ISSN 2039-1676


09 luglio 2018 |

"Poca prova, poca pena": una curiosa decisione della Cassazione sulla rilevanza dell'atipicità del decorso causale al fine del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche

Cass., Sez. I, sent. 12 settembre 2017 (dep. 5.2.2018), n. 5306, Pres. Di Tomassi, Est. Magi, imp. Pegoraro Corte d'assise d'appello di Milano, Sez. II, sent. 27 marzo 2018 (dep. 9 aprile 2018), n. 13, Pres. ed est. Piffer, imp. Pegoraro

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2018

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1. Quando si conclude un processo in cui la difesa ha strenuamente affermato l’inidoneità del materiale probatorio fornito dall’accusa a sostenere una sentenza di condanna, ed il giudice ha invece condannato l’imputato, ma ad una pena modesta, nel gergo giudiziario si usa commentare così: “poca prova, poca pena”. Questa espressione sta a significare che, nella prospettiva del difensore, il giudice non era pienamente convinto che il materiale probatorio dimostrasse davvero la colpevolezza dell’imputato, ma non ha avuto il coraggio di assolverlo, e lo ha condannato ad una pena molto bassa. Si tratta ovviamente di un bilanciamento insostenibile in termini razionali: se il giudice ha dei dubbi circa la colpevolezza del prevenuto deve assolvere, se condanna significa che si è convinto oltre ogni ragionevole dubbio che l’imputato è colpevole; l’idea di compensare la fragilità dell’impianto probatorio con una pena prossima al minimo edittale è semplicemente aberrante, e contraria ai principi fondamentali del processo penale. Ebbene, questa logica pare avere trovato sorprendentemente riscontro in una pronuncia della Cassazione che il lettore trova qui allegata, insieme alla decisione della Corte d’assise d’appello di Milano che, in qualità di giudice del rinvio, si è trovata ad applicare il dictum dei giudici di legittimità.

 

2. La Cassazione doveva decidere una vicenda molta nota alle cronache, quella dell’omicidio nel luglio 2013 del sindaco di Cardano al Campo (VA) Laura Prati da parte dell’ex-vicecomandante della polizia locale del medesimo comune, Giuseppe Pegoraro. Sospeso dal servizio in quanto coinvolto in un procedimento penale per peculato, e ritenendo di avere subito delle ingiustizie da parte dei vertici dell’amministrazione comunale, il Pegoraro era entrato negli uffici comunali armato di pistola, si era recato nell’ufficio del sindaco con una scusa ed aveva sparato a lei ed al vice-sindaco, ingaggiando poi un conflitto a fuoco con diversi agenti di polizia nel tentativo di darsi alla fuga. La Prati, raggiunta da tre proiettili nella regione addominale, moriva a distanza di venti giorni dal ferimento “a causa di una emorragia cerebrale sub-aracnoidea massiva prodottasi già dalla settimana successiva al ferimento e correlata ad una dissecazione dell’arteria vertebrale sinistra, ritenuta causalmente correlata alla caduta all’indietro in occasione del ferimento e agli altri fattori di stress dovuti agli interventi chirurgici iniziali ed ai danni prodottisi in tali occasioni” (così ricostruiscono i giudici di legittimità il decorso eziologico, come accertato dalle sentenze di primo e secondo grado).

I giudici di merito (GUP Tribunale Busto Arsizio e Corte d’assise d’appello di Milano) avevano condannato l’imputato alla pena dell’ergastolo. In particolare, in relazione all’argomento difensivo secondo cui la morte per emorragia cerebrale non sarebbe stata eziologicamente riconducibile ai colpi di pistola che avevano raggiunto la vittima nella zona addominale, la Corte milanese, alla luce delle risultanze peritali, esclude tale conclusione, ritenendo che tanto lo stress complessivo derivante dalle gravissime lesioni intestinali, quanto il colpo alla testa al momento della caduta, debbano ritenersi concause dell’evento letale, che non può essere attribuito, come ritiene la difesa, ad una congetturata anomalia congenita della persona offesa.

