ISSN 2039-1676


24 novembre 2017 |

A proposito del convegno "Rethinking Wrongful Conviction"

Italia e USA: 25 anni di ritardo ed è ancora poco, troppo poco. Perché?

Gentile direttore,

 

Le invio – se vorrà pubblicarle – brevissime noterelle, buttate giù di getto in metà pomeriggio, dopo aver letto il report sulle cause e i rimedi dell’errore giudiziario tra Europa e Stati Uniti. Ho letto la sintesi di Marco Pittiruti e ovviamente assumo che la sintesi sia stata una buona sintesi. A mia volta, quindi, propongo solo una sintesi su una sintesi. Se e quanto utile sia lo deciderà Lei.

 

1.

L’uomo – credo che su questo siamo tutti d’accordo – dacché – improvvidamente – colse la mela dell’albero della conoscenza del bene e del male, non ha mai più avuto – paradossale! – il privilegio che, forse prima aveva, di conoscere con certezza alcunché del mondo in cui fu gettato. Dopo millenni, questo stesso uomo finalmente ha inventato la scienza – frutto tardivo risalente a non più di quattro secoli fa dell’umiltà dell’uomo che capì di sapere di non sapere e sentì la necessità di sapere di più – e da allora – a quanto ne so io – tende a credere che non esista altro mezzo diverso dalla scienza altrettanto rigoroso e potente per conoscere il mondo. Per lunghi millenni, l’uomo – quando gli toccava il duro compito di ius dicere e per ius dicere gli toccava in sovrappiù di conoscere anche il fatto su cui appunto ius dicere – non ebbe mai o quasi mai necessità di ricorrere alla scienza. Il senso comune – con la sua immagine semplificata del mondo che può essere detta col linguaggio ordinario seppure appositamente specializzato, cioè burocratizzato, o meglio ancora “scientifico” – bastava e avanzava. Il Giudice poteva addirittura illudersi ed illudere la Società che nel processo egli, per poter condannare, potesse attingere alla verità con quel grado di certezza che, nell’era premoderna del diritto, doveva essere più luminosa della luce meridiana. Non era vero. Il giudice lo sapeva e si aiutava meglio che poteva (la teoria dell’inizio, nel diritto premoderno, era più sofisticata di quanto crediamo) e quando, cioè quasi sempre, la probabilità “logica” raggiunta con l’inizio non arrivava abbastanza in alto, si concesse il diritto di usare la tortura, mezzo per cavare la verità dal corpo dell’imputato con una buona e solida confessione. Con l’età dei lumi venne il tempo del “libero convincimento” che anime belle giudicarono un progresso rispetto al passato; ma l’unico vero progresso fu l’abbandono della tortura come strumento epistemologico, perché, per il resto, il “libero convincimento” era solo una cambiale in bianco firmata dal diritto penale a favore del giudice. Il sistema più o meno reggeva. Bastava dire che il Giudice giudica con la ragione, poiché nessuno chiedeva la prova che ciò fosse vero, facendosi bastare l’illusione che la motivazione della sentenza fosse espressione di ragione e non invece quel che sempre fu, cioè una mera razionalizzazione ex post della decisione. Poi, ai tempi nostri, nella nostra crepuscolare post modernità, col complicarsi dei fatti che al Giudice toccò conoscere – che fu a sua volta l’effetto del complicarsi dei conflitti che la società, non sapendo come risolvere, buttò sulle spalle del diritto penale – questi comprese che il senso comune non bastava più – ahinoi – perché il senso comune non dava risposte alle domande cui il Giudice doveva dar risposta. Fu allora che il Giudice avrebbe dovuto riconoscere d’aver bisogno di attingere conoscenza da un sistema di credenze più rigoroso e potente del senso comune che avesse, quantomeno, risposte – per quanto non infallibili almeno credibili – da dare alle domande cui era tenuto a dar risposta. Crolli di dighe, inquinamenti misteriosi, malformazioni fetali forse correlati (o causati?) da farmaci, malattie forse correlate (o causate?) da agenti chimici, e così via. Il Giudice dovette ammettere, almeno in cuor suo, di aver bisogno della scienza. Non era facile, però, confessare la scomoda verità, non foss’altro che per una umana, fin troppo umana, ragione.

 

2.

