ISSN 2039-1676


01 aprile 2011 |

L'effettivo esercizio di un'azione civile può integrare una minaccia penalmente rilevante?

Nota a Cass. Pen., Sez. VI, 12.1.11 (dep. 11.2.11), n. 5300, Pres. Di Virginio, Rel. Citterio

1. Com’è noto, secondo un solido orientamento della giurisprudenza di legittimità sviluppatosi principalmente in tema di estorsione (art. 629 c.p.), la prospettazione dell’esercizio di un’azione civiledi per sé lecita, può integrare una condotta riconducibile al concetto normativo di “minaccia”, quando tale rimedio giuridico sia adoperato al fine di ottenere risultati contra ius (Cass. 06.2.2008 CED 239740; Cass. 16.1.2003 CED 224399; Cass. 10.12.1990 CED 188082; Cass. 18.3.1986 CED 173383; Cass. 12.4.1984 CED 166167; Cass. 23.3.1982 CED 154920; Cass. 27.5.1980 CED 146789; Cass. 21.10.1977 CED 138580; Cass. 11.1.1971 CED 118529).

Con la sentenza in nota, dettata in tema di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), la  Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo il quale l’effettivo esercizio di un’azione civile, ancorché volto ad ottenere scopi non conformi a giustizia, non costituisce violenza o minaccia penalmente rilevante. Ciò in quanto, secondo la pronuncia in commento, occorrerebbe distinguere tra effettivo esercizio di un’azione civile, seppur strumentale alla coartazione dell’altrui volontà, e prospettazione dell’azione medesima – quest’ultima soltanto costituente vera e propria minaccia ai sensi della legge penale.

 

2. S’impone quindi, al fine di chiarire il senso delle determinazioni della Suprema Corte, una sintetica ricostruzione dei fatti di causa.

In data 10 gennaio 2008, in esito ad un giudizio abbreviato, il Tribunale di Avellino riconosceva colpevole M.M. del reato di cui all’art. 336 c.p. (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale), per avere il medesimo usato minacce nei confronti di I.S., consulente tecnico della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ariano Irpino, al fine di condizionare la testimonianza che la stessa avrebbe dovuto rendere in un procedimento penale nel quale era imputato proprio l’asserito minacciante, nonché di determinare la rinuncia della medesima ad altri tre incarichi peritali ricevuti in altri tre procedimenti civili nei quali M.M. era parte.

In particolare, le minacce erano consistite nella presentazione presso il Tribunale di Avellino di un atto di citazione esclusivamente “strumentale” nei confronti di I.S., nel quale si deducevano ipotetici “danni da stress” da rinvio a giudizio, e che – nella ricostruzione del giudice delle prime cure – risultava indubbiamente rivolto al solo scopo di neutralizzare l’operato di un consulente tecnico pernicioso per gli interessi dell’attore. La presentazione di tale atto di citazione, peraltro, non risultava preceduta da altre condotte di “pressione” da parte di M.M., e doveva quindi ritenersi il primo atto “minaccioso” posto in essere dall’imputato.

Con sentenza del 24-27 novembre 2009 la Corte d’Appello di Napoli confermava la condanna di M.M., rilevando come oltretutto la condotta dell’imputato avesse effettivamente determinato la persona offesa a rinunciare agli incarichi peritali nei tre procedimenti civili dei quali M.M. era parte.

La difesa di M.M. proponeva ricorso in Cassazione, lamentando, tra l’altro, l’assenza nel caso di specie dell’indispensabile requisito “futurista” della minaccia – id est, la prospettazione di un danno futuro dipendente dal minacciante –, essendosi immediatamente tradotta la “minaccia” in danno, proprio attraverso la presentazione di un atto di citazione.

 

3. In accoglimento del gravame proposto dall’imputato, la Suprema Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata «perché il fatto non sussiste».

Il giudice di legittimità si premura innanzitutto, dopo aver ribadito la correttezza della ricostruzione del fatto svolta dai giudici di merito, di formulare il quesito di diritto sottoposto alla propria attenzione, che verte sul «se l’atto di citazione che introduca, davanti al giudice ordinario, una causa civile strumentale nei confronti di un pubblico ufficiale e per ragioni della sua attività d’ufficio sia idoneo a costituire condotta riconducibile ai concetti normati­vi di minaccia o violenza».

La Corte di Cassazione rammenta poi la costante giurisprudenza sviluppatosi intorno al delitto di estorsione, confermando in particolare come ben possa integrare il concetto normativo di “minaccia” «la minaccia di adire le vie legali […] quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia».

Tuttavia, continua la Corte, la prospettazione dell’esercizio di un azione civile mira a far ottenere il beneficio o vantaggio strumentale «senza coinvolgersi nell’effettivo rapporto con l’autorità giudiziaria e senza assumere alcuna delle responsabilità conseguenti». Soltanto in tal caso, infatti, il danno futuro che si prospetta rimane nella “discrezionalità” del minacciante.

