ISSN 2039-1676


04 ottobre 2018 |

Le Sezioni Unite sul tempus commissi delicti nei reati c.d. ad evento differito (con un obiter dictum sui reati permanenti e abituali)

Cass., Sez. un., 19 luglio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40986, Pres. Carcano, Est. Caputo

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1. Pubblichiamo la sentenza con la quale le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto la seguente questione di diritto: «se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta ovvero quella vigente al momento dell’evento».

 

2. Questa Rivista aveva già pubblicato l’ordinanza di rimessione, alla quale si rinvia per maggiori dettagli sul caso di specie e l’illustrazione del contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità. In estrema sintesi, il terreno di conflitto era rappresentato dalle situazioni in cui, nei reati d’evento, si registra un significativo iato temporale tra la realizzazione della condotta tipica e la verificazione dell’evento lesivo (si pensi alle malattie professionali lungolatenti; ai sinistri stradali seguiti dalla morte della vittima dopo diversi mesi di agonia; o ancora ai reati abituali d’evento, come gli atti persecutori), durante il quale interviene una disciplina sfavorevole, segnatamente una nuova incriminazione o l’inasprimento del trattamento sanzionatorio di un fatto già previsto come reato. Ebbene, a fronte di un primo orientamento che, in tali situazioni, riteneva applicabile la legge penale sfavorevole in vigore al momento dell’evento, fissando in corrispondenza di quest’ultimo il tempus commissi delicti, era emerso un orientamento di segno opposto, secondo il quale l’interpretazione dell’art. 2 c.p. in conformità al principio di irretroattività sfavorevole imponeva di fissare il tempus commissi delicti al momento della condotta, ancorché precedente a quello della consumazione.

 

3. Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite avallano il secondo orientamento, pervenendo dunque all’affermazione del seguente principio: «in tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta». Sulla scorta di tale principio, la Cassazione annulla la sentenza di condanna che, in un caso di incidente stradale da cui era derivata la morte di un pedone a distanza di alcuni mesi dall’investimento, aveva applicato all’automobilista, in luogo dell’omicidio colposo aggravato dalla violazione della disciplina del codice della strada (disciplina vigente al momento del sinistro), la più severa norma incriminatrice dell’omicidio stradale (art. 589-bis), entrata in vigore medio tempore, prima della verificazione dell’evento lesivo.

 

4. In via preliminare, il collegio respinge la richiesta avanzata dal Procuratore generale di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 4, c.p., nella parte in cui fa riferimento alla commissione del “reato”, e non del “fatto”, anche con riguardo all’illecito penale d’evento. Tanto sul presupposto – opinava il P.G. – secondo cui l’espressione “reato” non consentirebbe la scissione dei suoi elementi costitutivi (condotta - nesso causale - evento naturalistico) e di riflesso costringerebbe l’interprete ad applicare la legge in vigore al momento dell’evento, anche laddove più sfavorevole, in contrasto con il principio di irretroattività sancito dall’art. 25 co. 2 Cost.

I giudici di legittimità ritengono, al contrario, che l’art. 2 c.p. possa essere interpretato in maniera conforme all’art. 25 co. 2 Cost. anche senza fuoriuscire dal limite esterno al quale l’interprete è necessariamente vincolato, ossia la cornice letterale del testo. Anzitutto, osserva la Corte, le scelte terminologiche operate dal legislatore nell’art. 2 c.p. si spiegano considerando che l’espressione “fatto” è utilizzata per indicare fattispecie non penalmente sanzionate (co. 1) o non più penalmente sanzionate (co. 2); mentre l’espressione “reato” è correttamente adoperata per indicare fattispecie penalmente rilevanti in successione normativa (co. 4). In secondo luogo, la previsione di cui all’art. 2 co. 4 deve essere interpretata tenendo in considerazione il consolidato orientamento dottrinale secondo cui «l’individuazione del tempus commissi delicti non possa essere delineata in termini generalizzanti, ma vada riferita ai singoli istituti e ricostruita sulla base della ratio di ciascuno di essi e dei principi – prima di tutto costituzionali – che li governano» (p. 17).

Sulla scorta di tali argomenti, la pronuncia conclude che «il riferimento letterale alla commissione del “reato” non è di ostacolo all’individuazione della condotta dell’agente quale punto di riferimento cronologico della successione di leggi: la mancanza, nel codice penale, di una nozione onnicomprensiva del tempus commissi delicti e la valenza dei richiami al “fatto” e al “reato” nell’art. 2 cod. pen. convergono nell’individuazione di un’area semantica dell’espressione “reato commesso” nella quale è riconducibile, in via interpretativa, il criterio della condotta, senza fuoriuscire dall’ambito dei significati autorizzati dal testo legislativo, ossia dal quarto comma dello stesso art. 2» (p. 18).

 

5. Tanto premesso, la Corte volge l’attenzione ai due argomenti che militano conclusivamente a sostegno dell’adozione del “criterio della condotta” ai fini della determinazione del tempus commissi delicti nei reati ad evento c.d. differito.