Il Giudice, allevato, ieri come oggi, a godere delle bellezze altissime delle scienze dello spirito e a illudersi di poter avere dal senso comune certezze BARD (nei tempi eroici dei grandi giuristi medievali e pre moderni non c’era bisogno alcuno di anglicismi che sono solo il segno della nostra sudditanza psicologica e culturale e si parlava assai più poeticamente di certezza luminosa come la luce meridiana), sapeva di saper poco di scienze della natura, perché, ahinoi, nessuno gliele aveva mai insegnate. Da noi, poi, era peggio che altrove. Nel nostro derelitto Paese, le scienze erano bollate come scienze inferiori – almeno dai tempi Galileo e poi ancora nel XX secolo dell’idealista Croce che scacciò dalla filosofia il matematico e filosofo della scienza positivista Enriques –. Lo stesso valeva per gli altri attori dello spettacolo del processo penale, PM e avvocati. Tutti erano (eravamo) in difficoltà. Non è facile scoprire all’improvviso che il proprio sapere non basta più. È almeno disorientante. Che cosa fare? Il dilemma era grave. Ammettere di sapere di non sapere e, quindi, forse, perdere prestigio e autorevolezza, perché il Giudice – che novit iura – non può permettere che qualcuno metta in dubbio la sua capacità di conoscenza dei fatti del processo, oppure far finta di nulla, finché si poteva, e tirare avanti più o meno come sempre era accaduto prima? Ovviamente – e così mi avvicino al tema del convegno – mai alcuno che avesse la testa sulle spalle ha mai creduto che la scienza fosse infallibile. Se qualcuno l’ha creduto, e lo ha creduto fino a quando il modello newtoniano del mondo reggeva, faceva finta di crederlo, per umane, troppo umane, ragioni, connesse al bisogno di prestigio e di riconoscimento sociale. Più o meno le stesse ragioni per le quali il Giudice da noi non vuol sentirsi dire che lui di scienza non sa. Diciamo che, dopo la caduta del paradigma newtoniano, il più corroborato di tutti i tempi, si abbatte sulla scienza la tempesta scettica del XX secolo (crollo del positivismo logico, avvento di teorie irrazionali sulla scienza, critiche neo marxiste, fino ai costruttivismi post strutturalisti e gli anarchismi metodologici di fine secolo), nessuno, oggi, può credere che la scienza sia infallibile, anzi. Le derive scettiche e irrazionali – per fortuna – si sono sgonfiate o si stanno sgonfiando come palloncini. Ora – nel XXI secolo – prevale un realismo non ingenuo, di cui dirò tra un attimo.

 

3.

Avevamo lasciato il Giudice alle prese col suo dilemma. Siamo più o meno a tre quarti del passato secolo, quando – per il tramite di Stella – cominciamo ad affiorare nel diritto casi prima non immaginabili. Il buon vecchio senso comune – che non è il buon senso – è palesemente inutile. Che fare? La scienza non è infallibile? La scienza funziona con i metodi della probabilità, che sono difficili e non garantiscono la certezza della verità? È certo che sia così. Il problema è se sia ancora vero oppure no che la scienza – quando sia buona scienza, e quando sia buona scienza è un altro serissimo problema che nessuna Daubert può pensare d’aver risolto – sia tuttora il corpus di credenze sul mondo più corroborato e più potente di qualsiasi altro che l’uomo abbia costruito nella sua lunghissima storia. La celeberrima metafora popperiana della scienza come palafitta conficcata nell’acqua paludosa rende bene l’idea. Questa palafitta, che pure sappiamo mobile e sdrucciolevole, è comunque il meglio che abbiamo. Che fare, allora? Si torna al dilemma di prima. Il Giudice e il sistema che gli gravita attorno – dottrina, rectius dogmatica, e giurisprudenza – fanno un atto di umiltà, ammettono di non sapere e cominciano a studiare, oppure no, perché quest’ammissione costa troppo, in termini di prestigio e riconoscimento sociale? E fu allora, credo, che a qualcuno venne il colpo di genio. Il Giudice è il peritus peritorum! Ecco la soluzione del dilemma. Il problema viene genialmente rimosso come la luce del mattino fa con gli incubi notturni. Il Giudice, incoronato come peritus peritorum, non solo sa quel che invece non sa, ma, addirittura, sa di scienza più degli stessi scienziati che gli sfilano davanti nel processo penale. Quando gli scienziati varcano la sacra porta dell’aula del Giudice, accade, quindi, il miracolo, o l’illuminazione. Non è vero? Chi l’ha detto che non è vero? Guai a chi ne dubiti, sarebbe un sabotatore, o un eretico. Il sistema – come lo show – deve andare avanti.

