ISSN 2039-1676


05 maggio 2016 |

La configurabilità  del reato di truffa nell'ambito di terapie mediche sperimentali

Nota a Cass. Pen., Sez. II, sent. 20/10/2015 (dep. 20/11/2015), n. 1956, Pres. Esposito, Est. Pellegrino

 

1. Grande clamore mediatico e accesi dibattiti hanno suscitato, nel recente passato, le vicende relative al cd. metodo stamina e in generale a quei trattamenti sperimentali volti a dare una risposta ad alcune patologie "incurabili", quali in particolare le malattie neurodegenerative.

Si colloca in questo ambito il provvedimenti oggetto di questo commento, emesso nell'ambito di un procedimento penale iscritto presso la Procura della Repubblica di Brescia e riguardante l'attività di un'associazione dedita alla prestazione di trattamenti medici sperimentali basati sull'utilizzo di cellule staminali su pazienti affetti da simili patologie. La stessa vicenda stamina, peraltro, viene esplicitamente citata come contesto nel quale avvennero i primi contatti tra gli indagati e le vittime.

L'ipotesi investigativa è che si trattasse in realtà di una vera e propria associazione a delinquere finalizzata, principalmente, alla commissione di una serie di truffe. I fatti si sarebbero sostanzialmente svolti in questo modo: gli associati avvicinavano i malati (o i loro familiari) promuovendo l'efficacia di terapie innovative, le quali consistevano nel prelievo di materiale adiposo da un parente che sarebbe stato trattato nel laboratorio di una società svizzera ed infine somministrato ai malati stessi in più occasioni, il tutto previo pagamento di cospicue somme di denaro (dalle migliaia alle decine di migliaia di euro).

Il G.I.P. di Brescia, su richiesta del P.M. procedente, poneva agli arresti domiciliari tutti i coindagati stante il pericolo di reiterazione del reato. Successivamente, però, il Tribunale del riesame accoglieva il ricorso proposto da alcuni di essi e annullava la misura cautelare loro applicata, escludendo la gravità indiziaria tanto rispetto all'associazione a delinquere quanto al reato-fine della truffa.

Anche la difesa di un altro indagato, di conseguenza, chiedeva a sua volta al G.I.P. la revoca ex art. 299 c.p.p. degli arresti domiciliari invocando l'effetto estensivo di tale pronuncia, considerato che le valutazioni espresse dal Tribunale avevano una diretta incidenza circa la posizione di ciascuno dei sodali; il giudice, però, respingeva la richiesta in mancanza del cd. giudicato cautelare. L'indagato presentava allora appello ex art. 310 c.p.p. rinnovando le medesime argomentazioni già spese precedentemente.

Il Tribunale di Brescia, sezione feriale in funzione di giudice dell'appello, tornava nuovamente ad esprimersi sulla vicenda richiamando in toto l'ordinanza emessa dal Tribunale del riesame e, accogliendo il gravame, revocava conseguentemente la misura cautelare.

Una valutazione radicalmente diversa, invece, veniva espressa dalla Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi a seguito del ricorso proposto dalla Procura. La Suprema Corte, come vedremo meglio di seguito, censurava l'impugnata ordinanza in ordine alla ritenuta insussistenza della truffa e ne decretava l'annullamento con rinvio ai giudici bresciani per un nuovo esame.

 

2. Punto di particolare importanza nel caso de quo, subito posto in evidenza dai giudici bresciani, è il richiamo al metodo stamina e al fatto che i contatti con i pazienti, oggi parti offese in questo procedimento, erano nati proprio nel corso di quella vicenda. Si tratta di una premessa significativa da cui partire per affermare che, nel caso di specie, ci si muoveva nell'ambito di trattamenti medici che «sono sempre stati proposti, e sono stati sempre percepiti e conosciuti dai destinatari, quali metodologie sperimentali, cioè meri tentativi per verificare l'idoneità di pratiche mediche (...) nella terapia di patologie degenerative e finora sprovviste di cure incisive».

Insomma, una cosa sarebbe fin da subito chiara: i pazienti erano pienamente a conoscenza del fatto che per le malattie di cui erano affetti non esisteva (e non esiste tuttora) alcuna cura, e, dunque, qualunque trattamento che fosse stato loro proposto era inevitabilmente caratterizzato da un «esito assolutamente incerto». Si trattava, cioè, di trattamenti medici che in nessun modo potevano essere intesi come efficaci, se non in termini altamente aleatori, proprio per la natura stessa di queste patologie; ciò era particolarmente chiaro a soggetti che già in precedenza si erano sottoposti a simili terapie diventate oggetto di netta contrapposizione con le istituzioni sanitarie.

Di conseguenza, richiamati questi limiti intrinseci all'ambito in cui ci si muoveva, la promozione dell'efficacia di una simile terapia non poteva in nessun modo assurgere al rango degli artifici o raggiri, atteso che nessuna promessa miracolistica avanzata dagli indagati avrebbe potuto convincere i pazienti al punto da spingerli ad accettare quelle cure (e pagarne il corrispettivo richiesto).

