ISSN 2039-1676


03 luglio 2017 |

Sikh condannato per porto del kirpan: una discutibile sentenza della Cassazione su immigrazione e "valori del mondo occidentale"

Nota a Cass., sez. I, sent. 31 marzo 2017 (dep. 15 maggio 2017), n. 24048, Pres. Mazzei, Rel. Novik, Imp. Singh

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2017

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1. Con la sentenza qui annotata, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il reato di porto d’armi ex art. 4, comma 2, della legge n. 110/1975 inflitta dal Tribunale di Mantova a un indiano di religione Sikh che portava con sé il kirpan, il pugnale rituale costituente uno dei simboli di quel culto. La pronuncia ha suscitato una grande eco mediatica[1], in particolare per il richiamo della Corte all’obbligo, per l’immigrato, “di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”. Secondo la Corte, infatti, non sarebbe tollerabile che la società multietnica, pur costituendo una necessità, portasse alla formazione di “arcipelaghi culturali confliggenti”, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare.

 

2. I fatti sono ormai noti: l’imputato era stato fermato per strada dalla polizia locale, che lo aveva trovato in possesso di un coltello, portato alla cintura, dalla lunghezza complessiva di 18,5 cm e ritenuto, di conseguenza, idoneo all’offesa. Alla richiesta delle forze dell’ordine di consegnarlo, questi si era rifiutato, sostenendo che il porto del coltello gli fosse imposto dai precetti della sua religione, essendo egli un Sikh praticante.

Il giudice di primo grado aveva condannato l’imputato: in particolare, il Tribunale aveva ritenuto che le usanze religiose di ciascuno non integrassero che mere consuetudini, e dunque fossero incapaci di produrre alcun effetto abrogativo di norme penali.

L’imputato aveva quindi adito la Suprema Corte e chiesto l’annullamento della sentenza, invocando l’art. 19 della Costituzione. Il coltello che stava portando, infatti, era il kirpan, un simbolo del suo culto, il cui porto sarebbe stato giustificato, appunto, dalla sua religione.

 

3. La pronuncia della Corte di Cassazione, che ha confermato la sentenza di condanna, si rifà ad un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto. Nel 2016, infatti, la Suprema Corte è intervenuta in due distinte occasioni[2] sul tema del porto in pubblico del kirpan da parte dei fedeli Sikh, affermando in entrambi i casi che il motivo religioso non potesse giustificare la condotta. L’indirizzo sostenuto da alcuni giudici di merito[3], che avevano proceduto ad un bilanciamento tra diritto di conformarsi alla propria religione e bene tutelato dalla norma incriminatrice, riconoscendo, anche in considerazione della scarsa offensività del fatto contestato, prevalenza al primo[4], era quindi stato censurato dalla Corte di Cassazione, sia pur con motivazioni alquanto stringate.

Se le pronunce del 2016 della Suprema Corte, però, non avevano attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, rimanendo confinate alle analisi degli operatori del diritto, la sentenza qui annotata, come già accennato, ha suscitato grande clamore. Ciò si spiega indubbiamente con il riferimento del giudice di legittimità ad un presunto obbligo, per l’immigrato, di conformarsi ai “valori del mondo occidentale”, formula fortemente evocativa ma invero assai vaga e indefinita.

 

4. La Cassazione, in effetti, sembra aver basato la propria decisione su una motivazione di mero carattere valoriale, più ascrivibile a valutazioni etiche che giuridiche[5]: e ciò non può che suscitare perplessità. Infatti, se, in linea generale, il giudicare “per valori”, per loro natura mutabili nel tempo e nello spazio, è un modo di procedere refrattario a oggettivi criteri regolativi e delimitativi[6], a maggior ragione lo è nel caso di specie, attesa la assoluta vaghezza di quei “valori occidentali” cui l’immigrato sarebbe tenuto a conformarsi. L’ambiguità di tale formula, peraltro, è immediatamente dimostrata non appena si estenda lo sguardo oltre i nostri confini nazionali, indirizzandolo verso altri ordinamenti, sicuramente tanto “occidentali” quanto il nostro, i quali, tuttavia, hanno assunto un atteggiamento ben differente nei confronti della questione del porto del kirpan.

Il Regno Unito, ad esempio, pur essendo un Paese notevolmente attento alla sicurezza e con una legislazione particolarmente restrittiva in materia di armi, ha promulgato già nel 1988 una disposizione che autorizza a portare in pubblico armi da taglio o da punta “for religious reasons; or as part of any national costume[7], disposizione pensata proprio per consentire agli indiani Sikh di indossare il kirpan[8].

