ISSN 2039-1676


08 ottobre 2018 |

F. Mazzacuva, Le pene nascoste, Giappichelli, Torino, 2017 e L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Giappichelli, Torino, 2018

Recensione

1. Tanto il diritto costituzionale nazionale di ogni paese quanto il diritto internazionale dei diritti umani dettano una serie di garanzie applicabili al diritto e al processo penale: dal nullum crimen, nulla poena sine lege con i suoi numerosi corollari, ai principi del “giusto processo” in materia penale, passando per altre tutele importanti come la proporzionalità e la necessaria funzione rieducativa della pena, il diritto al doppio grado di giurisdizione, il diritto al risarcimento da errore giudiziario, il ne bis in idem, etc.

Un problema ben noto da più di quarant’anni alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma che solo recentemente si è trasformato in un tema all’ordine del giorno nella dottrina italiana, concerne però l’eventuale applicabilità di questi principi non solo a ciò che l’ordinamento qualifica espressamente – e formalmente – come “reato”, “pena” o “processo penale”; ma anche a illeciti, sanzioni o procedimenti di natura diversa – e gestiti da organi diversi dalla giurisdizione penale –, rispetto ai quali tuttavia si pongano le stesse esigenze di garanzia che abitualmente sono reclamate nell’ambito del diritto e del processo penale in senso formale. 

Il problema, dicevo, è ben noto alla giurisprudenza di Strasburgo, che ha elaborato una propria autonoma nozione di “materia penale”, al fine dichiarato di evitare che gli ordinamenti degli Stati parte della Convenzione possano sottrarsi al rispetto delle garanzie convenzionali in materia di diritto e processo penale attraverso la semplice classificazione di un illecito, di una sanzione o di un procedimento come “amministrativo”, “civile” o “disciplinare”, nonostante la loro comparabile carica afflittiva sui diritti fondamentali rispetto a quella derivante dai reati, dalle pene e dai processi penali. 

Tuttavia, la rilevanza pratica della questione sta negli ultimi anni letteralmente esplodendo, a fronte della tendenza sempre più evidente degli ordinamenti ad impostare la lotta contro sempre più numerose forme di criminalità, avvertite come particolarmente pericolose, attraverso strumenti non penali. Tali strumenti sono in effetti funzionali all’adozione di misure anche drasticamente incidenti sui diritti fondamentali dei loro destinatari, che si svolgono però nell’ambito di procedimenti gestiti da autorità diverse da quelle cui è tradizionalmente affidato il law enforcementpenalistico, e che comunque non richiedono l’attivazione del processo penale, con tutto il suo bagaglio di garanzie per l’imputato. La parola d’ordine parrebbe, oggi, “fighting crime without criminal law”: una strategia apparentemente assai efficace per lasciare al potere esecutivo le mani assai più libere di quanto non accada normalmente con i tradizionali strumenti dell’arsenale penalistico.

L’elenco di simili misure, che si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo, è agevole da compilare: misure “amministrative” di carattere (dichiaratamente) preventivo, che limitano fortemente la libertà personale delle persone sospettate di aver commesso reati, o che si ritenga possano commettere reati in futuro; sequestro e confisca “civile” o “preventiva” (come si preferisce chiamarla in Italia) di beni di sospetta origine delittuosa, e dei quali il proprietario non possa spiegare l’origine lecita; sanzioni pecuniarie di importo elevatissimo irrogate da autorità indipendenti per illeciti amministrativi che costituiscono al tempo stesso reati (e che a volte determinano, altresì, la parallela inflizione di una pena nei confronti della stessa persona fisica o giuridica); misure interdittive applicate da autorità amministrative o, ancora, da autorità indipendenti sulla base di sospetti relativi al coinvolgimento in attività criminose da parte della persona o dell’ente che ne è colpito; espulsioni dello straniero disposte dall’autorità amministrativa sulla base, ancora una volta, di un’evidenza relativa ad attività criminosa dello straniero medesimo, senza che nei suoi confronti sia formulata alcuna formale accusa penale. Sino a giungere alla recentissima legge bavarese, entrata in vigore nel luglio di quest’anno, che consente una detenzione amministrativa di carattere preventivo, rinnovabile di tre mesi in tre mesi senza limiti temporali massimi, di soggetti che l’autorità di polizia ritengano portatrici di un pericolo di commissione di gravi reati contro la persona o l’ordine pubblico.

Di fronte a simili trends internazionali, particolarmente importante e urgente diviene la domanda se – ed eventualmente a quali condizioni, entro quali limiti e con quali effetti – le garanzie costituzionali e quelle parallele derivanti dal diritto internazionali dei diritti umani debbano estendersi anche a misure come quelle appena esemplificate, a tutela dei diritti fondamentali dei soggetti che ne siano potenziali o attuali destinatari.