 

4.

Vengo al convegno, meritoriamente voluto e organizzato da Luca Luparia. Leggerò con grande piacere intellettuale gli atti se e quando saranno pubblicati. Ora, come ho detto all’inizio, posso permettermi solo qualche brevissima osservazione (sdrucciolevole perché fondata solo sulla sintesi pubblicata su DPC). Ho letto, e quindi creduto di capire che, secondo i convegnisti, uno dei pericoli che incombono sul Giudice sarebbe la tentazione di sopravvalutare la scienza, di farne un mito di infallibilità. Addirittura ho letto che il Giudice dovrebbe guardarsi dalla science fascination. C’è, io credo, un equivoco di fondo che va velocemente sminato per poter ancora trovare un tavolo d’intesa, da uomini razionali quali siamo o vogliamo essere. Se effettivamente il Giudice corre un rischio – e in verità ne corre moltissimi e di continuo – non è quello di sopravvalutare la scienza e, quindi, di omettere la verifica critica dei fondamenti metodologici di quest’ultima. Il rischio è che il Giudice finisca col sopravvalutare l’immagine falsata di scienza che egli può essersi fatto e che le parti gli hanno presentato nel processo. Il pericolo, cioè, non è il fascino irresistibile della scienza cui il Giudice farebbe fatica a sottrarsi, ma – tutt’al contrario – il fascino irresistibile di credere che sia scienza quel qualcosa che con la scienza non ha nulla o quasi da spartire e che egli conosce nel processo. Il Giudice può cadere (e spesso cade) nell’inganno che gli vien teso nel processo (e sa Dio quanto spesso accada!), per la semplice, troppo semplice, ragione che sa poco o nulla di quella scienza che le parti usano come armi dialettiche. Il Giudice quindi non può difendersi o fatica a difendersi dal pericolo di credere scienza quel che è solo la versione parziale e fuorviante di scienza che gli viene propinata dalle parti, le quali, come la parola dice, non sono imparziali, mai, e hanno, sempre, tutto l’interesse a fuorviarlo, se serve per vincere il processo.

 

5.

Ben venga, quindi, il Giudice peritus peritorum! Ma per esser tale il Giudice ha da essere prima di tutto peritus, cioè deve sapere il più possibile di quella scienza che deve usare nel processo, e non meno! Il Giudice però non è peritus della scienza (tant’è che spesso nomina… un perito), e quindi, per la logica che nol consente, non può essere peritus peritorum! Viene così alla luce il grande equivoco. Il Giudice non deve imparare a difendersi dalla propria ignoranza della scienza, magari col pretesto che la scienza è fallibile e, quindi, chissà, può ancora – come faceva prima – ritrarsi nelle comodità del senso comune (le massime d’esperienza? qualcuno per favore me ne dica una, una sola, con la quale sia possibile rispondere a una domanda di scienza con una risposta migliore di quella della scienza!), o nella sua imperscrutabile intuizione miracolosa? Va detto chiaro e tondo. Se la scienza è fallibile, qualunque altro sistema di credenze sul mondo diverso dalla scienza è ancor più fallibile! Di qui non si scappa. Che fare, allora? Domanda semplice, risposta semplice. Il Giudice deve mettersi a studiare scienza o, almeno, i metodi fondamentali della scienza, perché solo così avrà la capacità di ridurre, e non invece di aumentare, la probabilità di fare errori. Non ho letto, però, nella sintesi del convegno romano neppure una riga che vada in questa direzione. Non può che essere colpa della sintesi troppo sintetica! Se, invece, l’omissione di trattare il disturbante problema fosse volontaria? Che cosa si vuole? – mi par di sentire già il brusio infastidito in sala, anche perché chi scrive non è un professore e quindi come si permette…! – che il Giudice divenga uno scienziato, una sorta di Pico della Mirandola post moderno, onnisciente? Ovviamente nessuno pretende nulla di tutto questo. Il Giudice è il Giudice. Se, però, ci fosse qualcosa d’altro sotto? Permettetemi una digressione.

