Con la sentenza n. 5870/2011 la terza sezione della Corte di Cassazione ha deciso di un ricorso presentato da un cittadino cinese avverso la conferma ex art. 321 c.p.p di un decreto di sequestro emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Nola in data 8 febbraio 2010. La pronuncia si segnala per aver provato a tradurre in chiave penalistica un recente indirizzo della sezione tributaria in tema di corretto impiego dei depositi IVA ai fini del rispetto della normativa sul contrabbando.
Il sequestro de quo era basato su un fumus commissi delicti inerente la fattispecie di cui all’art. 292 D.P.R. 43/1973 (aggravata ex art. 295, u.c., D.P.R. cit.): tale norma, a chiusura del sistema di diverse fattispecie di contrabbando ivi approntato, prevede “la multa non minore di due e non maggiore di dieci volte i diritti [non corrisposti]” per “chiunque, fuori dei casi preveduti negli articoli precedenti, sottrae merci al pagamento dei diritti di confine dovuti”, configurando in definitiva una fattispecie di contrabbando a forma libera, puramente causale. Nel caso di specie la condotta concretamente contestata era consistita nell’introduzione e contestuale estrazione della merce in un deposito IVA in asserita elusione del disposto di cui all’art. 50-bis D.L. 331/1993.
La norma da ultimo citata prevede un particolare regime eccezionale, per cui la corresponsione dell’IVA, che normalmente dovrebbe avvenire all’atto di presentazione delle merci in dogana, viene invece posticipata: per quanto qui d’interesse, il comma 4 della norma citata prevede, alla lettera b), che “sono effettuate senza pagamento dell'imposta sul valore aggiunto le seguenti operazioni: … b) le operazioni di immissione in libera pratica di beni non comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA”. L’IVA viene pertanto corrisposta in un momento successivo (essendo previsto un meccanismo di auto fatturazione che non comporta di fatto alcun versamento), tornando ad essere un tributo interno e non più un diritto di confine. Tuttavia, e qui sta la rilevanza elusiva della condotta contestata all’imputato, in taluni casi anche l’uscita della merce dal deposito non prevede il versamento dell’imposta, così da far risultare l’operazione completamente non imponibile (si pensi, ad esempio, alla successiva cessione a soggetto passivo IVA residente in altro Paese comunitario).
Negli ultimi anni si è registrato un certo dibattito in ordine alla necessità della materiale introduzione della merce nel deposito al fine di poter ritenere integrato l’istituto in parola con i suoi correlativi benefici fiscali: muovendo dalla lettera della norma e dallo spirito che ne ha giustificato l’introduzione (particolarmente la direttiva 95/7/CE), diverse circolari dell’Agenzia delle Dogane nonché un filone maggioritario della giurisprudenza hanno chiarito che “considerata la funzione svolta dall’istituto in esame, … i beni devono essere materialmente introdotti nel deposito … non essendo sufficiente la mera presa in carico documentale degli stessi” (Ag. Dog., circ. 16/D, 28.04.06).
Il tema della necessaria materialità dell’introduzione delle merci nel deposito, invero, attiene più che altro all’esclusione di cui alla lettera h) dell’art. 50-bis, co. IV, cit. (“sono effettuate senza pagamento dell'imposta sul valore aggiunto le seguenti operazioni: … h) le prestazioni di servizi, comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali, relative a beni custoditi in un deposito IVA, anche se materialmente eseguite non nel deposito stesso ma nei locali limitrofi sempreché, in tal caso, le suddette operazioni siano di durata non superiore a sessanta giorni”). E tuttavia la difesa del ricorrente ha cura di citare proprio una norma di interpretazione autentica (art. 16, co. V-bis, D.L. 185/08) riferita alla lettera h) ora citata, norma che ha chiarito che a determinate condizioni spaziotemporali non è necessaria la materiale introduzione della merce nel deposito IVA. Il riferimento a tale - apparentemente diversa - fattispecie si giustifica alla luce del ragionamento motivazionale seguito dai diversi giudici che hanno trattato il caso in parola.