 

2. Due recenti e pregevoli volumi, a firma rispettivamente di Francesco Mazzacuva e Luca Masera, affrontano questa delicata tematica sotto differenti angolature, entrambi attraverso analisi di carattere fortemente interdisciplinare, che risultano per molti versi complementari l’una rispetto all’altra e, comunque, di grande interesse teorico e prasseologico.

 

3. La monografia di Francesco Mazzacuva si incentra per l’appunto sulla nozione di “materia penale”, che condiziona l’operatività di determinate garanzie individuali di natura costituzionale e/o convenzionali; garanzie che l’autore intende tutte “intimamente collegate all’idea di colpevolezza” (p. 3). 

Fin dalle prima battute si comprende, dunque, che nella prospettiva di Mazzacuva il principio di colpevolezza rappresenta una sorta di fil rouge che unifica le garanzie vigenti in tutte le ipotesi in cui l’ordinamento predisponga sanzioni di carattere punitivo nei confronti dell’individuo. Principium individuationis di tali sanzioni non sarebbe, d’altra parte, la loro attuale o potenziale incidenza sulla libertà personale, bensì il loro mero carattere limitativo di diritti della persona in conseguenza della violazione di un obbligo, e sempre che la limitazione in parola non risponda a una logica preventiva o riparativo-compensativa (p. 51-52). Il concetto di “pena” destinato ad attrarre le garanzie sancite dalla Costituzione e dalla Convenzione europea finisce così, secondo Mazzacuva, per coincidere con quello ampio di sanzione, da tale concetto restando escluse soltanto – per l’appunto – le misure limitative dei diritti aventi finalità meramente preventiva (e non già reattiva rispetto a un illecito già commesso), ovvero di carattere meramente ripristinatorio.

D’altra parte – ed ecco il secondo fil rouge dell’analisi – l’unitarietà della materia penale, assunta come concetto derivato da quello di “sanzione”, non escluderebbe la possibilità di declinare in modo differenziato – o “a geometria variabile” – le singole garanzie costituzionali e convenzionali in relazione alle distinte tipologie di sanzioni, ben potendosi immaginare una tutela più flessibile di talune di esse rispetto a illeciti e sanzioni non considerati dall’ordinamento come “penali” in senso stretto, e che a differenza di questi ultimi non sono necessariamente associati allo stigma che connota una pena privativa della libertà personale.

Il discorso si cala quindi all’interno del variegato mondo dell’illecito e delle sanzioni “para-penali”, rappresentati in particolare dagli illeciti amministrativi. Un mondo che Mazzacuva analizza anzitutto dalla prospettiva del diritto comparato, con un occhio attento ai sistemi tedesco e inglese, nonché alla ormai copiosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della stessa Corte costituzionale italiana; per poi trarre da questo viaggio una serie di conseguenze di non poco momento rispetto all’ordinamento italiano, non sempre rispettoso – a suo giudizio – del principio di personalità della sanzione di cui all’art. 27 co. 1 Cost. (in relazione, ad es., ai meccanismi di solidarietà sanzionatoria previsti dalla legge n. 689 del 1981, dal diritto tributario e dal diritto degli intermediari finanziari), nonché in materia di “equo processo” e di presunzione di innocenza, ove l’autore giunge ad auspicare l’attrazione alla giurisdizione penale dei procedimenti di opposizioni alla sanzione amministrativa (p. 131). 

Il terzo capitolo del volume è poi dedicato al tema oggi cruciale dello statuto garantistico delle misure afflittive situate “al crocevia tra punizione e riparazione”. La distinzione teorica tra queste tipologie di misure, osserva giustamente Mazzacuva, è solo apparentemente chiara, giacché da un lato misure tradizionalmente considerate come meramente riparatorie come il risarcimento del danno appaiono sempre più caricarsi, in Italia e altrove, di connotazioni punitive; e, dall’altro, il controllo della criminalità viene sempre più spesso affidato a misure aventi (almeno dichiaratamente) funzione riparatoria-compensativa. Se dunque è indubitabile che le misure (autenticamente) riparatorie non rientrano nella materia penale, e non sono – dunque – necessariamente soggette al principio di colpevolezza, il problema diviene quello di valutare caso per caso se ogni singola misura abbia in effetti, dietro una maschera ‘compensatoria’, connotati reali di natura punitiva, tali da chiamare in causa necessariamente lo statuto costituzionale e convenzionale della materia penale.