Il primo è dettato dalla ratio di garanzia del principio di irretroattività sfavorevole, che la Corte ricorda sostanziarsi, secondo il consolidato insegnamento della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo, in «un’istanza di preventiva valutabilità da parte dell’individuo delle conseguenze penali della propria condotta, istanza, a sua volta, funzionale a preservare la libera autodeterminazione della persona». È infatti necessariamente la condotta «il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la “calcolabilità” delle conseguenze penali e, con essa, l’autodeterminazione della persona» (p. 19). Al contrario, riferire l’operatività del principio di irretroattività al momento dell’evento comporta l’applicazione retroattiva del jus superveniens sfavorevole intervenuto dopo l’esaurimento della condotta, «con l’inevitabile svuotamento dell’effettività della garanzia di autodeterminazione della persona e della ratio di tutela del principio costituzionale di irretroattività» (p. 19).

La  collocazione del tempus commissi delicti al momento della condotta può essere inoltre ancorata alle funzioni della pena, segnatamente quella general-preventiva (che evidente può esplicarsi soltanto nel momento in cui il soggetto agisce o omette di compiere l’azione doverosa) e quella rieducativa (la cui centralità nella definizione del volto costituzionale del sistema penale – ricorda ancora il collegio – è stata di recente efficacemente rimarcata nella sentenza della Corte Costituzionale n. 148 del 2018).

 

6. La pronuncia in esame coglie infine l’occasione per chiarire, sempre «alla luce delle ragioni poste a fondamento dell’adesione al criterio della condotta», come debba essere individuato il tempus commissi delicti rispetto ad altre figure di reato caratterizzate da una peculiare proiezione dell’iter criminis nel tempo.

Con riferimento, anzitutto, al reato permanente, la Corte ribadisce che occorre avere riguardo alla «cessazione della permanenza». Ciò in quanto «il protrarsi della condotta sotto la vigenza della nuova, più sfavorevole, legge penale, assicura la calcolabilità delle conseguenze della condotta stessa»; sempreché, precisa la Corte, «sotto la vigenza della legge più severa si siano realizzati tutti gli elementi del fatto-reato (e quindi, per il sequestro di persona, ad esempio, un’apprezzabile durata della limitazione della libertà personale della vittima)» (p. 23).

Quanto al reato abituale, in linea di principio occorre avere riguardo alla «realizzazione dell’ultima condotta tipica integrante il fatto di reato». Tuttavia – prosegue la Corte facendo in particolare riferimento al discusso problema dell’applicazione del reato di atti persecutori ai fatti parzialmente commessi prima della sua entrata in vigore – in caso di nuova incriminazione l’applicabilità del jus superveniens sfavorevole «presuppone la realizzazione, dopo l’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. (e non solo, ad esempio, dell’ultima condotta persecutoria […])» (p. 24).

 

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7. La soluzione adottata dalla Suprema Corte è in linea con quanto avevamo sostenuto – alla luce di insegnamenti impartiti dalla più autorevole dottrina penalistica – in sede di commento dell’ordinanza di rimessione, ed ancora prima in sede di analisi critica di una delle sentenze che aderivano al criterio dell’evento. Invero, l’equivoco nel quale erano incorse queste ultime consisteva nell’avere acriticamente fissato il tempus commissi delicti in corrispondenza della consumazione del reato, senza tuttavia tenere in considerazione le specifiche finalità della disciplina sulla successione di leggi penali nel tempo; finalità che le Sezioni Unite riportano oggi limpidamente alla luce, ancorando il “criterio della condotta”, come visto, agli art. 25 co. 2 e 27 co. 1 e 3 della Costituzione, oltre che all’art. 7 Cedu., in corrispondenza di quel crocevia tra legalità, colpevolezza e finalità rieducativa della pena che si compendia nella formula della calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali delle proprie condotte.

La pronuncia, inoltre, mette finalmente nero su bianco il carattere non unitario della nozione di tempo del commesso reato, sottolineando come si tratti di un concetto da modulare a seconda della funzione che l’istituto al quale va ad applicarsi è chiamato a svolgere, e dunque da interpretare sulla scorta degli stessi principi che governano il funzionamento degli istituti di volta in volta rilevanti. Se dunque, ad esempio, ai fini della prescrizione del reato è del tutto ragionevole la previsione di cui all’art. 158 co. 1 c.p., che fa coincidere il tempus commissi delicti con il momento consumativo del reato (è infatti a partire da quest’ultimo momento che vengono in rilievo quelle  valutazioni attinenti al tempo dell’oblio ed alle crescenti difficoltà probatorie sulle quali si fonda l’istituto della prescrizione); viceversa, come appena visto, l’applicazione della stessa logica alla disciplina della successioni di norme penali finirebbe per svuotare di significato la ratio garantistica del principio di irretroattività sfavorevole.