Il passaggio fondamentale è infatti quello di comprendere quali siano gli esatti limiti, materiali e giuridici, dell’istituto del deposito IVA: il fatto di custodire la merce in locale attiguo al deposito, ovvero di dichiarare un volume di merce superiore alla capienza fisica del deposito, ovvero il fatto di immissione e contestuale estrazione della merce dal deposito configurano o non una elusione della disciplina tributaria?
La sezione tributaria della Corte di cassazione, nel maggio 2010, ha operato una stretta ermeneutica sul punto, decidendo per la legittimità del recupero, effettuato da alcuni uffici doganali, dell'IVA gravante su merci importate in Italia e destinate a un deposito IVA che non aveva la capienza sufficiente a contenerle. Il principio enunciato (e peraltro criticato da parte della dottrina) è quello dell’effettività del deposito, inteso anche a livello comunitario (cfr. Capo III, Sez. I, del Codice Doganale Comunitario – Reg. 08/450/CE) quale luogo effettivo di immagazzinamento delle merce: considerato che l’art. 50-bis cit. non può che essere interpretato alla luce del diritto comunitario di cui è attuazione, la Cassazione conclude per la necessaria effettività del deposito.
A tale filone sembra riferirsi anche la sentenza qui in esame, anch’essa occupandosi di un problema di effettività del deposito, non già dal punto di vista del luogo ad esso adibito bensì della sua durata.
La difesa aveva infatti sostenuto che l’assenza di un tempo minimo di permanenza della merce nel deposito era sufficiente a rendere legittima la condotta del ricorrente; a sostegno di tale prospettazione veniva poi richiamato per via analogica il già citato art. 16, co. V-bis, D.L. 185/08, come a dire che è lo stesso legislatore a porre delle eccezioni al principio di materialità/effettività del deposito. La Cassazione, invece, spostando la questione dalla verifica della necessità di tempi minimi di permanenza all’accertamento della stessa esistenza causale del negozio di deposito, ha statuito per l’illegittimità della condotta censurata. In altre parole, il punto non sarebbe stabilire se vi sia e quale sia un tempo minimo di permanenza, bensì verificare se il negozio di deposito abbia avuto o non una ragion d’essere idonea a giustificarlo dal punto di vista economico-giuridico (si rammenti la tipica funzione di custodia che il deposito generalmente assume).
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Tale iter argomentativo, se può convincere sotto una prospettiva tributaristica, si presta tuttavia ad alcune perplessità in chiave penalistica, che possono essere qui solo brevemente accennate e che ineriscono tanto la tipicità quanto l’elemento soggettivo del reato contestato. Il panorama normativo in materia non è infatti affatto chiaro ed univoco: si consideri che il Codice Doganale Comunitario prevede espressamente l’assenza di un termine di durata minima del deposito (art. 150, I co.); si consideri altresì la norma interpretativa sopra citata (il tema è all’evidenza assai connesso con il presente); si consideri infine che la stessa Suprema Corte, nelle pronunce del maggio 2010 sopra citate, ha sempre disposto la compensazione delle spese processuali motivata dalla “novità delle questioni dibattute”. L’obiettiva incertezza sull’esatta definizione dei limiti dell’istituto del deposito IVA dovrebbero condurre ad una sua più cauta definizione in ambito penalistico, ciò già sotto il profilo della tipicità della condotta. Rilevato poi che la condotta de qua fa data al febbraio 2010, ci si domanda se il reato di contrabbando possa comunque non ritenersi integrato in ragione di una carenza dell’elemento soggettivo individuato in capo all’agente, anche in luce del fatto che nel reato de quo la violazione della norma doganale si presenta come mero fatto, e pertanto soggetto alla disciplina di cui all’art. 47, co. I e III, c.p., o, diversamente opinando, della disciplina di cui all’art. 5 c.p. come integrato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988.