Numerose sono le misure passate in rassegna in quest’ottica dall’autore, a cominciare dalle “pene private” rappresentate dal risarcimento del danno morale, sino a giungere al danno d’immagine alla pubblica amministrazione, ai c.d. punitive damages oggetto di una recente e assai nota pronuncia delle Sezioni Unite civili, nonché alle nuove sanzioni civili introdotte in seguito all’ultimo intervento di depenalizzazione e al danno erariale azionato dalla Corte dei conti nei confronti del pubblico dipendente.

Ma la parte a mio giudizio più intrigante dell’analisi concerne la confisca, o – meglio – le variegate forme di confisca introdotte nel nostro ordinamento, concepite come misure di neutralizzazione dei profitti illecitamente derivanti da reato. Confortato dalla dottrina pressoché unanime, Mazzacuva nega che le confische presenti nell’ordinamento italiano – compresa la c.d. confisca di prevenzione prevista dal codice antimafia – abbiano autentica natura preventiva, e discute piuttosto se ad esse possa davvero essere assegnata una natura meramente riparativo-compensatoria, con conseguente sottrazione delle stesse al paradigma garantistico della responsabilità penale. Io stesso ho sostenuto in un recentissimo contributo, appena successivo alla pubblicazione del lavoro di Mazzacuva, la tesi secondo cui è ben possibile attribuire a una confisca non conviction based dei proventi da reato (come la confisca c.d. antimafia) una natura non punitiva, e basata piuttosto sull’idea che l’ordinamento non è tenuto a riconoscere il rapporto con la cosa derivante dalla commissione di un reato[1]; prospettiva sulla quale altro giovane studioso ha ancora più recentemente costruito un’indagine monografica, che attinge largamente da indicazioni provenienti dalla comparazione con l’ordinamento federale statunitense, e dalle ormai numerose (e recenti) pronunce delle Corte della Corte Suprema in argomento[2]. Francesco Mazzacuva, pur nella consapevolezza della problematicità e complessità della questione aderisce invece alla tesi oggi prevalente presso la dottrina italiana, rilevando come le forme attuali di confisca, compresa quella espressamente qualificata in termini preventivi prevista dal codice antimafia, abbiano tutte una “vocazione naturale ad assolvere funzioni diverse ed ulteriori rispetto alla ricomposizione delle conseguenze economiche dell’illecito” (p. 198), e sottolineando come la concreta entità dei beni confiscati finisca in genere – anche per effetto, aggiungerei io, di discutibili opzioni ricostruttive da parte della giurisprudenza sulla determinazione del quantum confiscabile – per eccedere il profitto effettivamente ricavato dalla commissione del reato da parte del reo. Ovvie (e deflagranti rispetto alla situazione attuale) le conseguenze che dovrebbero essere tratte da questa affermazione: le garanzie dell’irretroattività e, soprattutto, della presunzione di innocenza dovrebbero essere senz’altro estese all’intera materia delle confische, con conseguente travolgimento dell’attuale assetto normativo.

Un’ampia e acuta analisi è poi dedicata al principio di legalità e alle sue concrete declinazioni rispetto all’intera gamma delle sanzioni riconducibili alla ampia nozione di materia penale con cui l’autore lavora; e un’ultima densa ricognizione concerne il diritto al ne bis in idem, oggetto di un recente intenso dibattito che ha visto protagoniste le nostre corti nazionali e quelle europee. In entrambi i casi l’autore trova conferma della necessità di un approccio “a geometria variabile” alle tematiche della materia penale, di talché – ferma restando la necessità del rispetto del principio di colpevolezza – ben potrebbero ammettersi forme di flessibilizzazione di corollari come la riserva di legge parlamentare o lo stesso diritto a non essere sottoposto a due distinti procedimenti sanzionatori per lo stesso illecito laddove sia in gioco un illecito o una sanzione non appartenenti all’hard core del diritto penale, caratterizzato dall’uso della sanzione privativa della libertà personale; mentre dovrebbero tendenzialmente estendersi all’intera area delle misure punitive principi come la sufficiente determinatezza del precetto (anche nel settore delle sanzioni disciplinari, troppo spesso connotate dall’uso di clausole generali e di sapore eticizzante nella descrizione degli illeciti), ovvero la necessaria retroattività della lex mitior, che invece la più recente giurisprudenza della Corte costituzionale ha rifiutato di estendere alle sanzioni amministrative.