La tesi della mancanza di prova del nesso causale viene riproposta dalla difesa dell’imputato in sede di legittimità. La Cassazione apre l’analisi dello specifico motivo ammettendo che “l’elaborazione motivazionale contenuta nella decisione non è del tutto immune da aporie logiche ed eccessi di semplificazione argomentativa”; tuttavia, “gli aspetti di criticità – segnalati nel ricorso ed in parte sussistenti – non possono condurre all’annullamento della affermazione di penale responsabilità per il delitto di omicidio volontario, ma ad una ridiscussione di alcuni profili sanzionatori”[1].    

La Corte, in sostanza, rimprovera ai giudici di merito di avere sottovalutato la reale complessità del decorso eziologico, non giungendo a fornire una ricostruzione convincente dello stesso. La sentenza di secondo grado ritiene di individuare univocamente nella caduta al suolo della vittima al momento dell’aggressione la causa della dissecazione dell’arteria e della conseguente emorragia cerebrale, mentre secondo la Cassazione “dagli atti emergono altri due possibili fattori di produzione di quel particolare evento – la dissecazione – che ha determinato l’infausto esito: al di là della ipotesi di malformazione congenita, vi è infatti ampio riferimento negli esami diagnostici e nelle cartelle cliniche ad un possibile aneurisma”[2].

Venendo a trarre le conseguenze in diritto di tale ricostruzione probatoria, la Cassazione esclude che “la presenza di possibili fattori causali incidenti in via alternativa o cumulativa sulla produzione dell’evento” debba condurre a non ritenere provato il nesso di causalità. La Corte richiama una decisione del 1995 secondo cui “qualora siano prospettabili più ipotesi alternative in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento, non è censurabile la sentenza che affermi la sussistenza del nesso causale tra la condotta dell’imputato e l’evento, senza precisare quale tra esse si sia realmente verificata, qualora identiche siano le conseguenze giuridiche dall’una o dall’altra derivanti”[3]. Nel caso di specie, né l’ipotesi dell’aneurisma, né quella della malformazione congenita conducono ad escludere il nesso causale: la prima perché l’aneurisma sarebbe comunque da collegare all’intervento chirurgico, e dunque non configurerebbe quella serie causale autonoma capace ex art. 41 c.p. di interrompere il nesso eziologico; la seconda in quanto “non potrebbe ritenersi che l’eventuale malformazione congenita abbia di per sé sola determinato l’evento, atteso che i fattori di imponente stress e le alterazioni funzionali determinate dalla volontà altamente lesiva dell’imputato si pongono come concausa volontaria e di certo incidente nella determinazione dell’evento”[4].

La constatazione dei limiti della ricostruzione causale fornita dai giudici di merito non basta, dunque, secondo la Cassazione, per annullare la decisione in punto di causalità. Con motivazione sorprendente, che giova qui riportare integralmente, la Corte ritiene tuttavia che “l’assenza di certezza circa il determinismo traumatico, sposato come unica chiave esplicativa da parte della Corte d’appello, debba trovare considerazione ulteriore in punto di eventuale riconoscimento delle circostanze attenuanti atipiche. (...) Ciò perché, nella atipicità dei possibili fattori di attenuazione della pena ex art. 62 bis c.p. deve poter rientrare l’incidenza – rispetto all’evento di maggiore gravità – di un decorso causale complesso come quello sin qui esaminato, nel cui ambito trovano cittadinanza ipotesi che, pur non arrivando ad escludere il nesso causale, evidenziano come l’azione, pur sorretta da dolo alternativo di omicidio, abbia dato luogo, nei suoi effetti materiali, ad una serie causale caratterizzata da aspetti, almeno in parte, atipici[5].

La Cassazione conferma allora la condanna dell’imputato per omicidio volontario, ma annulla con rinvio la decisione d’appello quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in ragione della “mancata considerazione della ricorrenza di fattori causali prevedibili ma connotati da un certo grado di atipicità, aspetto che rifluisce, almeno in chiave di necessario apprezzamento, sulla applicabilità della previsione di legge di cui all’art. 62 bis c.p.”.

