ISSN 2039-1676


06 novembre 2018 |

Le Sezioni unite sulla procedibilità a querela sopravvenuta in pendenza del giudizio di cassazione

Cass., Sez. un., sent. 21 giugno 2018 (dep. 7 settembre 2018), n. 40150, Pres. Carcano, Est. Vessichelli, ric. Salatino

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1. Le Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 40150 del 2018, hanno stabilito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione implica che non debba darsi alla persona offesa l'avviso previsto dall'art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 36 del 2018, al fine di consentire l’eventuale esercizio del diritto di querela, ed inoltre che, ove occorra invece sospendere temporaneamente il procedimento, per accertare l’interesse della persona offesa alla prosecuzione dell’azione penale, il termine di prescrizione non resta sospeso.

La Corte ha osservato che, ove un intervento legislativo stabilisca la procedibilità a querela per reati originariamente perseguibili d’ufficio, assegnando – come nel caso in esame – un termine alla persona offesa per esercitare la querela, non occorre verificare se vi sia interesse di quest’ultima alla prosecuzione dell’azione penale, nel caso in cui il ricorso per cassazione sia inammissibile: l’inammissibilità, difatti, preclude l’instaurazione del rapporto giuridico processuale nel quale la Corte dovrebbe poi verificare, in concreto, l’eventuale causa di non procedibilità ove la persona offesa, pure ritualmente avvisata, non esercitasse il diritto di querela.

Al contrario, ove il ricorso per cassazione non sia inammissibile, e dunque debba procedersi all’avviso in favore della p.o., il termine di prescrizione non deve intendersi sospeso durante tali adempimenti, poiché la legge non lo prevede, e poiché avvisi ed interlocuzioni con le parti rientrano nella ordinaria dinamica processuale, e non possono recare pregiudizio alla condizione dell’imputato.

 

2. Il tema oggetto della sentenza che qui segnaliamo è il rapporto tra l’inammissibilità del ricorso per cassazione e le cause di non procedibilità (consolidate o – come le ha definite la Corte, in questo caso – “potenziali”), le cause di non punibilità e le cause di estinzione del reato.

Il ricorso era stato segnalato dal Coordinatore dell’Ufficio per l’esame preliminare dei ricorsi penali al Primo Presidente, per una eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, in ordine alla questione giuridica di particolare rilevanza posta dall’entrata in vigore del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità, che ha stabilito la procedibilità a querela per alcuni reati originariamente perseguibili d’ufficio, tra cui quello contestato al ricorrente.

La sentenza coglie l’occasione per ripercorrere le più rilevanti decisioni della Cassazione, in modo da «costruire una nuova dogmatica» del rapporto tra ricorso inammissibile ed obbligo di cui all’art. 129 c.p.p.

 

3. Il caso riguardava l’amministratore unico di una società di capitali accusato di essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, delle somme dovute ad una lavoratrice a titolo di indennità di maternità, omettendone il versamento per alcune mensilità, per un ammontare complessivo di Euro 4.120,00.

La contestazione comprendeva l’aggravante dall’aver commesso il fatto con abuso di relazioni di prestazioni d’opera, di cui all’art. 61 n. 11 c.p., che rendeva il reato procedibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 646 terzo comma c.p., nella formulazione vigente sino alla pronuncia di secondo grado.

L’imputato aveva interposto ricorso per cassazione, lamentando errata applicazione della legge penale e difetto di motivazione, avverso la sentenza d’appello che – previa esclusione della contestata recidiva – aveva confermato la sentenza di condanna emessa dal giudice di prime cure, attenuando la misura di pena irrogata.

Nelle more della trattazione del ricorso, avanti alla Suprema Corte, l’art. 10, comma 1, d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, sopra citato, abrogava il terzo comma dell’art. 646 c.p. rendendo con ciò il reato proseguibile a querela.

 

4. Com’è noto, all’art. 12 del d.lgs. cit., il legislatore ha dettato disposizioni transitorie per i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto stesso.