Il collegio bresciano affermava poi che ad aver spinto gli uni (i membri dell'associazione) e gli altri (i pazienti ed i loro familiari) ad affrontare la ricerca di nuove strade, alternative a quelle proposte dalle istituzioni sanitarie, per la cura di patologie così gravi, erano state unicamente "la speranza o l'illusione" che, però, "non possono scambiarsi con gli artifici o raggiri" (nel senso di un'immutazione del vero o di affermazioni mendaci idonee a convincere o sorprendere l'altrui buona fede, compresa l'ipotesi del silenzio maliziosamente serbato su circostanze rilevanti).

Ma vi è di più. Nel caso di specie, infatti, non ci sarebbe stata alcuna finzione, alcuna immutazione della realtà, da parte dei promotori. Dalle emergenze investigative, infatti, risulterebbe che il trattamento concretamente posto in essere non era diverso da quello che veniva pubblicizzato: il materiale biologico realmente veniva prelevato e trattato in un laboratorio, realmente il prodotto veniva poi somministrato: «non si è creata da parte degli indagati (...) alcuna apparenza del reale, ovverosia non si è creata una struttura-schermo fittiziamente operativa, perché quelle singole operazioni sono state tutte eseguite».

Nulla aggiungono, rispetto a quanto già detto, le criticità evidenziate nell'impianto accusatorio circa le modalità terapeutiche adottate, ad esempio il fatto che non fossero previste visite mediche dei pazienti o la verifica della documentazione ad essi relativa. Tali circostanze inciderebbero, eventualmente, solo sulla bontà e sulla correttezza del trattamento. Allo stesso modo, il fatto che in talune circostanze ai pazienti sia stato addirittura chiesto di fingersi pellegrini in viaggio è da guardarsi esclusivamente nell'ottica di una cautela adottata per non attirare attenzione verso una pratica che già in passato era stata al centro di notevoli polemiche.

In definitiva, dal momento che nessun artifizio o raggiro era rilevabile nella condotta posta in essere dai consociati, e che vi era un'intrinseca impossibilità di indurre in errore i pazienti facendo emergere in loro una positiva aspettativa di una guarigione o di miglioramenti delle condizioni di salute, il Tribunale concludeva per l'insussistenza dei gravi elementi indiziari riguardanti la truffa (e quindi anche dell'associazione a delinquere a ciò finalizzata) e revocava la misura cautelare applicata ai ricorrenti disponendone l'immediata liberazione.

 

3. A seguito del ricorso promosso ex art. 311 c.p.p. dalla Procura bresciana, la Corte di cassazione veniva investita della questione. Spendendo importanti considerazioni con particolare riguardo alla sussumibilità della condotta descritta nella fattispecie prevista dall'art. 640 c.p., il giudice di legittimità non esitava ad annullare l'ordinanza impugnata rinviando al Tribunale per un nuovo esame.

La Suprema Corte individuava da subito l'errore di fondo contenuto nell'ordinanza e consistente in una «artificiosa amputazione della condotta induttiva». I giudici del Tribunale, infatti, erano giunti ad affermare l'insussistenza di un inganno posto in essere da parte dei consociati senza tenere in considerazione alcuni elementi fondamentali che erano stati invece valorizzati dal G.I.P. nel momento in cui aveva disposto la misura cautelare.

Le condotte dei coindagati sarebbero state sostanzialmente due, da una parte la rappresentazione delle modalità di produzione dei presunti farmaci, sulle quali non vi è stata menzogna; dall'altra, la (falsa) rappresentazione dell'utilità di tali preparati per ottenere «quanto meno delle chances di guarigione o di miglioramento agli ammalati».

Gli elementi probatori "dimenticati" sarebbero più d'uno: le rassicurazioni fornite ad alcuni pazienti e contenute nelle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura, nonché «larvate minacce di quanto di sgradevole o pericoloso sarebbe potuto accadere in caso di sospensione della nuova terapia (...) ovvero di ricorso alle terapie tradizionali», infine la falsa attribuzione della qualifica di medico al soggetto incaricato della produzione dei farmaci. Si trattava quindi di condotte decettive che avevano poi, in concreto, determinato i malati a sottoporsi alle terapie proposte.

Del resto, secondo il giudice nomofilattico, sbagliava il Tribunale laddove riteneva che l'inefficacia delle cure proposte fosse profilo non degno di approfondimento. Le motivazioni addotte a sostegno del provvedimento di revoca delle misure cautelari, infatti, in nessun modo chiarivano perché mai i pazienti «avrebbero accettato di pagare somme ingenti (...) per sottoporsi ad una terapia illegale, perché disconosciuta dalle autorità sanitarie competenti, se non avessero ricevuto assicurazioni di ottenere quanto meno delle chances di guarigione o di miglioramento rispetto alle specifiche patologie da cui erano affetti».

