ISSN 2039-1676


08 febbraio 2016 |

La Corte costituzionale sul divieto di decidere sulla responsabilità  civile in caso di assoluzione per vizio di mente

Corte cost., sent. 29 gennaio 2016, n. 12, Pres. Criscuolo, rel. Frigo

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1. Con la pronuncia in oggetto la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 538 c.p.p. sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 15 gennaio 2015.

La Consulta affronta una delicata questione sottesa ai rapporti tra il processo penale e il processo civile nonché alla tutela giudiziale delle pretese della persona danneggiata dall'autore del reato[1].

Se lo strumento funzionale al diritto della vittima di ottenere un ristoro per il danno subito è la costituzione quale parte civile in sede penale, tale espediente risulta insoddisfacente nell'ipotesi in cui all'esito del giudizio non venga affermata la responsabilità dell'imputato.

Il problema non attiene al caso in cui il compendio probatorio acquisito dal giudice non sia tale da ritenere sussistente il fatto di reato o la riferibilità dello stesso all'imputato, quanto alla distinta ipotesi in cui pur ricorrendo tali presupposti l'autore venga dichiarato non imputabile al momento del fatto per vizio totale di mente.

Il punto di partenza è senza dubbio la lettera dell'art. 538 cod. proc. pen. che limita la decisione sulla domanda di restituzioni e risarcimento del danno nel caso di costituzione di parte civile, nelle forme di cui agli artt. 74 e ss., all'ipotesi in cui venga pronunciata sentenza di condanna dell'imputato. Stando alla lettera della norma, qualsiasi decisione diversa dalla condanna è ostativa alla cognizione del giudice penale della domanda risarcitoria, ivi compresa la decisione di assoluzione dell'imputato per vizio totale di mente.

Ed è proprio quest'ultimo caso a destare perplessità nel giudice monocratico di Firenze: la sentenza di assoluzione dell'imputato per vizio totale di mente infatti non ha una valenza pienamente liberatoria postulando - al pari della sentenza di condanna - l'accertamento della sussistenza del fatto e della sua riferibilità all'imputato, sia dal punto di vista dell'elemento materiale sia da quello psicologico.

Ecco che, a parere de giudice a quo, la disposizione citata violerebbe l'art. 3 Cost. determinando una irragionevole disparità di trattamento fra il danneggiato costituitosi parte civile in un processo penale che si concluda con l'assoluzione dell'imputato per totale infermità di mente, e il danneggiato che veda invece esaminata la sua domanda risarcitoria all'esito della condanna dell'imputato "sano di mente".

Non solo, in forza del sovradescritto limite del giudice penale, risulterebbe compromesso il pieno esercizio del diritto di difesa (art. 24 Cost.) del danneggiato, il quale dovrebbe così instaurare un nuovo giudizio avanti al giudice civile al fine di soddisfare i suoi diritti, con totale vanificazione della scelta di far valere la pretesa risarcitoria in sede penale.

Da ultimo, risulterebbe leso il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111 Cost., dal momento che la necessità di trasferire la domanda risarcitoria in sede civile "allontanerebbe sensibilmente nel tempo la sentenza definitiva sulla stessa e impegnerebbe ulteriori risorse giudiziarie senza alcun apprezzabile motivo".

Tale principio troverebbe applicazione specifica in materia di tutela delle vittime del reato in forza dell'art. 16 della direttiva n. 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio secondo cui "gli Stati Membri garantiscono alla vittima il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo, tranne qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione sia adottata nell'ambito di un altro procedimento giudiziario."[2]

Le censure mosse dal rimettente senza dubbio scomodano tre principi di diritto fondamentali, purtuttavia non hanno persuaso la Corte, la quale ha superato le criticità sollevate dal giudice a quo alla luce del fondamento logico-sistematico dell'art. 538 c.p.p. "tale da non impedire all'interessato di conseguire altrimenti il riconoscimento dei suoi diritti".

 

2. Due sono i principi cardine, a parere della Consulta, sottesi alla disciplina della costituzione di parte civile nel processo penale: da un lato, il carattere accessorio e subordinato dell'inserimento dell'azione civile nel processo penale da cui consegue il suo necessario adattarsi alla funzione e alla struttura del processo penale finalizzato a perseguire interessi pubblicistici connessi all'accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi; dall'altra, la separazione dei giudizi penale e civile.