In particolare, al comma primo del suddetto articolo, il decreto prevede che «Per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato».

Viceversa, al comma secondo, stabilisce che «se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l'esercizio dell'azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata».

Nel caso di specie, essendo il procedimento pendente in sede di legittimità, la Suprema Corte avrebbe dovuto – almeno in base ad una prima lettura del secondo comma appena citato -  sospendere il procedimento ed informare la persona offesa della facoltà di interporre querela entro tre mesi dalla comunicazione, decorsi i quali, in caso di mancata presentazione della richiesta punitiva, avrebbe dovuto dichiarare la non procedibilità dell’azione penale, provvedendo al proscioglimento dell’imputato.

L’assegnazione alle Sezioni Unite si rendeva in primo luogo necessaria per stabilire se tale incombente dovesse essere assolto anche in relazione ai ricorsi che l’ufficio spoglio della Corte seleziona per l’inoltro alla speciale Sezione per le inammissibilità, e comunque in generale per i ricorsi inammissibili, ai quali la giurisprudenza di legittimità non riconosce l’idoneità alla costituzione di un valido rapporto processuale, e che reputa quindi «insensibili» ad una serie di eventi processuali, come l’intervenuta prescrizione, ai quali poteva equipararsi il diritto di proporre querela per la persona offesa.

 

5. Il Procuratore Generale chiedeva la sospensione del processo, la sospensione del termine di prescrizione e l’attivazione della procedura di informazione alla persona offesa, ritenendo che la questione dovesse essere risolta nel solco della giurisprudenza concernente i rapporti tra ricorso inammissibile e remissione di querela, «nel senso della prevalenza degli eventi capaci di far apprezzare il venir meno o, come nel caso di specie, la sopravvenuta inesistenza della condizione di procedibilità, da considerarsi anche omologabile ad una condizione per la punibilità in ragione della portata sostanziale dei suoi effetti»[1].

 

6. Le questioni alle Sezioni Unite sono state, dunque, le seguenti:

(a) «Se, in presenza di un ricorso inammissibile, debba darsi alla persona offesa l'avviso previsto dal D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, art. 12, comma 2, per l'eventuale esercizio del diritto di querela»;

(b) «Se durante i novanta giorni decorrenti dall'avviso dato alla persona offesa, ai sensi dell'art. 12 D.Lgs. cit., operi la sospensione del termine di prescrizione».

Ad entrambe, la Corte ha dato risposta negativa.

Preliminarmente, il Supremo Collegio ha dato atto della inammissibilità del ricorso, tale da precludere anche la rilevabilità della prescrizione nel frattempo maturata dopo la sentenza d’appello. La Corte, difatti, ha considerato il ricorso come proposto per motivi diversi da quelli sottoponibili al giudice di legittimità: esso, in particolare, avrebbe operato una mera rivisitazione del fatto, ovvero censurato la non corretta qualificazione giuridica basandosi però su circostanze di fatto non accertate nel giudizio di merito e per la prima volta proposte in Cassazione.

Da qui, la rilevanza delle due questioni poste all’esame delle Sezioni Unite.

 

7. Quanto al primo dei quesiti, la Corte ha osservato preliminarmente che, dall’esame dei lavori preparatori e dal testo del decreto, dovrebbe dedursi che le relative disposizioni dovrebbero applicarsi anche in sede di legittimità, tutelando la «sovranità» della persona offesa nella procedibilità delle azioni penali per i reati perseguibili a querela.

Peraltro, la Corte ha affermato anche che, «onde evitare conseguenze aberranti derivanti da una interpretazione formalistica della norma transitoria», l’avviso alla persona offesa non dovrebbe essere dato quando risulti dagli atti la volontà della stessa persona offesa di agire o non agire nei confronti del presunto autore del reato (es. la costituzione di parte civile; oppure – in senso contrario – la rinuncia, espressa o tacita; l’irreperibilità della p.o.).