Negli Stati Uniti, invece, pur in assenza di una disposizione ad hoc[9], la giurisprudenza si è basata sul Religious Freedom Restoration Act, emanato nel 1993 dal Congresso, per assolvere un indiano Sikh dal reato di porto abusivo di un’arma letale nascosta[10].

In Canada, infine, in nome del multiculturalismo, che in quel Paese è tanto importante da essere stato formalizzato persino a livello costituzionale[11], la Corte Suprema ha stabilito il diritto di un giovane Sikh di portare il kirpan a scuola[12], sottolineando che un divieto in tal senso avrebbe trasmesso agli alunni il messaggio che alcune pratiche religiose non sono meritevoli di tutela, così compromettendo la diffusione dei valori della diversità e del rispetto altrui[13].

 

5. Ebbene, il “valore” su cui si fondano le predette scelte del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Canada è, senza dubbio, un valore tipicamente “occidentale”, che però la Cassazione ha inspiegabilmente trascurato nella sua pronuncia: il pluralismo culturale e religioso.

Eppure si tratta di un valore ormai frequentemente riconosciuto sia sul piano internazionale, sia a livello nazionale. Basti richiamare, in proposito, la Convenzione ONU sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali del 2005, approvata anche con la Decisione del Consiglio dell’Unione europea il 18 maggio 2006[14] e ratificata dall’Italia nel 2007[15]; o l’art. 22 della Carta di Nizza[16], in forza del quale la UE si è obbligata a rispettare la diversità culturale e religiosa. Particolarmente ricca e significativa sul punto è, infine, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

La Corte EDU ha, infatti, riconosciuto sin dal caso Handyside c. Regno Unito del 1976[17] un ruolo fondamentale al pluralismo, inteso come carattere essenziale della società democratica[18] al punto che “there can be no democracy without pluralism[19]. Ed è stato proprio in occasione di una pronuncia in materia di libertà religiosa che la Corte EDU ha chiarito il ruolo dello Stato di fronte alle tensioni che possono inevitabilmente sorgere nelle società pluraliste: ad esso spetta il compito “not to remove the cause of tension by eliminating pluralism, but to ensure that the competing groups tolerate each other[20].

 

6. Venendo all’ordinamento italiano, è sufficiente ricordare l’art. 2 della Costituzione, che esprime il carattere pluralista della nostra democrazia e riconosce il ruolo delle formazioni sociali nello sviluppo della personalità dell’individuo; e ancora, più specificamente, l’art. 8 della Carta, che proclama, al comma 1, tutte le confessioni religiose “egualmente libere davanti alla legge”, esprimendo così quel principio del pluralismo confessionale che è strettamente connesso con la garanzia del diritto di libertà religiosa di ognuno. Un pluralismo, quello confessionale e culturale, che secondo la storica sentenza n. 203 del 1989 della Corte Costituzionale[21], è persino costitutivo del “regime” ordinamentale da cui è stato desunto il principio supremo di laicità, e che proprio della laicità non può che essere la luce interpretativa di riferimento per una lettura in chiave democratica[22].

 

7. È evidente, dunque, che in relazione al caso di specie la Cassazione ha operato una scelta in qualche senso “politica” privilegiando, tra i “valori occidentali” genericamente richiamati (ma non nominativamente indicati), la sicurezza e l’ordine pubblico a discapito del pluralismo, citato solo en passant, al paragrafo 2.3 della sentenza, nella sua declinazione di “pluralismo sociale”.

Tale scelta, tuttavia, finisce per contrastare con la pluriennale opera di bilanciamento tra diversi valori costituzionali in conflitto tra loro, intrapresa dalla Consulta, all’esito della quale la Corte Costituzionale ha individuato una sorta di gerarchia di valori: ad alcuni di essi è stato riconosciuto il rango di principi supremi dell’ordinamento, in quanto tali destinati a prevalere su altri che, invece, sono stati configurati esclusivamente come primari[23]. Ebbene, tra i primi figurano proprio il pluralismo[24] e la laicità[25], mentre, tra i secondi, la sicurezza dello Stato[26]. Nel necessario bilanciamento tra valori che anche la Cassazione avrebbe dovuto effettuare, le indicazioni fornite dalla giurisprudenza costituzionale non avrebbero dovuto essere così grossolanamente trascurate.

 

8. Se nella soluzione finale la sentenza può essere condivisa, l’iter motivazionale seguito, e prima di tutto l’ambiguo e fuorviante richiamo all’obbligo di conformarsi a degli indefiniti e arbitrariamente individuabili valori occidentali, va sicuramente censurato.

Al di là della soluzione del caso di specie, rimane comunque il problema di fondo della necessità di cercare, in una prospettiva di laicità “positiva”[27], un accomodamento rispetto a due esigenze fondamentali: sicurezza pubblica e libertà religiosa.