 

3. I giudici del rinvio si mostrano restii a fare applicazione dell’inedito principio di diritto affermato dalla Cassazione. La Corte milanese esplicita innanzitutto le ragioni per cui i possibili decorsi alternativi posti in evidenza dalla sentenza di legittimità non siano in grado (come riconosce del resto la stessa Cassazione) di mettere in discussione l’accertamento del nesso causale tra la condotta dell’imputato e la morte della persona offesa. Venendo al profilo che costituisce l’oggetto esclusivo del giudizio di rinvio, e cioè “allo specifico e limitatissimo tema dell’incidenza di un decorso causale connotato da possibili profili di ‘atipicità’ ai soli fini della valutazione relativa alla concessione delle circostanze attenuanti generiche”[6], la Corte d’assise d’appello prende le mosse dalla constatazione che “la prospettiva interpretativa esposta nella sentenza del S.C. appare del tutto peculiare, in quanto si basa sull’elaborazione dell’innovativa categoria degli ‘aspetti di atipicità’ di un ipotetico fattore concausale, rilevante solo ai fini di un’eventuale applicazione delle attenuanti generiche[7].

I giudici milanesi appaiono molto perplessi circa la fondatezza di tale “categoria dogmatica di assoluta novità”. Dopo avere ricordato come “le circostanze attenuanti generiche non vanno intese come oggetto di una benevola concessione da parte del giudice, (..) ma la loro concessione deve avvenire a seguito del riconoscimento dell’esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di un apprezzamento favorevole all’imputato”[8], la sentenza ritiene “difficile se non impossibile” ricondurre nel novero di tale elementi di positiva valutazione “l’incertezza di natura meramente probatoria sulla compiuta ricostruzione del nesso causale. Trattasi infatti di un dato che non attiene ai profili di oggettivo o soggettivo disvalore del fatto di reato, né alla personalità del suo autore in rapporto al reato stesso, ma che dipende semplicemente dai limiti delle capacità di conoscenza della compiuta dinamica del fatto, non riferibili in alcun modo alla condotta dell’autore del reato; un dato non riconducibile nemmeno ad una qualche idea di ‘graduazione’ del nesso causale, posto che rispetto ai fattori causali non è possibile utilizzare tale categoria (il nesso causale esiste o non esiste), diversamente da quanto avviene ad esempio per la colpa”[9].

La sentenza milanese giunge sino ad ipotizzare che il principio di diritto affermato dalla Cassazione conduca ad una interpretazione dell’art. 62 bis c.p. incostituzionale “per violazione del carattere personale della responsabilità penale, essendo il dato in questione (l’incertezza probatoria circa la ricostruzione del nesso causale: n.d.a.) del tutto avulso dal comportamento dell’autore del reato, in quanto dipendente ultimamente dal caso”[10].

Le conclusioni sono dunque perentorie: “la paradossalità di un simile ragionamento appare evidente, posto che il dato in esame non attiene assolutamente all’attenuazione del disvalore del fatto né sotto il profilo oggettivo, né sotto il profilo soggettivo e non può dunque, per definizione, essere valutato positivamente a favore dell’imputato ai fini dell’applicazione dell’art. 62 bis c.p.”[11].

Mostrando infine consapevolezza dell’anomalia di una sentenza di rinvio che contesta in modo esplicito il principio di diritto che sarebbe chiamata ad applicare, i giudici milanesi concludono precisando che “per mera completezza di esposizione, quand’anche in via meramente ipotetica si ritenesse di non escludere l’applicabilità dell’art. 62 bis c.p. per il dato di incertezza probatoria evidenziato dal S.C., gli elementi di disvalore del fatto, ormai accertati in via definitiva, appaiono comunque tali da risultare assolutamente prevalenti, tanto da escludere di per sé l’applicazione dell’art. 62 bis o comunque un esito diverso dalla subvalenza rispetto alle aggravanti di cui agli artt. 577 co. 1 n. 3e 61 n. 10 c.p.”[12].