Al contrario, invece, qualora – come nel caso di specie – il sistema giudiziario venga effettivamente attivato, mediante notifica di un atto di citazione o deposito di un ricorso,«l’intervento del giudice terzo […] spezza ogni collegamento automatico tra l’esito e la discrezionalità di chi agisce», e pertanto, il concreto ed immediato esercizio di un’azione civile non è idoneo a configurare la nozione penalistica di violenza o minaccia in ragione dell’indipendenza del male prospettato dalla volontà del minacciante.

Ma non è tutto. Nell’opinione del giudice di legittimità, non avrebbe pregio nemmeno l’argomento secondo il quale, «già il solo doversi difendere in giudizio civile […] costituisc[e] un obiettivo pregiudizio di fatto che, quando l’azione da cui ci si deve difendere è solo strumentale, può essere di per sé idoneo ad influire sulle scelte e le condotte professionali dal convenuto».

Ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, tale pregiudizio troverebbe risposta efficace nello strumento previsto dal legislatore nell’art. 96 c.p.c al fine di contrastare l’azione civile pretestuosa, ovvero la possibilità di condannare al pagamento di una somma equitativamente determinata, anche d’ufficio, l’attore temerario.

 

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4. A parere dello scrivente, le conclusioni della Corte di Cassazione nella sentenza in calce appaiono tutt’altro che irresistibili.

L’argomento che, nell’opinione della Suprema Corte, porterebbe ad escludere che l’effettivo esercizio di un’azione civile “strumentale” possa configurare una minaccia penalmente rilevante ai sensi dell’art. 336 c.p., fa infatti implicitamente perno sull’idea che il “danno ingiusto” prospettato da parte dell’attore malevole consista nella “soccombenza processuale” del convenuto/minacciato. In questa logica, se si identifica il danno prospettato con la “soccombenza processuale”, ne consegue che, una volta coinvolto il giudice terzo, tale soccombenza non può in nessun modo apparire dipendente dalla volontà del minacciante, considerato che – questa la lapalissiana logica che sembra permeare le argomentazioni della Corte – la decisione dell’azione civile è dipendente dalla volontà non dell’attore, ma, casomai, del giudicante.

Tuttavia, a ben vedere, qualora venga effettivamente esercitata un’azione civile pretestuosa, il danno ingiusto che si prospetta non è tanto un’eventuale soccombenza del convenuto/minacciato, quanto la mera prosecuzione dell’azione civile “strumentale”; fatto quest’ultimo che comporta di per sé la necessità di doversi difendere ed affrontare i relativi disagi e costi. La prospettiva della verificazione di tali danni (morali e materiali), d'altra parte, è esclusivamente dipendente dalla volontà dell’attore, che potrebbe in ogni momento rinunciare agli atti ed estinguere il processo; e i danni medesimi, infine, possono certamente qualificarsi come “ingiusti” qualora l’azione risulti completamente “strumentale”.

Né, a parere dello scrivente, è da ritenersi accettabile l’argomento, che costituisce peraltro un obiter nella tesi della Corte, secondo cui la condanna al pagamento di una somma in caso di lite temeraria (ex art. 96 c.p.c.) basta comunque a scongiurare la dannosità, per il convenuto/minacciato, del pregiudizio derivante dal semplice fatto di doversi difendere in un processo civile. In effetti, la mera prospettiva di un risarcimento all'esito di un processo civile in tre gradi di giudizio (con i tempi lunghi che notoriamente affliggono la giustizia italiana) non può ritenersi idonea a controbilanciare la prospettiva attuale dei pregiudizi immediatamente connessi alla prosecuzione di un giudizio civile, il cui esito favorevole per il convenuto – oltre tutto – non può mai essere dato per scontato, per quanto strumentale e temeraria possa essere la lite.

Quest'ultima prospettiva, d'altra parte, è certamente in grado di influire su quella "libertà di autodeterminazione e di azione degli organi pubblici" che costituisce il bene giuridico tutelato dall'art. 336 c.p., come ben dimostra proprio il caso esaminato dalla Corte.

 

5. Sia consentita, infine, un’ultima considerazione. Ci si chiede, infatti, se possa considerarsi davvero “coerente” un sistema penale che ­da un lato riconosce la penale responsabilità di chi pretestuosamente, al fine indurre un testimone a ritrattare quanto dichiarato, prospetta l’esercizio di un’azione civile contro di lui; mentre dall’altro assolve chi effettivamente propone l’azione anche qualora, al di là di ogni ragionevole dubbio, possa dimostrarsi che l’azione sia stata esercitata al solo fine di indurre l’ipotetico testimone a non adempiere ai doveri del proprio ufficio.