ISSN 2039-1676


4 marzo 2011 |

Cass. pen., sez. III, 19.1.2011 (dep. 23.2.2011), Pres. De Maio, Rel. Amoresano, ric. Trinca

Una nuova ipotesi di applicazione diretta in malam partem del diritto della UE: la Corte di Cassazione disapplica la normativa interna che prevede un margine di tolleranza del 10% al divieto di pesca e commercializzazione del novellame e afferma, conseguentemente, la responsabilità  penale dell'imputato

La sentenza, che può leggersi nel documento allegato in calce, si segnala  quale ipotesi di disapplicazione in malam partem della normativa interna per contrasto con il diritto comunitario, con conseguente condanna dell'imputato per il reato ascritto (nella specie, una contravvenzione prevista dalla legislazione in materia di pesca).
 
Giova ripercorrere brevemente le linee essenziali della vicenda.
 
Nel corso di accertamenti presso il mercato ittico, gli ufficiali di polizia giudiziaria della Capitaneria di Porto di Savona rilevavano la presenza di due tonni rossi di peso inferiore ai 10 kg e di lunghezza inferiore agli 80 cm. Il fornitore, individuato nel rappresentante legale di una s.r.l., in data 14.10.2009 veniva condannato dal Tribunale di Savona in composizione monocratica alla pena di 516 euro di ammenda per la contravvenzione di cui agli artt. 15 co. 1 lett. c) e 24 co. 1 l. 14 luglio 1965 n. 963, la quale – salvo che il fatto costituisca più grave reato – punisce chi pesca, detiene, trasporta e commercia il novellame di qualunque specie marina senza la preventiva autorizzazione del Ministero delle politiche agricole e forestali.
 
Il Tribunale rigettava la tesi difensiva secondo cui, ai sensi degli artt. 86-91 d.P.R. 1639/1968 e successive modifiche, non sarebbero soggetti alla sanzione prevista dall’art. 24 co. 1 della l. 963/1965 la pesca, la detenzione, il trasporto e la commercializzazione di esemplari “sotto misura” qualora questi ultimi siano presenti in percentuale non superiore al 10% del totale del pescato. Riteneva, infatti, che tali disposizioni si ponessero in contrasto con il regolamento CE n. 51/2006 all. III parte D.20 (che per il tonno rosso, a differenza di quello obeso, non contempla alcun “margine di tolleranza” al divieto di pesca e commercializzazione) e andassero, conseguentemente, disapplicate.
 
Ricorreva allora per saltum in cassazione il difensore dell’imputato, lamentando tra l’altro l’inosservanza e/o l’erronea applicazione del regolamento CE n. 51/2006 all. III parte D.20, nonché dell’art. 91 d.P.R. 2 ottobre 1968 n. 1639. Secondo la tesi difensiva, più nel dettaglio, il regolamento comunitario CE n. 51/2006 non verrebbe qui neppure in rilievo, riguardando lo stesso esclusivamente la commercializzazione del prodotto: il legislatore nazionale avrebbe, dunque, la massima discrezionalità quanto alla scelta delle sanzioni da adottare in caso di violazione delle disposizioni in esso previste (e in particolare in merito all’opportunità di prevedere sanzioni penali ed, eventualmente, di limitarne l’ambito di applicazione oggettivo attraverso la previsione di un “margine di tolleranza”); con la conseguenza che il pescato di novellame in proporzioni pari al 10% del totale, pur non essendo commerciabile, non sarebbe oggetto di sanzioni penali.
  
La terza sezione della Corte di Cassazione ha confermato integralmente la sentenza del Tribunale di Savona, aderendo all’indirizzo – progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità – secondo cui la normativa interna che prevede un margine di tolleranza del 10% al divieto di pesca e di commercializzazione del novellame si pone in contrasto con il diritto comunitario (e in particolare con il regolamento n. 1626/1994) e va, pertanto, disapplicata.
 
La conseguente condanna dell’imputato - è bene precisarlo - ha trovato fondamento esclusivo nelle disposizioni di matrice nazionale di cui agli artt. 15 co. 1 lett. c) e 24 co. 1 l. 14 luglio 1965 n. 963: l’applicazione diretta della normativa comunitaria (pacificamente dotata di effetto diretto, avendo la stessa natura regolamentare) è valsa infatti semplicemente a “paralizzare” gli artt. 86-91 d.P.R. 1639/1968, ovverosia le disposizioni integratrici di carattere extrapenale, anch’esse appartenenti all’ordinamento interno, che circoscrivevano l’ambito di applicazione oggettivo della contravvenzione prevista dalle suddette norme.
 
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In senso difforme dall’indirizzo giurisprudenziale cui la sentenza qui annotata aderisce – divenuto, negli ultimi anni, maggioritario – merita menzione la sentenza 17 gennaio 2006 n. 7820, Boscolo, in cui la terza sezione aveva negato il contrasto tra l’art. 91 d.P.R. 2 ottobre 1968 n. 1639 e il regolamento 1626/1994/CE facendo leva sul principio di offensività, che impedirebbe al legislatore – anche quando sceglie di punire con sanzioni penali un comportamento che una norma europea di rango superiore prevede come illegittimo – di incriminare comportamenti che non ledono o pongono in pericolo il bene giuridico tutelato. Ad avviso dei giudici di legittimità, il legislatore italiano, con la previsione dell’art. 91 d. P.R. 1639/1968, avrebbe “legittimamente ritagliato una area di non punibilità per una condotta non lesiva del bene protetto dal momento che il ripopolamento marino non può essere compromesso dalla cattura di esigue quantità di novellarne (rischio, tra l'altro, insito nella attività di pesca)”.
 
In senso conforme, si segnalano, invece, le sentenze 3 luglio 2007 n. 39345, Baldini, e 19 marzo 2009 n. 17847, Puglisi, peraltro richiamate espressamente in motivazione nella sentenza in commento.