 

6.

Il diritto è diritto e la scienza è la scienza! Unicuique suum, o no? È vero! Se il diritto è diritto e la scienza è scienza, che cosa deve fare però il giudice quando deve applicare il diritto, ma per applicare il diritto, deve anche applicare la scienza? Il Giudice costruisce nel processo la scienza che più gli si confaccia alla decisione che ha già preso aliunde? No. Stella ci ha insegnato che il Giudice è un mero consumatore e giammai un produttore di scienza! Ma è poi vero? No, mai. La scienza nel processo viene naturalmente adulterata dal gioco processuale. Il problema è, allora, ancor più grave di prima. Trovo straordinario che ancora nessuno abbia davvero compreso che qui, lungo il filo di questo discorso, ci sono problemi epistemologici ed etici di spaventosa difficoltà che da tempo si sarebbe dovuto affrontare, e che, invece, almeno qui da noi, rimangono ancora latenti e silenti. Sono temi affascinanti, questi sì! Il diritto ha in sé, nel suo nucleo profondo, molti lati oscuri e irrazionali; la scienza, forse, ne ha meno (ma ne ha anch’essa) ma, nel contempo, la scienza si dà missioni conoscitive – da perseguire in cooperazione tra scienziati e non in conflitto tra scienziati, come è invece per la conoscenza che si forma nel processo – che possono non coincidere non la missione che il Giudice sente di avere! Il diritto penale, cioè, e qui si scende davvero nella cantina più buia, forse esiste anche per missioni diverse dalla conoscenza? È così? Quali missioni? Se ne sa poco perché è meglio non parlarne. Sono spesso innominabili, in senso lato punitive (ma ci sono molti altri modi per dire questa stessa cosa)? Che cosa vuol dire? Alla fin fine, quale sia il rapporto vero tra giudice e verità sembra materia oscuramente negoziabile caso per caso. Oppure no? È in gioco lo scopo (vero) del processo! O detto altrimenti, sono in gioco le regole effettive della conoscenza del fatto nel diritto processuale penale, e le regole effettive possono essere molto diverse dalle regole apparenti che il diritto penale può sbandierare. Mi rendo conto che argomenti di tal fatta non si prestano ad essere facilmente razionalizzati nella lingua sobria, oggettiva e neutrale, che la sedicente scienza del diritto usa e con la quale tiene alla larga i problemi difficili. Essi, però, sono infinitamente più importanti di quasi tutto quello che quella sedicente scienza può dire. Da questa porta si entra in mondi incogniti. Là sotto ci sono le radici dell’albero di una conoscenza ancora non svelata. Purtroppo però siamo ormai irrimediabilmente fuori dall’Eden! Fuor di metafora, vuol dire che non possiamo più accontentarci di formule vuote e vacue sperando che funzionino.

 

7.

Il Giudice produce sempre scienza. Anche se non lo vorrebbe. Il prodotto, però, può essere di buona o meno buona lega. Belle sentenze di Cassazione provano a illuminare il lato buio e raccomandano al Giudice di confidare nella scienza imparziale e di usare solo scienza su cui sia calato il consensus dei più o di tutti gli scienziati (non è chiaro quale sia la maggioranza richiesta). È dir tutto e dir niente insieme. Se c’è un processo significa che sulla res litigiosa non c’è consenso nemmeno nella scienza, altrimenti il processo finirebbe in un baleno. Il caso difficile è proprio quello in cui l’evidenza della scienza è mista, un po’ di qua e un po’ di là, magari un po’ più di qua che di là o l’inverso. Di scienza imparziale il Giudice non ne avrà mai perché nessuno è imparziale, e nel processo è ancor più vero. La realtà è sempre più complessa delle teorizzazioni, che tendono per forza propria ad essere più o meno auto rassicuranti. Non è neppure vero, infatti, che basti il dubbio della scienza per assolvere (i processi d’amianto durano da vent’anni nel perdurante dubbio della scienza) almeno finché chi può non decida che il dubbio basti! La scienza, poi, non è comunque democratica. Tutt’altro. Pensarlo significa già, che lo si creda o no, sposare una certa filosofia della scienza, il convenzionalismo alla Kuhn. I convenzionalismi dicono che la scienza proceda per rivoluzioni, cioè conversioni di massa quasi religiose da un paradigma scientifico ad un altro. La regola del consenso è buona fino alla prossima rivoluzione, ma non è regola di Ragione. Tutt’altro. Da noi accade, in effetti, che alcuni credano di farla davvero la rivoluzione a colpi di sentenza, magari costruendosi – laddove manchi ma venga richiesto – un consensus ad hoc che suggerisce ingannevolmente che esista addirittura una Legge scientifica universale laddove c’è solo conoscenza probabile, cioè conoscenza incerta! La guerra è guerra! Il processo è guerra. Nessuno può permettersi però il lusso di essere ingenuo! In guerra ci vuole più ragione, cioè più scienza e non l’opposto. Che il Giudice sappia di scienza, quindi, è ancor più urgente per porre freni a derive irrazionaliste sempre possibili!

