l'intervento legislativo, che opera sulla disposizione, si presenta in questo senso opportuno: sta all'interprete, che necessariamente trasforma la disposizione in norma, coglierne valenza e contenuto. E la decisone della Corte di Cassazione sembra in questo un riferimento sicuro, quando s'impegna a dar sostanza e determinatezza alla nozione di abuso del diritto, quando riafferma la preminenza della legalità penale (non può essere abusiva una condotta che integra un reato, sulla scorta del vincolo dell'art. 10-bis co. 12 e dell'art. 8 della legge delega), quando con fermezza ribadisce la portata retroattiva della più favorevole disciplina.

 


[1] Ovviamente nella formulazione previgente, posto che con l'art. 4 d. lgs  24 settembre 2015 n. 158 in G.U. 7 ottobre 2015 il delitto di dichiarazione infedele assume una connotazione diversa: non soltanto per la sostituzione del termine «fittizi» con «inesistenti» (ciò che in prima approssimazione sembra decretare la fine del dibattito circa il valore semantico di fittizio, in costante bilico tra la lettura che vi scorgeva un tratto di decettività e quella che lo rivendicava sinonimo di non esistente), ma anche per il nuovo comma 1-bis, che introduce una serie di sub-fattispecie dichiarate esplicitamente estranee alla figura incriminatrice, sub-fattispecie accomunate tutte da una componente valutativa pur non corretta sul versante fiscale ma attinenti a sottostanti situazioni reali (in particolare dispone il ricordato co. 1-bis dell'art. 4 d.lgs 74/2000 che «non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali». In proposito si veda S. Finocchiaro, Sull'imminente riforma in materia di reati tributari: le novità contenute nello 'schema' di decreto legislativo, in questa Rivista, 16 luglio 2015 e S. Cavallini, Osservazioni "prima lettura" allo schema di decreto legislativo in materia penaltributaria, in questa Rivista, 20 luglio 2015 che, a proposito delle modifiche all'art. 4 (e segnatamente del ricordato comma 1-bis non esita - esattamente - a parlare di «tangibili effetti di (parziale) abolitio criminis (...) per le frontiere di tipicità del nuovo comma 1 bis dell'art. 4 d. lgs. 74/2000». 

[2] Scusandomi per l'ineleganza dell'autocitazione si veda, se non altro per i richiami bibliografici, F. Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 421.

[3] In questo senso F. Donelli, Irrilevanza penale dell'abuso del diritto tributario: entra in vigore l'art. 10-bis dello Statuto del contribuente, in questa Rivista, 1 ottobre 2015.

[4] V. ancora F. Donelli, Irrilevanza penale, cit., in questa Rivista, 1 ottobre 2015.

[5] V. nota 1