Ciò posto, se il danneggiato opta per l'esercizio dell'azione civile nel processo penale, anziché nella sede sua propria "non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono": l'impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa è uno degli elementi dei quali il danneggiato deve prendere in considerazione nell'ambito della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte.

Sulla scorta di tali considerazioni generali la Corte supera le singole censure sollevate dal giudice rimettente. In particolare, non è ravvisabile alcuna violazione dell'art. 3 Cost. in quanto le ipotesi poste a raffronto dal giudice a quosentenza di assoluzione dell'imputato per vizio totale di mente e sentenza di condanna - sono palesemente eterogenee sotto il profilo del trattamento della domanda civile del danneggiato.

Se è vero infatti che la sentenza assolutoria per infermità totale postula in ogni caso l'accertamento della sussistenza del fatto e della riferibilità all'imputato, segno distintivo tra le stesse è che con la sentenza di condanna la responsabilità penale dell'imputato viene affermata, mentre con la sentenza di assoluzione per vizio totale di mente viene esclusa.

Non solo - prosegue la Corte - viene esclusa persino la responsabilità civile ex art. 2046 cod. civ. A questo punto il danneggiato potrà conseguire il ristoro del pregiudizio patito solo dai soggetti tenuti alla sorveglianza dell'incapace, qualora gli stessi non provino di non aver potuto impedire il fatto in forza del disposto di cui all'art. 2047 co. 1 cod. civ.; se poi non fosse possibile ottenere il risarcimento in tale modo, il danneggiato avrà l'opportunità di pretendere dall'incapace, non già il risarcimento del danno quanto la corresponsione di un'equa indennità (art. 2047 co. 2 cod. civ.).

Ragionando diversamente la pretesa del danneggiato non troverebbe più il suo fondamento nella disposizione sostanziale dell'art. 185 cod. pen. (la quale obbliga l'autore del reato e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere del fatto di lui a risarcire il danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal reato stesso) quanto piuttosto nell'art. 2047 cod. civ. (che, come anticipato, rivolge primariamente l'istanza risarcitoria nei confronti di chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace, tramite la sua tempestiva citazione in giudizio quale responsabile civile). Ciò non senza una conseguenza singolare, a parere della Corte, vale a dire la presenza di un soggetto chiamato a rispondere civilmente del fatto dell'imputato in sede penale in assenza di un'omologa responsabilità di costui.

Del pari, nessuna lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. del danneggiato risultando sempre aperta la possibilità di far valere la pretesa in sede civile.

Con riguardo infine alla asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111 co. 2 Cost.), la Corte sottolinea come essa sia ravvisabile solo con riferimento a quelle norme "che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza"[3] e tale ipotesi non è ravvisabile nel caso di specie. Se è vero che la preclusione della decisione sulle questioni civili nel caso di proscioglimento dell'imputato per qualsiasi causa posticipa la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, imponendogli di instaurare un nuovo giudizio civile, tale evenienza trova giustificazione nel già ricordato carattere accessorio e subordinato dell'azione civile inserita nel processo penale rispetto alle finalità pubblicistiche di quest'ultimo.

Quanto al sovradescritto richiamo alla direttiva europea a tutela delle vittime del reato la Corte mette in luce come il diritto della vittima di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte del reo nel procedimento penale incontra il limite che l'ordinamento nazionale non preveda la possibilità dell'adozione della decisione nell'ambito di un altro procedimento. E, a parere della Corte, tale riserva si verifica proprio nel caso di specie.

 


[1] Sull'argomento si veda: M. Maniscalco, L'azione civile nel processo penale, Padova, Cedam, 2006; G. Alpa- V. Zencovich, Responsabilità civile da reato, in Enc. Dir., XXXIX, 1988, p. 1274; M. C. Barbieri, Art. 185 c.p., in E. Dolcini- G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Vol. I, 2011, p. 2127.

[2] Sulla tutela della vittima di reato, anche in una prospettiva sovranazionale cfr: L. Lupària (a cura di), Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell'Unione e buone pratiche nazionali, Padova, Cedam, 2015.

[3] Trattasi di principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale. Sul punto cfr: Corte cost., sent. del 27 febbraio 2015, n. 23; Corte cost., sent. del 5 marzo 2009, n. 63; e Corte cost. sent. del 12 aprile 2005, n. 148.