ISSN 2039-1676


19 aprile 2018 |

M. Daniele, Habeas Corpus. Manipolazioni di una garanzia, Giappichelli, 2017

Recensione

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1. In ogni ordinamento in cui si è affermato, il divieto di comprimere in modo arbitrario la libertà della persona sottoposta a procedimento penale ha scontato e continua a scontare, in misura più o meno intensa e palese, forme di «mortificazione applicativa». Si tratta di una costante della storia giuridica moderna, in relazione alla quale si sono sviluppate copiose e attente riflessioni dottrinali, tali – sembrerebbe a prima vista – da chiudere ogni spazio per indagini dai tratti originali. Non è così: i profondi mutamenti tecnologici, economici e sociali che contraddistinguono l’era della globalizzazione alterano il contesto in cui s’inserisce quella costante e impongono ripensamenti, chiavi di lettura inedite, uno sguardo nuovo.

È questo dato di realtà a veicolare l’interesse dell’A. verso le odierne aggressioni all’habeas corpus, sia nel quadro dei sistemi statali sia nella dimensione sovranazionale. L’ottica prescelta ai fini dell’analisi guarda alla conformazione giuridica della garanzia: muovendo dalla distinzione di teoria generale tra “regole” e “principi” elaborata negli anni sessanta del secolo scorso da Dworkin, l’A. contrappone l’habeas corpus inteso come regola (negli ordinamenti statali) e come principio (nel diritto dell’Unione europea). Nella prima veste, esso «si presenta come un sistema di prescrizioni imposte dai legislatori nazionali e dotate di tendenziale precisione»; configurato come principio, invece, assume «una forma più elastica, chiedendo di essere concretizzato ed adattato in ciascun caso da parte della giurisprudenza». Al mutare del “codice genetico” (regola/principio), variano «l’identità strutturale e il metodo di funzionamento della garanzia», la tipologia e il veicolo degli attacchi ad essa sferrati nonché la capacità di resistenza alle distorsioni applicative (capitolo I).

 

2. È a partire da questa intuizione che l’A. sviluppa l’indagine secondo due direttici: una corre lungo il binario dell’habeas corpus come regola (parte prima); l’altra si muove sul terreno dell’habeas corpus come principio (parte seconda). Su entrambi i versanti, l’analisi ha il pregio di mettere a fuoco sia il lato “fulgido” dell’istituto (le sue matrici e gli elementi costitutivi) sia il «lato oscuro», vale a dire le erosioni cui è sottoposto ad opera del potere legislativo e giurisprudenziale.

Nell’ordinamento italiano – come in altri sistemi giuridici nazionali – il divieto di compressioni arbitrarie della libertà prende la forma della regola. Il «monopolio legislativo» sulla garanzia affonda le radici nell’ordinamento inglese del XXVII secolo e, in particolare, nell’Habeas corpus Act del 1679, al quale va riconosciuto il merito di aver affermato l’idea che il presidio «sia capace di esprimere la sua massima potenzialità solo attraverso lo strumento della legge parlamentare». Un’idea che, per “positivo contagio”, si è trasmessa a tutti i sistemi processuali d’Europa e trova eco nell’art. 13 Cost. (capitolo II, sezione prima).

Allargando lo sguardo all’orizzonte sovranazionale, si coglie come quell’«archetipo storico» sia stato trasfuso anche nell’art. 5 C.e.d.u., il quale consente limitazioni alla libertà e alla sicurezza delle persone solo nei casi espressamente previsti e «nei modi prescritti dalla legge». Esiste, dunque, accanto a quella costituzionale, una matrice convenzionale dell’habeas corpus in forma di regola, la cui effettiva portata tuttavia non è di agevole inquadramento. Ciò dipende dall’opacità che connota la dimensione applicativa della Convenzione europea – per come interpretata dai giudici di Strasburgo – nell’ordinamento interno: un’opacità che l’A. restituisce appieno, ripercorrendo, in un affresco nitido e puntuale, la trama delle sentenze della Corte costituzionale in materia di margine di apprezzamento nazionale e di “diritto convenzionale consolidato” (capitolo II, sezione seconda).