 

8.

Il progresso conseguibile con l’acculturazione scientifica del Giudice però è l’inizio del problema, non la fine. Dovremo prima o dopo portare alla luce quel che viene chiamato il lato oscuro del diritto penale. Dovremo illuminarlo. Dovremo per davvero portare a termine la rivoluzione illuminista che, invece, nel diritto penale è rimasta. A mezza via. Bisogna scavare negli intrecci spesso inestricabili della pericolosa relazione tra diritto e ragione. Dobbiamo correre il pericolo di scoprire che diritto e scienza (o meglio scienze, al plurale) sono in qualche modo mondi in guerra o come si dice in filosofia della scienza, paradigmi almeno in parte incommensurabili – e invece devono essere resi reciprocamente commensurabili quindi appresi e studiati con la forza della ragione, che sia una ragione abbastanza forte da farsi carico anche di quel che di non razionale sopravvive nel diritto. Questo è il compito del diritto penale del nostro tempo. Tocca a noi avviarlo con il dovuto coraggio e passione intellettuale. E’ più comodo rinviare la resa dei conti, piuttosto che, magari nella seconda metà della vita, mettersi a far la fatica anche solo di pensare, tanto quei pensieri sono difficili e disturbanti, materie così nuove (anche perché lo sforzo obbligherebbe a schiodarci dalle nostre inveterate abitudini intellettuali, nelle quali troviamo gratificazione e status sociale). Attenzione, nessuno si illuda però di potersi sottrarre alla sfida. La scienza occupa ogni giorno di più terreni prima custoditi gelosamente dalle scienze dello spirito e ormai interferisce col diritto penale quasi ovunque, e il peggio, se è davvero il peggio, sta per arrivare!

 

9.

Il tema è quindi difficile e pericoloso. Si corre sempre il pericolo di cadere in qualche equivoco. Ho letto dal documento pubblicato su DPC – o mi è parso di capire, leggendo la sintesi – che nel convegno romano, l’Innocence Project – di cui, merito a Luparia, abbiamo da qualche anno anche l’edizione italiana – avrebbe disvelato negli Usa la fallacia di alcune certezze relative al processo penale, “quali l’assoluta affidabilità della prova del DNA”. Deve essere stato un lapsus. L’Innocence Project ha avuto lo straordinario merito – purtroppo talvolta tardivo –di aver scagionato 351 uomini condannati innocenti e di aver accusato 150 uomini colpevoli prima non accusati, utilizzando quasi esclusivamente la prova del DNA. È stato quindi un lapsus, un pensiero tropo veloce del redattore del report. È impossibile, infatti, che non sia così, vista la caratura dei relatori del convegno. La prova del DNA è una prova formidabile, ma, ovviamente, essa, come tutte le prove della scienza, e tutte le prove che l’uomo possa pensare, va applicata, ben conoscendone la metodologia, e tenendo a mente i gradi di incertezza non eliminabili che qualunque sapere porta con sé. Come detto, la scienza non è infallibile ma, come l’Innocence Project dimostra in modo lampante, essa è comunque più affidabile di qualunque altro tradizionale metodo investigativo o giudiziario di accertamento della verità, che difatti, in quei tragici 350 casi – alcuni dei quali giustiziati (uso assai profano della sacra parola giustizia) – avevano malamente fallito. Torniamo sempre allo stesso punto. Il Giudice deve sapere come usare la scienza del DNA. Chi glielo insegna, però?

 

10.