 

8. Meno persuasiva, o comunque a prima vista troppo succinta, è la parte conclusiva della motivazione, che come sopra illustrato racchiude l’obiter dictum relativo all’individuazione del tempus commissi delicti nei reati “di durata”, segnatamente quelli permanenti ed abituali. La Corte, come si ricorderà, individua tale momento, rispettivamente, in corrispondenza della cessazione della condotta permanente e della realizzazione dell’ultima condotta abituale; precisando peraltro che l’applicabilità del jus superveniens sfavorevole è subordinata alla circostanza che, dopo la modifica normativa in peius, siano stati comunque realizzati tutti gli elementi costitutivi del reato. La Corte tuttavia non affronta espressamente la questione se, nei reati di durata, la norma sfavorevole – sia essa una nuova incriminazione o un più severo trattamento sanzionatorio – debba essere applicata solo alle condotte realizzate dopo la sua entrata in vigore, oppure anche a quelle pregresse. In altre parole, dalla motivazione non si evince se, ai fini dell’applicazione della norma sfavorevole, il reato debba essere considerato unitariamente (includendovi, cioè, anche le condotte poste in essere prima del novum legislativo in peius), oppure debba essere scisso in due parti (prima e dopo la modifica peggiorativa), ciascuna assoggettata alla normativa coeva. Poniamo, ad esempio, che una serie di minacce e molestie contro un famigliare siano poste in essere durante un arco temporale nel mezzo del quale il trattamento sanzionatorio del reato di cui all’art. 572 c.p. viene inasprito; e poniamo che tanto le condotte compiute nel periodo antecedente alla modifica (T1), quanto quelle compiute nel periodo successivo (T2), siano autonomamente in grado di integrare il fatto tipico. È evidente che le condotte realizzate in T2 saranno assoggettate al trattamento più severo; quid iuris, tuttavia, rispetto alle condotte realizzate in T1?

Adottando una lettura per così dire restrittiva della regola enunciata dalla Corte, il giudice dovrà commisurare la pena tenendo conto di due cornici edittali diverse: quella più favorevole, per le condotte realizzate in T1; quella più sfavorevole, per le condotte realizzate in T2. Questa lettura, che a prima vista è l’unica compatibile con l’applicazione rigorosa del principio di irretroattività sfavorevole, finisce tuttavia per svuotare di significato la regola in esame: ai fini della determinazione del tempus commissi delicti nei reati permanenti e abituali, infatti, l’interprete non dovrà tenere conto, rispettivamente, della cessazione della condotta o della realizzazione dell’ultima condotta, bensì dovrà considerare l’entrata in vigore della norma sfavorevole alla stregua di uno spartiacque, applicando la norma sfavorevole soltanto alle fattispecie compiutamente realizzate dopo la sua entrata in vigore.

La regola enunciata dalla Corte si presta peraltro anche ad una lettura estensiva, in base alla quale, se nel vigore della norma sfavorevole sono stati compiutamente realizzati tutti gli elementi del reato, allora l’intero fatto (compresa la sua porzione realizzata prima della riforma in peius) ricadrà nel suo ambito di applicazione. A sostegno di questa soluzione si potrebbe in effetti fare leva, da un lato, sulla natura unitaria del reato permanente e di quello abituale; dall’altro lato, sulla prevedibilità delle (più gravi) conseguenze penali alle quali l’agente andrà incontro in caso di prosecuzione della condotta permanente, o di reiterazione della condotta abituale, una volta entrata in vigore la norma sfavorevole[1].

Sul fronte opposto, tuttavia, si potrebbe ritenere comunque incompatibile con il principio di irretroattività una soluzione che, in ultima analisi, finisce per sanzionare condotte (quelle realizzate in T1) che erano lecite quando sono state realizzate, o che erano punite con una sanzione più lieve[2].

Non è certamente questa la sede per affrontare e sciogliere il nodo in questione; il quale peraltro, come già osservato, viene in rilievo nel quadro di un mero obiter dictum della pronuncia qui in esame. È evidente tuttavia come tale nodo sia suscettibile di generare nuovi contrasti interpretativi sulla determinazione del tempus commissi delicti, questa volta relativamente alla disciplina della successione di norme penali in relazione ai reati c.d. di durata.

 

 


[1] Si è al riguardo osservato che «la nuova norma penale, intervenuta mentre la condotta è in svolgimento, può funzionare come imperativo, e il soggetto agente è in grado di tenerne conto» (Pulitanò D., Diritto penale, VII ed., 2017, 569). Quanto alla conoscibilità della nuova legge, e quindi alla possibilità di adeguarvisi, lo stesso autore afferma che «la normale vacatio legis (la legge entra in vigore dopo quindici giorni dalla pubblicazione) può ritenersi una sufficiente salvaguardia di questa esigenza» (570). Sostanzialmente nello stesso senso, Marinucci G., Dolcini E., Gatta G.L., Manuale di diritto penale. Parte generale, VII ed., Giuffrè, 2018, 145-146; Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, X ed., Wolters Kluwer – CEDAM, 2017, 94.

[2] Per l’opinione contraria a fissare il tempus commissi delicti in corrispondenza della cessazione della condotta nel reato permanente, o del compimento dell’ultima condotta nel reato abituale, cfr. Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte Generale, VI ed., 2009, 106; Romano M., Art. 2 c.p., in Commentario sistematico del codice penale, vol. I, III ed., Giuffrè, 2004, p. 53-54, quest’ultimo anche per ulteriori riferimenti dottrinali.