 

3. L’angolo visuale si estende poi agli «elementi che assurgono al rango di essentialia delle fattispecie di habeas corpus» (capitolo III). In particolare, l’A. individua tre requisiti indefettibili «in assenza dei quali la privazione della libertà deve sempre considerarsi illegittima».

Il primo elemento è la «riserva di legge rinforzata»: non basta che forme di compressione trovino fondamento nella legge; occorre che quest’ultima persegua finalità non vietate dalla Costituzione e comunque riconducibili agli obiettivi indicati dalla Convenzione europea. Il secondo requisito imprescindibile è la «stretta necessità»: il vulnus alla libertà personale è legittimo solo qualora non siano praticabili misure meno invasive egualmente utili a realizzare lo scopo preso di mira dal legislatore. Infine, la regola sull’habeas corpus esige un vaglio – «da parte di un organo in posizione di imparzialità e nel contraddittorio con gli interessati» – che non solo abbia ad oggetto gli aspetti formali della misura, ma assuma anche le forme di un «accertamento storico sui fatti che giustificano la privazione della libertà».

 

4. La ricerca si addentra, quindi, sul terreno delle distorsioni legislative (capitolo IV). Su questo fronte, l’A. muove dall’inquadramento del bene giuridico in nome del quale le dinamiche di attenuazione dell’habeas corpus sono realizzate: la sicurezza (capitolo IV, sezione I). Nonostante la sua incerta fisionomia costituzionale, in una società stretta nella morsa della crisi economica e lacerata dal terrorismo e dalle tensioni legate ai flussi migratori, l’esigenza di protezione dalle minacce provenienti da terzi diventa orizzonte totalizzante del discorso penale, un «paradigma generale per gli interventi del potere politico», e come tale sollecita forme di (s)bilanciamento tra libertà personale e tutela della sicurezza che rischiano di risultare sproporzionate oltre che costituzionalmente indifendibili. Obiettivo dell’indagine è quello di illuminare «i limiti massimi a cui può spingersi la compressione dell’habeas corpus configurato come regola» sulla spinta di questo «bisogno “drogato” di sicurezza». Costituisce un angolo visuale privilegiato il terreno cautelare e, in particolare, il “buco nero” dell’art. 274 lett. c c.p.p. – fattispecie a vocazione marcatamente preventiva – verso cui naturalmente convergono le pulsioni securitarie più spinte.

Sotto questo profilo, l’A. distingue due diversi tipi di compressione dell’habeas corpus, che, in una scala ad intensità crescente, rispondono rispettivamente ad esigenze ordinarie e straordinarie di protezione della sicurezza: da una parte, le dinamiche di riduzione che, «pur non eliminando i tratti essenziali della garanzia, ne limita[no] la portata»; dall’altra, vere e proprie forme di sospensione, «capaci di azzerare il potere di accertamento storico del giudice in merito ai presupposti che giustificano la privazione della libertà».

 

4.1. Nel primo caso (capitolo IV, sezione II), la contrazione dell’habeas corpus avviene mediante il ricorso a tecniche di semplificazione normativa della fattispecie cautelare: alcuni dei fatti storici su cui cade l’accertamento del giudice sono «artificiosamente creati dalla legge» allo scopo di «privilegiare l’organo di accusa, agevolando la privazione della libertà personale».

La disciplina processuale italiana non è estranea a fenomeni di questo tipo. Lo confermano gli scorci retrospettivi sul mandato di cattura obbligatorio – basato sulla combinazione di due presunzioni assolute: di sussistenza dei pericula libertatis e di adeguatezza della risposta carceraria – e sul mandato di cattura discrezionale, fondato su una presunzione assoluta in ordine alle esigenze cautelari e su una presunzione relativa di necessità della carcerazione.