Vengo brevemente alla fine. Ho scritto prima che a domanda semplice c’è risposta semplice. La risposta che ho dato alla domanda “che fare?” – il Giudice deve mettersi a studiare scienza, o almeno i metodi fondamentali della scienza – è solo apparentemente semplice. Far sì che il Giudice acquisisca e progressivamente raffini proprie fondamentali conoscenze della scienza, è una missione intellettuale straordinaria ma difficilissima. Ho accennato che in Italia, purtroppo, la cultura scientifica non ha mai avuto vita facile. Nelle facoltà di giurisprudenza men che meno. Non impariamo nemmeno i rudimenti della statistica. Chi non sappia i rudimenti di statistica non può capire scienze o quasi scienze come l’epidemiologia, ma nemmeno scienze più scienze, come la biologia, nei cui campi, osservazionale l’uno e sperimentale l’altro, se non si fa uso della statistica, si rischia di prendere lucciole per lanterne, cioè, detto fuor di metafora, si rischia di prendere per correlazioni causali mere successioni di eventi del tutto casuali. I Giudici sono tuttora reclutati in base a prove di conoscenza tecnica del diritto e del ragionamento sul diritto, cioè sanno come risolvere la quaestio iuris, ma, il più delle volte, la quaestio iuris è abbastanza semplice – perché il diritto non è difficile e guai se lo diventa perché il Diritto deve restare a misura d’uomo comune cui solo esso è destinato! – e niente affatto decisiva, se non raramente. Chi creda che il processo funzionerebbe meglio se si parlasse più di diritto che di fatto, non sa letteralmente che cosa dice. La quaestio facti, come cioè il Giudice possa e debba razionalmente conoscere il fatto, è spesso l’unica davvero decisiva, ed è effettivamente difficile, perché il Giudice non fa un passo sul sentiero della ragione, se non applica cum grano salis la o le logiche dell’incerto – l’abduzione! – e se non dubita continuamente di tutto, imparando dalla scienza quali dubbi debba avere e quali no.

 

11.

Altrimenti rischia di cadere, senza nemmeno rendersene conto, nel tunnel, tipico bias di comuni euristiche della mente, distorsioni sistematiche della ragione, ben note alla scienza (e a qualche sparuto giurista) da decenni ormai di cui, mi pare, s’è detto qualcosa anche nel convegno romano e di sicuro in qualche altro convegno e in qualche lezione di qualche corso di perfezionamento. Questi convegni, però, non servono a nulla o quasi. Se giuristi, Giudici Dotti e Avvocati, parlano tra loro di cose che non sanno (dalla psicologia cognitiva alla statistica alla biologia e tanto altro ancora) e non credono utile invitare a quei convegni scienziati davvero esperti di quei campi, quei convegni avranno altri più o meno nobili obbiettivi, magari la piacevole sensazione del riconoscimento del proprio status superiore nel campo del diritto, ma falliranno sempre gli obbiettivi veri, cioè il progresso del diritto mediante il progresso della cultura dei giuristi. Nulla di quel parlare in quei convegni mai si imprimerà nel diritto vivente. Ci facciamo bastare così poco? Luparia, credi che basti questo? Partiamo con 25 anni di ritardo rispetto agli USA. Ci mettiamo a correre o speriamo, come pensava Zenone, che Achille non raggiungerà mai la tartaruga? Io penso di no, che non basti sperare. Io penso che la tartaruga si debba mettere a correre, che cioè sia necessario un enorme impegno culturale collettivo e sistemico – in grado di coinvolgere i vertici della politica e del diritto e della scienza – capace di migliorare davvero la cultura del diritto e far penetrare questi saperi nel… DNA del Giudice, del PM o dell’avvocato. Ci dovrebbe essere una mobilitazione della Corte di Cassazione e del CSM ma anche del Guardasigilli. Negli USA è andata così. Perché qui no? Gli Stati Generali qui servirebbero davvero, perché c’è da mettere in agenda un grande programma culturale di riforma del diritto penale, per renderlo adeguato al XXI secolo e alla scienza del XXI secolo. Solo così si evita – o si può sperare di evitare – che il Giudice commetta errori e che il diritto penale non perda credibilità. Solo così, finalmente, forse troveremo il coraggio di illuminare davvero il lato oscuro del diritto penale è non faremo più come oggi, cioè nasconderlo dietro lo slogan del giudice peritus peritorum. O, che è lo stesso, del giudice custode o gatekeeper della scienza nel processo. Siamo all’anno zero, però, o forse all’anno 1 o 2, piaccia o no.