In sostanza, sarebbe illogico ritenere che l'accordo fra i malati e i promotori potesse essere fondato esclusivamente sulla modalità di svolgimento delle cure, «indipendentemente da ogni considerazione circa il risultato che ne sarebbe scaturito».

Da ultimo, con riguardo al requisito dell'induzione in errore, la Suprema Corte in maniera molto significativa (e allusiva) fa riferimento al caso Scientology per riaffermare il consolidato principio secondo cui la particolare condizione di debolezza di un soggetto, che sia in lui connaturata ovvero determinata da situazioni contingenti, «non esclude la configurabilità in suo danno del reato in questione, anzi ne rende più agevole l'esecuzione».

 

4. Al di là delle peculiarità del caso concreto, sul quale saranno nuovamente i giudici bresciani a pronunciarsi, il principio di diritto adottato dalla Suprema Corte ci pare da condividere. Sebbene non siano molti i precedenti giurisprudenziali attinenti a truffe di questo genere compiute in ambito medico, un riferimento ai consolidati principi giurisprudenziali in materia di truffa consente di spendere in questa sede alcune brevi considerazioni.

Centrale, come si evince dalla schematizzazione dei due provvedimenti sopra riportata, è l'interpretazione del requisito degli artifici e raggiri. Da questo punto di vista, appare del tutto corretta l'affermazione del giudice di legittimità secondo cui la condotta di chi promuove la (in realtà inesistente) potenzialità benefica di terapie ben può integrare tale requisito; ciò vale a maggior ragione ove chi agisce non si limiti a una condotta di tipo "promozionale", ma l'accompagni con altri espedienti utili a corredare di verità (scientifica) le assicurazioni fornite e ad aumentarne la valenza persuasiva. In questo senso basti ricordare la falsa qualifica di medico che uno dei sodali si sarebbe attribuito.

Nel caso di specie, la puntuale verifica del materiale probatorio e delle iniziative concretamente poste in essere dai coindagati, in particolare di quelle tralasciate dal Tribunale e poi recuperate dalla Suprema Corte, sarà più approfonditamente compiuta nel corso del giudizio di merito. Risulta chiaro fin d'ora, però, che le condotte così come descritte dai provvedimenti in esame non possono che essere lette nel senso di una volontà rivolta a creare, o anche solo rafforzare, nei soggetti passivi la (falsa) illusione di una possibile (anche se ovviamente non certa) prospettiva di guarigione, quanto meno nel senso di un miglioramento delle condizioni di salute e di un rallentamento nel decorso della malattia.

Le «larvate minacce di quanto di sgradevole e pericoloso sarebbe potuto accadere in caso di sospensione della nuova terapia ovvero di ricorso alle terapie tradizionali», di cui parla la Cassazione, assumono poi un carattere decisamente subdolo, nella misura in cui parrebbero finalizzate non solo ad accrescere agli occhi delle vittime la bontà della metodologia proposta, ma finanche a dissuadere queste ultime dal contatto con le istituzioni sanitarie per confinarle in un ambito di affidamento esclusivo (quasi fideistico) all'associazione e alla tipologia di cure da questa promossa.

In sostanza, la falsificazione di un dato di assoluta rilevanza quale quello dell'idoneità o meno della terapia a produrre chances di successo avrebbe determinato - in base alla prospettazione accusatoria - quell'errore decisivo affinché le persone offese si determinassero a pagare quanto richiesto.

Concludendo, il fatto che l'attività dell'associazione si inserisse nell'ambito di patologie allo stato incurabili, e per le quali le prospettive di miglioramento erano pertanto particolarmente aleatorie, non rendeva di per ciò solo impossibile l'inganno. In questo, a parere di chi scrive, emerge con forza l'utilità del richiamo della Suprema Corte al fatto che la particolare condizione di un soggetto anziché escludere la configurabilità della truffa la rende più agevole[1]. La pressoché totale incurabilità delle affezioni, infatti, dovrebbe essere tenuta ancor più in considerazione al fine di garantire un'adeguata tutela a persone che si trovino in una situazione di debolezza proprio per la gravità della patologia che affligge la salute propria o di prossimi congiunti, e che siano dunque alla disperata ricerca di una strada per trovarvi rimedio.

 


[1] A questo proposito si veda Cass. Pen., Sez. II, 23/09/2005 (dep. 09/11/2005), n. 40799, ove è stato affermato che integra il reato di truffa la condotta del soggetto che, dichiarandosi mago, con raggiri consistenti nell'assicurare l'esistenza di rituali idonei a risolvere i problemi sentimentali, si procuri un ingiusto profitto. Ebbene, se è la truffa è configurabile anche in un ambito come quello delle pratiche magiche, i cui risultati sono aleatori per definizione, ben potrà essere configurabile anche in ambito medico e pur in presenza di malattie allo stato incurabili.