Nell’assetto vigente, le dinamiche di riduzione trovano linfa nell’art. 275 comma 3 c.p.p.: una disposizione tormentata che, nella fisionomia attuale, prevede due diversi schemi presuntivi. Il primo trova applicazione nei procedimenti per associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), sovversiva (art. 270 c.p.) e terroristica (art. 270-bis c.p.) ed esige che il giudice, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, applichi la custodia cautelare in carcere (presunzione iuris et de iure) «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari» (presunzione iuris tantum). Il secondo opera in relazione ad una serie eterogenea di altri reati ed è imperniato su una duplice presunzione relativa in ordine alla presenza dei pericula libertatis e alla stretta necessità della carcerazione («si applica la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure»).

Nel ripercorrere le vicende che hanno interessato questi modelli presuntivi a geometria variabile e nel prefigurarne gli svolgimenti futuri, l’A. si sofferma sul tema – centrale – della necessità di una base empirica a sostegno delle presunzioni, funzionale a rendere le smagliature dell’habeas corpus compatibili con l’impianto costituzionale. È proprio facendo leva su questo argomento che la Corte costituzionale ha smantellato buona parte delle presunzioni assolute di adeguatezza della custodia cautelare previste dal pacchetto sicurezza del 2009 (secondo uno schema poi ratificato dal legislatore nel 2015) e che si può ragionevolmente sperare nel superamento anche degli «ultimi bastioni» in materia di associazione mafiosa, sovversiva e terroristica.

Se questa tendenza va certamente salutata con favore, non devono essere sottovalutati i possibili “effetti di ritorno” connessi alla trasformazione delle presunzioni: da iuris et de iure in iuris tantum. È senz’altro vero, infatti, che così il giudice riacquista, almeno in parte, il potere di accertare i presupposti della cautela; tuttavia, quell’accresciuta capacità di valutazione risulta più illusoria che reale se si ragiona sul concreto operare del paradigma presuntivo. Il combinarsi delle due presunzioni relative (riferita l’una alle esigenze cautelari e l’altra alla stretta necessità della carcerazione) – mette in guardia l’A. – ha un effetto esiziale sui poteri di accertamento storico del giudice. La presunzione di sussistenza dei pericula libertatis riduce gli obblighi motivazionali. A meno che la difesa non riesca a fornire elementi idonei a dimostrare un totale deficit di esigenze cautelari, il giudice, al momento di scegliere la misura da applicare, per lo più ha in mano gli elementi che sorreggono i gravi indizi di colpevolezza: «un compendio spesso incapace di fornire gli input indispensabili per stabilire se la presunzione relativa sull’adeguatezza del carcere sia superabile». L’effetto che ne deriva – un «vuoto cognitivo assoluto» tale da «lasciare spazio alla massima arbitrarietà nelle decisioni di privazione della libertà» – non è molto diverso da quello connesso all’operare della presunzione assoluta.

 

4.2. L’analisi si sposta, quindi, sul versante delle sospensioni dell’habeas corpus (capitolo IV, sezione III), vale a dire le manipolazioni legislative che non si limitano a comprimere i poteri di accertamento storico del giudice, ma arrivano a sacrificarlo del tutto «consentendo una detenzione che si potrebbe definire “amministrativa”». La rinuncia al controllo giurisdizionale può essere formalmente statuita da una norma di legge ovvero può prodursi in via di fatto come accade quando gli elementi sui quali si basa la richiesta privativa della libertà personale sono sottratti al vaglio del giudice per via dell’opposizione del segreto di Stato.