 

12.

Qualcosa, però, si può e si deve fare subito. Noi di DPC l’abbiamo fatto (o, almeno, io speravo di averlo fatto). Abbiamo pubblicato la terza edizione del Reference Manual on Scientific Evidence del 2011. Susanna Arcieri ha scritto più note su questo colossale sforzo culturale che il sistema politico (il Federal Judicial Center) scientifico (la National Academy of Sciences) e giudiziario (innumerevoli giudici e avvocati) USA ha saputo mettere in piedi (a proposito, non ho alcuna simpatia per il diritto penale USA e non solo perché alcuni Stati hanno ancora la pena di morte, ma anche per altre ragioni che conto di illustrare a breve). Come sapete, tutto è nato nel 1992 (anno di nascita anche dell’Innocence Project) quando una influente associazione americana aveva lanciato l’allarme. Attenzione, diceva, l’ignoranza del Giudice nel campo della scienza, rischia di produrre profluvi di sentenze errate e ingiuste, e questo può minare alla radice la credibilità dell’intero sistema giudiziario. Poi arriva Daubert, sempre nel 1992, ma Daubert e le successive sentenze della Corte Suprema USA da sole non sarebbero servite a nulla. Daubert è una veloce e sommaria infarinatura di filosofie della scienza tra loro spesso discordanti (non è corretto buttare nella stessa minestra induttivismo e falsificazionismo, o falsificazionismo e convenzionalismo). Daubert è importante solo perché il movimento culturale di cui fu effetto ha partorito, alla fine, il Reference Manual, che è stato inviato a tutti Giudici americani, affinché lo studiassero. Il Reference Manual, infatti, contiene i rudimenti essenziali del metodo delle scienze che più frequentemente entrano nei processi, cioè quel che si deve pretendere che un Giudice peritus peritorum per davvero e non per finta, almeno sappia. Sotto questa soglia non c’è nulla, se non vacuo illusionistico far finta di sapere. Andate a vedere nel Reference Manual – chi lo voglia – le note agli articoli sulla statistica – che è la spina dorsale logico – matematica di tutte le scienze, il vero linguaggio base delle scienze – e avrete un’idea del livello di complessità e sofisticazione che i Giudici negli USA hanno raggiunto nel trattare la materia. Il convegno romano, quindi, bene ha fatto a coinvolgere la cultura giuridica USA – più evoluta della nostra – nel dibattito cruciale intorno all’errore giudiziario. Mi ha però sorpreso – ma forse è davvero solo colpa della sintesi magari troppo sintetica che ho letto – che Luca Luparia, ripeto meritevole ideatore del convegno e – se non ho capito male – dell’Innocence Project italiano – non si sia avveduto che i relatori citavano lo Strengthening Forensic Science in the United States: A Path Forward Committee on Identifying the Needs of the Forensic Sciences Community, National Research Council, del 2009, e non hanno invece citato il Reference Manual del 2011. Nemmeno lui che è uno dei meritori componenti del comitato di direzione di DPC lo ha citato. Perché? È dura accettare che nemmeno in DPC quel seme – iniziale e parziale – che abbiamo gettato, io e qualcuno dei miei grandi collaboratori, ha dato alcun frutto. Evidentemente ci vuol altro ancora. Prometto che ci sarà dell’altro, a breve!

 

13.

Si può rimandare la resa dei conti, ma non per sempre. Il prezzo che si paga, infatti, scegliendo di non prendere il toro per le corna è che il toro prenda con le corna noi. Il prezzo, cioè, in termini di serietà e razionalità delle sentenze del Giudice, nel tempo in cui la scienza dice quasi tutto quel che può essere detto del mondo e dell’uomo, può essere già oggi troppo alto per essere accettabile. Ma il peggio, o il meglio, a seconda dei punti di vista, come ho accennato deve ancora arrivare! Mi limito per il momento a rinviare il lettore al sommario dei saggi contenuti nel Reference Manual (c’è anche quello sul DNA) e alla breve storia di questo documento, scritta da Susanna Arcieri.

 

Ringrazio per l’attenzione

 

Luca Santa Maria

(ideatore nonché editore di DPC)