Purtroppo le aule penali sono la sede meno opportuna per raggiungere siffatti accomodamenti, che spesso esigono attenti bilanciamenti, compromessi, concessioni reciproche, e che quindi richiedono di procedere con la lima di chi cura i dettagli e smussa le spigolature, e non certo con la spada della giustizia penale[28].

In una siffatta prospettiva risulta particolarmente apprezzabile il disegno di legge di iniziativa parlamentare presentato in Senato il 6 maggio 2015, volto ad affrontare direttamente la questione del porto del kirpan[29]. Tale DDL si basa su un progetto pilota proposto dalla questura di Cremona e curato dalla direzione generale per gli affari generali della Polizia di Stato, culminato nella produzione di un kirpan in tutto e per tutto simile a quello tradizionale, ma privo delle caratteristiche idonee a farne un’arma da taglio, giudicato congruo anche dalle stesse comunità Sikh italiane[30]. Ebbene, il DDL intende autorizzare tutti i Sikh a portare il loro tradizionale coltello religioso, a condizione che sia così fabbricato e, comunque, provvisto di un apposito segno riconoscibile[31].

Il disegno di legge, che risulta assegnato alla 1° Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente dal 13 aprile 2016, potrebbe costituire, da una parte, un’efficace soluzione ad un problema sempre più sentito e, dall’altra, un fulgido esempio, anche nel nostro ordinamento, di forme di accomodamento che rispettino al contempo esigenze di sicurezza e libertà fondamentali.

 


[1] Cfr., a mero titolo di esempio, I. Sacchettoni, Cassazione: i migranti devono conformarsi a nostri valori, Corriere della Sera, 16 maggio 2017, S. Marzialetti, Cassazione: i migranti devono rispettare i nostri valori, Sole 24 Ore, 16 maggio 2017 e C. Melzi d’Eril, G. E. Vigevani, Se un pugnale compromette i valori occidentali, Sole 24 Ore, 19 maggio 2017.

[2] Cfr. Cass., Sez. I, 14 giugno 2016, n. 24739: “non esclude la rilevanza penale della fattispecie il motivo religioso addotto nel caso di specie e rappresentato dall’appartenenza alla religione Sikh”; Cass., Sez. I, 16 giugno 2016, n. 25163: “la motivazione con cui la sentenza impugnata ha escluso che la ragione di natura religiosa allegata dall’imputato, costituita dalla sua adesione alle regole e alle tradizioni della religione Sikh, potesse giustificare il porto (...), risulta giuridicamente ineccepibile, dovendo la manifestazione delle pratiche religiose necessariamente adeguarsi ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano”. Su tali sentenze, v. A. Licastro, Il motivo religioso non giustifica il porto fuori dell’abitazione del kirpan da parte del fedele sikh (considerazione in margine alle sentenze n. 24739 e n. 25163 del 2016 della Cassazione penale), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, n. 1/2017, 16 gennaio 2017, p. 1.

[3] Cfr. Trib. Cremona, 13 febbraio 2009, n. 15/2009, che, a fronte del rango costituzionale assegnato dal nostro ordinamento alla libertà religiosa e del disposto dell’art. 19 Cost., ha ritenuto penalmente irrilevante il porto del kirpan da parte di un cittadino indiano fuori della propria abitazione “qualora esso sia attendibilmente giustificato (...) dalla finalità di professare la fede ‘sikh’”, reperibile all’indirizzo Internet http://www.olir.it/documenti/?documento=4939; Trib. Vicenza (Gip), decreto di archiviazione del 23 gennaio 2009, che ha accolto la richiesta di archiviazione del P.M. del 12 gennaio 2009, la quale ha ritenuto ragionevole “sostenere che l'indagato S. B. avesse un giustificato motivo di portare con sé il proprio coltello "kirpan", motivo dato dalla professione di un culto religioso”, reperibile all’indirizzo Internet http://www.olir.it/documenti/?documento=4950.

[4] Sul punto v. F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010, p. 380.

[5] Così A. M. Nico, Ordine pubblico e libertà di religione in una società multiculturale (Osservazioni a margine di una recente sentenza della Cassazione sul kirpan), in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2017, 14 giugno 2017, p. 4.

[6] G. Zagrebelsky, Diritto per: valori, principi o regole? (a proposito della dottrina dei principi di Ronald Dworkin), in Quaderni fiorentini – per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 31, tomo II, Giuffrè, Milano, 2010, p. 872.

[7] Criminal Justice Act 1988, Sezione 139 (5).

[8] Sul punto v. F. Basile, op. cit., p. 62.