In definitiva, quello di Mazzacuva è un lavoro prezioso: ricco di chiaroscuri più che di tranquillizzanti certezze, che – sulla scorta di una bibliografia davvero imponente, che spazia dalla penalistica italiana ed europea a molti altri settori del sapere giuridico – riflette in definitiva la complessità di una materia ancora per molti versi fluida e in via di formazione, offrendo un’enorme quantità di spunti di riflessione tanto per lo studioso quanto per il giudice, comune e costituzionale.

 

4. In parte diverso è il taglio del volume di Luca Masera, la cui research question è dichiaratamente incentrata sulla prospettiva costituzionale nazionale: in che misura possono e debbono i principi che la nostra Costituzione dedica alla materia penale estendersi a misure e a procedimenti formalmente non qualificati come tali?

Il focus dell’analisi è dunque più puntuale di quello di Mazzacuva: essenziale è infatti, secondo Masera, distinguere concettualmente la prospettiva costituzionale da quella convenzionale, posto che la prima gode, nel nostro ordinamento, di una priorità valoriale, che dovrebbe necessariamente indurre la Corte costituzionale a vagliare anzitutto la conformità della misura o del procedimento in questione alla carta nazionale, prima di esaminarne – sotto l’angolo visuale dell’art. 117 co. 1 Cost. – la compatibilità con il diritto internazionale dei diritti umani e con la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il lavoro si apre con un accurato esame della giurisprudenza costituzionale sul tema: una giurisprudenza ancora ai primi passi, ancorché – come ben sottolinea Masera – le prime pronunce di rilievo risalgano addirittura ai primi anni Sessanta, quando la Consulta dovette pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di alcune speciali ipotesi di confisca amministrativa a carico di soggetti coinvolti nel regime fascista. L’autore pone in evidenza come, dopo un lungo periodo in cui la Corte era parsa limitare – con qualche marginale eccezione – l’applicabilità dei principi costituzionalistici dettati per la materia penale a tutto ciò che espressamente l’ordinamento qualifica come “penale”, da una decina d’anni la Consulta tenda invece ad adottare, quanto meno con riferimento all’art. 25 co. 2 Cost., un orientamento di carattere “sostanziale”, volto ad estendere l’ambito della garanzia anche a misure non formalmente qualificate come penali, sia pure sulla base di argomentazioni soltanto abbozzate e per lo più debitrici della parallela evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo; mentre un atteggiamento di chiusura a possibili estensioni si registra tuttora in relazione ai principi posti dall’art. 27 co. 1 e 3 Cost. (in particolare, personalità della pena e sua funzione rieducativa).

Proprio la constatazione del deficit argomentativo che caratterizza l’attuale giurisprudenza costituzionale italiana induce l’autore a intraprendere un viaggio attraverso l’abbondante case law della Corte europea dei diritti dell’uomo: un viaggio condotto con rara acribia, che non si limita – come di solito accade nelle trattazioni sul tema – alla enunciazione dei criteri di volta in volta utilizzati dalla Corte nella proprio più che quarantennale traiettoria da Engel sino ai giorni nostri, ma che analizza pazientemente la logica dei casi concreti di volta in volta affrontati dalla Corte e il gioco delle opinioni concorrenti e dissenzienti. L’autore si sofferma in particolare sull’ancora poco nota sentenza della Grande Camera Jussila c. Finlandia, in cui la Corte abbozza per la prima volta l’idea di un duplice livello di garanzie penalistiche: l’una riservata al “nucleo duro” del diritto penale, l’altra a tutto ciò che deve essere considerato come “penale” ai fini delle garanzie convenzionali, ma che sta fuori da tale nucleo duro, e che tollera pertanto un certo grado di flessibilizzazione di quelle stesse garanzie. 

Di grande interesse risulta a questo punto la distesa analisi della criteriologia della Corte di Strasburgo: un’analisi che certo meriterebbe, per la sua acutezza, di essere trasfusa al più presto in un lavoro in lingua inglese, da sottoporre all’attenzione della comunità scientifica internazionale, anche allo scopo di sollecitare una complessiva risistemazione della materia – afflitta tra troppe incoerenze interne e da passaggi cruciali non chiariti – da parte della stessa giurisprudenza europea.

Lo sguardo dell’autore si sposta quindi sul diritto costituzionale comparato, e in particolare sulla giurisprudenza tedesca, statunitense e spagnola. Da tale esame emerge anzitutto che tanto le corti costituzionali di Karlsruhe e di Madrid, quanto la Corte Suprema USA, adottano nozioni sostanziali di materia penale, non vincolate alla definizione legislativa di ciò che è reato, pena o processo penale. Diversa è peraltro la concreta estensione di tali nozioni; non omogenei sono i criteri identificativi elaborati da quelle giurisprudenze; e non omogenea è talvolta – all’interno di un medesimo ordinamento – l’area assegnata alle singole garanzie espressamente previste dalla Costituzione per la materia penale. Il tutto, peraltro, rispetto a contesti ancora in larga parte in evoluzione, anche tali ordinamenti risultando fortemente interessati dai trends politico-criminali di espansione delle misure non penali per il controllo del crimine dai quali ho preso le mosse in queste brevi riflessioni.