 

4. La perplessità ben argomentate dalla Corte d’assise d’appello di Milano nei confronti del principio di diritto formulato dalla Cassazione ci paiono senz’altro da condividere. Se l’istruzione probatoria non ha consentito di accertare oltre ogni ragionevole dubbio il nesso causale tra condotta dell’imputato ed evento, il giudice deve assolvere; ma se al contrario il giudice ritiene sufficientemente provato il nesso eziologico, non si vede davvero per quale ragione la complessità e l’atipicità del decorso causale dovrebbe giustificare di per sé il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. La Cassazione, in effetti, non individua alcuna ragione per cui l’atipicità del decorso probatorio, pur non tale da compromettere l’accertamento causale, dovrebbe sfociare in una diminuzione di pena. Al più, come nota la stessa sentenza milanese, tale dato potrebbe risultare rilevante in un contesto colposo, come elemento idoneo a rendere più debole il coefficiente di prevedibilità dell’evento; ma in un contesto doloso, come quello oggetto della vicenda decisa, ove l’evento-morte era il precipuo scopo dell’agente al momento della condotta, l’attenuazione di pena non sarebbe giustificata da alcun affievolimento dell’elemento soggettivo[13].

L’unica logica che si intravvede dietro l’anomala regula iuris formulata dalla Cassazione è proprio quella del “poca prova, poca pena”, che abbiamo illustrato sopra. I giudici di legittimità – di fronte ad una ricostruzione del nesso eziologico che ritengono insoddisfacente, tanto da definire come visto sopra la motivazione sul punto delle sentenze di merito come “non immune da aporie logiche ed eccessi di semplificazione” – non se la sentono di trarre la logica conclusione della propria argomentazione (e quindi di assolvere, o almeno di annullare con rinvio la condanna chiedendo una più attenta valutazione delle risultanze istruttorie in punto di causalità), ma come avvertendo una qualche forma di disagio nel condannare si orientano verso il riconoscimento di un’attenuazione di pena fondata su quella medesima incertezza probatoria che, se davvero esistente, avrebbe dovuto incidere ben più radicalmente sull’an della condanna.

Il vero fondamento del principio affermato non ci pare altro, se ci è consentita l’espressione, che “il senso di colpa” del collegio nel confermare una sentenza di condanna che non si ritiene del tutto convincente; cioè proprio l’animus che il gergo forense intende stigmatizzare con il ricorso all’espressione del titolo. Se si ritiene raggiunta la prova della responsabilità penale dell’imputato, la pena deve essere corrispondente alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto; le circostanze attenuanti generiche non possono diventare per il giudice lo strumento con cui “lavarsi la coscienza” quando il dato probatorio non lo convince del tutto, ma per una serie di ragioni non ritiene di disporre il proscioglimento. Quale che sia la complessità del decorso causale, se l’atipicità dello stesso non è tale da impedire di accertare oltre ogni ragionevole dubbio che la condotta dell’imputato è condicio sine qua non dell’evento, non vi è alcuna motivazione razionale per applicare l’art. 62 bis c.p. in ragione di tale atipicità. Il principio affermato dalla Cassazione ha già trovato smentita nel giudizio di rinvio, e ci pare auspicabile non trovi ulteriore spazio nella giurisprudenza di legittimità.

 


[1] § 4.1 del “considerato in diritto”.

[2] § 4.3 del “considerato in diritto”.

[3] § 4.4 del “considerato in diritto”: la sentenza richiamata è Cass., sez. IV, 31.1.1995, n. 2650.

[4] Ibidem.

[5] § 4.5 del “considerato in diritto”.

[6] § 7.1.

[7] § 7.4: grassetti nella sentenza.

[8] § 7.5.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] § 7.6.

[13] “L’unico spazio di una qualche rilevanza, ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche, del dato indicato dalla Corte (incertezza probatoria sulla reale dinamica del nesso causale e possibile interferenza di fattori connotati da aspetti di atipicità, ma comunque non escludenti il nesso eziologico) potrebbe al più valere in rapporto all’elemento soggettivo. Trattasi tuttavia di un percorso ermeneutico che, se potrebbe forse avere una qualche (problematica) rilevanza rispetto alle ipotesi di responsabilità colposa, appare sicuramente improponibile rispetto alle ipotesi di responsabilità dolosa, tanto più nei casi in cui – come quello in esame – è ormai accertato in via definitiva un dolo intenzionale di omicidio (anche se alternativo), connotato addirittura dalla premeditazione”: § 7.5.