[9] In realtà, come riferisce A. D. Renteln, What Do We Have to Fear from the Cultural Defense? in W. Kymlica, C. Lernerstedt, M. Matravers (a cura di), Criminal Law and Cultural Diversity, Oxford University Press, Oxford, 2014, p. 190, nello Stato della California, un disegno di legge, presentato nel 1994 dal Senatore Bill Lockyer, che intendeva espressamente esentare il kirpan dalle leggi in materia di porto di armi, era stato approvato da entrambe le Camere, ma poi non entrò in vigore in quanto bloccato dal veto del Governatore Pete Wilson. In argomento, v. anche A. D. Renteln, Come dare più spazio alle culture e alle differenze culturali nei giudizi davanti alle Corti (Making room for Culture in the Court), in Questione Giustizia, Rivista online, n. 1, 2017, p. 173.

[10] State of Ohio v. Harjinder Singh, No. C-950777-Appeal, Court of Appeals of Ohio, First Appellate District, Hamilton County, 31 dicembre 1996. In un caso del tutto analogo, precedente però all’emanazione del Religious Freedom Restoration Act, il giudicante, pur archiviando il procedimento, aveva ritenuto che la libertà religiosa dovesse cedere di fronte al preminente interesse dello Stato alla protezione della salute e della sicurezza dei cittadini: cfr. People v. Singh, Criminal Court of the City of New York, Queens County, 13 maggio 1987. Su tali due procedimenti v. F. Basile, op. cit., pp. 305-307.

[11] Canadian Charter of Rights and Freedoms, art. 27.

[12] Multani v. Commission Scolaire Marguerite-Bourgeoys, [2006] 1 S.C.R. 256.

[13] In argomento, v. M. Ferri, Gli accomodamenti ragionevoli in materia di libertà religiosa tra giurisprudenza della corte europea e della corte canadese, in Jus, fasc. 3, Vita e Pensiero, Milano, 2015, p. 321.

[14] Decisione del Consiglio del 18 maggio 2006 relativa alla conclusione della convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (2006/515/CE).

[15] Legge 19 febbraio 2007, n. 19.

[16] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 22.

[17] Handyside c. Regno Unito, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 7 dicembre 1975, par. 49.

[18] Con la successiva sentenza Kokkinakis c. Grecia, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 25 maggio 1993, par. 31, la Corte si è spinta addirittura oltre, affermando che il pluralismo è un carattere “indissociable” dalla società democratica.

[19] Refah e altri c. Turchia, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 13 febbraio 2003, par. 89.

[20] Serif c. Grecia, Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 14 dicembre 1999, par. 53.

[21] Corte Cost., n. 203/1989. Cfr. anche Corte Cost., n. 440/1995, in cui la Consulta ha ricordato che nella nostra comunità nazionale devono “convivere fedi, culture, tradizioni diverse”, nonché Corte Cost., n. 63/2016, richiamata anche dalla Cassazione nella sentenza qui annotata, in cui si ritrova un’ulteriore sottolineatura del “regime di pluralismo confessionale e culturale” delineato dalla nostra Costituzione.

[22] J. Pasquali Cerioli, La laicità nella giurisprudenza amministrativa: da principio supremo a “simbolo religioso”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, marzo 2009, p. 9.

[23] T. F. Giupponi, La sicurezza e le sue “dimensioni” costituzionali in S. Vida (a cura di), Diritti umani: trasformazioni e reazioni, Bononia University Press, Bologna, 2008, pp. 275-301.

[24] V., ad es., Corte Cost., n. 62/1992.

[25] V., ad es., la già citata Corte Cost., n. 203/1989.

[26] T. F. Giupponi, La sicurezza e le sue “dimensioni” costituzionali, cit., pp. 299-301 che richiama in proposito Corte Cost. n. 82/1976.

[27] N. Marchei, La giurisprudenza ordinaria in materia penale: le contraddittorie anime del principio di laicità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, febbraio 2009, p. 13 e la bibliografia ivi citata. Sul punto v. Corte Cost., n. 203/1989, per cui il principio di laicità “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

[28] Per una riflessione sugli strumenti e i metodi di analisi utilizzabili dai giudici penali per affrontare i reati cd. culturalmente motivati, v. F. Basile, I reati cd. “culturalmente motivati” commessi dagli immigrati: (possibili) soluzioni giurisprudenziali, in Questione Giustizia, Rivista telematica, n. 1, 2017, pp. 126 – 135, e I. Ruggiu, Il giudice antropologo e il test culturale, ivi, pp. 216 - 232.

[29] Senato della Repubblica, XVII Legislatura, DDL S. 1910 – “Disposizioni in materia di porto del Kirpan da parte dei cittadini o degli stranieri di confessione Sikh legalmente residenti nel territorio della Repubblica”.

[30] Relazione al DDL S. 1910.

[31] DDL S. 1910, art. 1.