L’autore torna quindi all’ordinamento italiano, soffermandosi sulla dottrina che – con andamento carsico lungo l’intero arco del Novecento – ha affrontato il tema della definizione di ciò che è “penale”: in epoca meno recente, con l’intento di individuare con precisione l’area degli illeciti ovvero di fissare direttive di natura politico-criminale per il legislatore nella definizione dell’area dei reati e delle pene; e, più recentemente, nella prospettiva – suggerita in larga parte dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – di definire l’ambito delle garanzie costituzionali e convenzionali, al di là delle scelte qualificatorie del legislatore.

Il viaggio sfocia così in un’operazione che l’autore stesso definisce di “decostruzione e ricostruzione in chiave garantistica della nozione di materia penale”. Anzitutto, Masera identifica tre nozioni di materia penale, che devono essere tenute analiticamente ben distinte (ciò che spesso non accade nella riflessione dottrinale): una nozione che l’autore definisce “intra-sistematica”, funzionale alla individuazione della disciplina applicabile a un determinato illecito; una nozione “sostanziale”, intesa quale criterio politico-criminale che dovrebbe guidare le scelte del legislatore in relazione alle decisioni di incriminazione; e una nozione – qui oggetto specifico dell’analisi – “sovralegale”, funzionale all’individuazione dello statuto costituzionale e convenzionale (e più in generale, risultante dal diritto internazionale dei diritti umani) applicabile a un’area di illeciti aventi in senso lato natura punitiva, ancorché non necessariamente qualificati come “penali” dal legislatore. 

Così definito l’oggetto dell’indagine, l’autore procede ad analizzare – all’interno della nozione “sovralegale” – la possibile fisionomia di una nozione “costituzionale” di materia penale, tenendo come saldo punto di riferimento, per l’appunto, la Costituzione italiana. In quest’ottica, vengono proposte all’attenzione del lettore (pp. 236 ss.) una serie di tesi, tra le quali spicca l’idea secondo cui una la nozione in parola dovrebbe essere distillata in realtà in più nozioni distinte, ciascuna modellata sulla logica della singola garanzia costituzionale che di volta in volta viene in considerazione, sia pure in tenendo conto di taluni criteri comuni – solo in parte coincidenti con quelli elaborati dalla Corte di Strasburgo –, quali la natura punitiva della misura (desumibile dalla sua “derivazione eziologica da un fatto illecito” e dal suo “contenuto disomogeneo rispetto al danno arrecato”) e la sua gravità. L’esistenza di più nozioni distinte di materia penale per ciascuna garanzia costituzionale si combina d’altra parte, secondo Masera, con la possibilità di declinare il contenuto di ciascuna nozione in modo più stringente in relazione al nucleo duro del sistema penale (rappresentato dagli illeciti sanzionati con pene privative della libertà personale), rispetto a quanto non debba accadere in relazione alla generalità degli altri illeciti. 

Il lavoro si conclude con una sintetica rassegna delle singole garanzie che la nostra Costituzione dedica alla materia penale, rispetto alle quali l’autore saggia la capacità di rendimento della propria impostazione, fornendo sempre perspicue indicazioni per la futura ulteriore riflessione teorica e applicazione giurisprudenziale.  

Anche quello di Masera, insomma, è un libro da leggere e meditare: un libro che, con ammirevole chiarezza e ordine concettuale, affronta di petto i problemi ‘difficili’, e che – senza digressioni di rilievo meramente accademico – formula tesi originali e chiaramente stagliate, sulla scorta di una scrupolosa documentazione su tutto ciò che di essenziale è stato scritto e deciso, in Italia e in vari sistemi a noi vicini, su di una tematica di sempre maggiore attualità. Un libro, dunque, che si conquisterà certamente, assieme a quello parallelo di Francesco Mazzacuva, attenta considerazione anche al di là dei nostri confini nazionali.

 


[1] F. Viganò, Riflessioni sullo statuto costituzionale e confenzionale della confisca “di prevenzione” nell’ordinamento italiano, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora. Fra attualità e tradizione. Scritti in onore di Emilio Dolcini, 2018, p. 885 ss. nonché in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 610 ss.

[2] S. Finocchiaro, La confisca “civile” dei proventi di reato, in Criminal Justice Network, 2018.