Con specifico riferimento all’ordinamento italiano, una ipotetica legge che, a fronte di eccezionali esigenze di sicurezza, sacrificasse l’accertamento storico del giudice in ordine alla detenzione ante o extra iudicium non troverebbe appigli nella Costituzione (l’art. 78 Cost. non stabilisce espressamente la facoltà di limitare la libertà personale in via amministrativa durante lo stato di guerra); ma troverebbe forse copertura nell’art. 15 C.e.d.u., a mente del quale gli Stati «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» possono adottare misure in deroga agli obblighi convenzionali nell’ipotesi «in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale». La disposizione elenca una serie tassativa di diritti fondamentali che non possono mai costituire oggetto di eccezione: fra questi non figura la libertà personale. Di qui, la breccia che potrebbe teoricamente legittimare, in condizioni di emergenza, strumenti limitativi della libertà personale di carattere amministrativo. Non sarebbe, del resto, il primo caso: proprio su quella breccia ha fatto leva il Parlamento inglese quando ha introdotto, per mezzo dell’Antiterrorism, Crime and Security Act 2001, una forma di detenzione dalla durata indefinita nei confronti degli stranieri sospettati di terrorismo. Né varrebbe obiettare che la fattispecie è stata ritenuta, sia dalla House of Lords che dalla Grande Camera della Corte europea, incompatibile con il disposto dell’art. 15 C.e.d.u.: il giudizio, infatti, ha investito non l’astratta configurabilità, ma la concreta fisionomia della misura.

Profili se possibile ancora più problematici affiorano nell’eventualità in cui il vaglio giurisdizionale sulla privazione della libertà personale, seppur formalmente garantito, risulti nella sostanza svuotato a fronte del vincolo del segreto di Stato sugli elementi conoscitivi posti a fondamento della misura. Si tratta, infatti, di forme di sospensione dell’habeas corpus più subdole e per questo potenzialmente più pericolose. Attraverso l’esame di alcuni casi emblematici della giurisprudenza statunitense e inglese post 11 settembre 2001, l’A. offre un quadro di sintesi dei nodi connessi al fenomeno, denunciando, in particolare, come le finalità di tutela siano eluse anche quando il controllo sull’ubi consistam del segreto è affidato ad un giudice ed è previsto l’intervento di uno special advocate nell’interesse della difesa.

 

5. L’habeas corpus come principio appare nelle fonti eurounitarie (art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale, in combinato disposto con gli artt. 47 § 2 e 48, assicura il divieto di privazioni arbitrarie della libertà personale nel settore della cooperazione giudiziaria e dell’armonizzazione delle normative nazionali (capitolo V). A conferirgli la fisionomia di principio sono: l’incompletezza e l’elasticità che connotano la disposizione, incapace di fissare una disciplina compiuta e di scolpire una fattispecie, e i correlati poteri della Corte di giustizia di definizione del contenuto del diritto. La Carta di Nizza è uno «strumento dinamico, che ambisce ad adattarsi costantemente ai cambiamenti e alle evoluzioni della società» e per fare ciò ha bisogno di norme duttili e malleabili, aperte a equilibri e bilanciamenti sempre nuovi. Da ciò deriva che il contenuto dell’habeas corpus – così come il contenuto delle altre garanzie processuali che trovano riconoscimento nella Carta – è specificato dal diritto derivato dell’Unione e, soprattutto, dal case-law dei giudici di Lussemburgo, i quali esercitano di fatto una funzione «para-normativa» che consente loro di «modellare il volto dei diritti fondamentali in ambito UE».

Si tratta di alchimie molto diverse da quelle esplorate in precedenza, dalle quali emerge nitidamente il ruolo preponderante assegnato al potere giudiziario nella tutela della libertà da coercizioni arbitrarie e che rischiano di imporsi anche a livello interno per via della sempre maggiore apertura dell’ordinamento italiano alle fonti sovranazionali. La «peculiare forza impositiva del diritto dell’Unione», anche nei settori di competenza concorrente come quello del diritto e della procedura penale, in uno con la «forza espansiva dei diritti fondamentali declinati come principi», che tende ad ampliare il perimetro applicativo del diritto eurounitario e, correlativamente, gli obblighi di conformazione degli Stati membri, rischiano di innescare, a livello interno, un processo di «transizione» dell’habeas corpus da regola a principio. Il pericolo è che la fattispecie legale sia scalzata in favore della più generica norma europea con l’effetto di attenuare lo standard di tutela.

L’antidoto su cui puntare per scongiurare, o quantomeno razionalizzare, questi assetti è il principio di legalità, il quale impone che le regole eurounitarie «siano in grado di evitare l’arbitrio, […] assicurino la parità di trattamento e la prevedibilità delle decisioni». In quest’ottica, sono due le strade da battere: salvaguardare in ogni caso il livello di protezione della garanzia stabilito dalla Corte di Strasburgo e tenere conto di quello operante negli Stati membri, specie nella misura in cui questo sia capace di offrire una salvaguardia più intensa rispetto alla norma dell’Unione. Ciò significa che quando intende derogare allo standard nazionale, la Corte di giustizia non deve limitarsi a invocare generiche esigenze di «unità ed effettività del diritto dell’Unione», ma deve motivare il disallineamento sulla scorta di un giudizio di proporzionalità.

 

6. Nell’ottica di cogliere la transizione dell’habeas corpus da regola a principio, è paradigmatica la disciplina del mandato di arresto europeo (MAE) (capitolo VI). Ove quest’ultimo sia emesso ai fini dell’esercizio dell’azione penale, le norme sull’habeas corpus dello Stato di esecuzione sono temporaneamente sospese: in forza del principio del mutuo riconoscimento, l’ordine va comunque eseguito, anche nell’ipotesi in cui non sussistano i presupposti richiesti dalla lex loci in rapporto ad un analogo provvedimento nazionale. Al fine di assicurare la rapida consegna dell’imputato, le garanzie nazionali sono sostituite dal più generico e indeterminato obbligo di rispettare i diritti fondamentali di cui all’art. 6 CDFUE (considerando 12 della decisione quadro sul MAE), il cui contenuto è specificato, di volta in volta, sulla scorta degli «input ermeneutici della Corte di giustizia».

Si compie, per questa via, la «mutazione genetica» dell’habeas corpus a cui si salda una sensibile attenuazione della garanzia. Sono, infatti, progressivamente erose le componenti fondamentali che essa presenta nei sistemi in cui è configurata come regola: l’accertamento del fumus delicti – per disporre la consegna basta che sia indicata, da parte dello Stato di emissione, l’esistenza di un provvedimento di arresto (art. 8 §1 d.q. MAE) – e della stretta necessità della misura: non è previsto il requisito della doppia incriminazione, con l’effetto di rendere possibile la consegna anche quando vengono in gioco reati di minima gravità. Risulta svuotato, infine, anche il diritto al contraddittorio del ricercato: la decisione quadro si limita a prevedere il diritto dell’arrestato che non abbia acconsentito alla consegna di essere sentito dall’autorità giudiziaria di esecuzione; non è assicurato un rimedio giurisdizionale al fine di dimostrare che non ricorrono i presupposti per la privazione della libertà

 

7. Nelle note conclusive, lo sguardo torna ad allargarsi per ricostruire le interazioni fra le due direttrici indagate e tratteggiare prospettive e orizzonti di lungo periodo. L’habeas corpus si conferma una garanzia fragile, soggetta a smagliature e manipolazioni da parte del potere legislativo (quando la garanzia prende la forma della regola) e del potere giudiziario (quando prende la forma del principio). Le spinte che azionano queste dinamiche riduttive vanno ricondotte, da una parte, all’«ossessione della tutela della sicurezza» e, dall’altra, alla volontà di affermare nuovi assetti di potere nei rapporti fra Stati nazionali e Unione europea. Il rischio è che le due tendenze degenerative si influenzino e rafforzino a vicenda in una pericolosa corsa al ribasso. Nell’ottica di salvaguardare il nucleo essenziale della garanzia, allora, è necessario attivare gli «anticorpi» individuati sia sul versante interno (valorizzando l’orientamento della Corte costituzionale teso a stabilire confini molto rigorosi per gli spazi di immunità dal controllo giurisdizionale sulle cautele) sia su quello eurounitario (affermando senza riserve «l’esigenza di rispettare gli standard minimi in rapporto alla privazione della libertà personale rinvenibili nella CEDU, nonché di motivare in ciascun caso concreto, sulla base del canone di proporzionalità, le deviazioni dalle garanzie processuali apprestate dalle norme nazionali»).