Nondimeno, la volontà della vittima non prevale sulle cause di estinzione del reato, quali la morte o la prescrizione: pure esercitato il diritto di querela, il procedimento si concluderebbe comunque con la declaratoria ex art. 129 c.p.p., la quale dunque è destinata ad operare «con immediatezza» rispetto ad una causa di non procedibilità «potenziale».

Del pari, secondo la Corte, anche l’inammissibilità del ricorso deve ritenersi ostativa alla attivazione della procedura di informazione della persona offesa, giacché «la inammissibilità dovuta a tardività del ricorso per la sua intempestiva presentazione costituisce una ipotesi di indiscussa ostatività alla rilevazione di cause di non punibilità o improcedibilità. [...] Il ricorso inammissibile per tardività (...), non ritenuto idoneo a far rilevare la illegalità della pena neppure se derivante da una declaratoria di illegittimità costituzionale, a maggior ragione va considerato inidoneo a dar vita alla fase nella quale dovrebbe avere luogo la attività complessa volta alla verifica delle condizioni per la declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela».

 

8. Le cause di inammissibilità di cui agli artt. 581, 591, 606, comma 3, c.p.p., comportano una pronuncia meramente dichiarativa, che ha la funzione di consolidare il giudicato sostanziale già formatosi, con «l’effetto di rendere giuridicamente indifferenti fatti processuali come l’integrazione di cause di non punibilità precedentemente non rilevate perché non dedotte oppure integrate successivamente al giudicato stesso».

È fatta eccezione per alcune cause di non punibilità che la Corte definisce “rigorosamente individuate”, ma che invero vengono individuate non dalla legge ma dalla giurisprudenza, la quale ha scisso la nozione di giudicato di cui all’art. 648, distinguendo il “giudicato formale” dal “giudicato sostanziale” (scissione, peraltro, aspramente criticata anche dal Procuratore Generale intervenuto nel giudizio in commento).

In ogni caso, tali cause di non punibilità sono: «l'abolito criminis o la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, che producono effetto ex tunc, travolgendo anche il giudicato formale[2] (...), alle quali vanno aggiunte l'ipotesi dell'estinzione del reato per morte dell'imputato, quella delle modifiche normative sopravvenute in termini di attenuazione della pena[3] (...) e quella ulteriore della estinzione per remissione di querela, perfezionatasi in pendenza del ricorso per cassazione». Inoltre, «va da ultimo annoverata, nella medesima prospettiva, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., che le Sezioni Unite[4] (...) hanno ritenuto rilevabile anche in presenza di ricorso inammissibile rimarcandone la capacità di operare come una depenalizzazione in concreto[5] (...), pure dovendosi sottolineare la dissimetria, rispetto alle decisioni precedenti, della interpretazione che ha disancorato tale eccezionale attitudine, dalla capacità di determinare la revoca del giudicato».

 

9. Va osservato che la sentenza della Corte riguarda, in via diretta, il rapporto delle cause di estinzione del reato, di non punibilità e di non procedibilità con l’inammissibilità del ricorso per Cassazione. Nondimeno, la stessa Corte ha chiarito che le cause di inammissibilità delle impugnazioni debbono essere “unitariamente” considerate, e che, a fronte di disposizioni che si applicano tanto al giudizio di legittimità quanto al giudizio d’appello, deve ritenersi che i principi enunciati dalla Corte medesima siano valevoli anche per il caso della dichiarazione di inammissibilità dell’appello.

Nessuno spazio, dunque, per la sopravvenuta eventuale improcedibilità, neppure in sede esecutiva, poiché infatti, secondo la Corte, è «da escludere che il giudice dell’esecuzione possa revocare la condanna rilevando la mancata integrazione del presupposto di procedibilità».

La Corte, tuttavia, nulla ha rilevato riguardo alla eventualità che il condannato dimostri, in sede esecutiva, la manifestazione di volontà della persona offesa di non procedere nei suoi confronti, e della sua attitudine a travolgere il giudicato, stante la natura, anche sostanziale e non meramente processuale, riconosciuta dalle stesse Sezioni Unite alla querela: aderendo alla c.d. teoria “mista”, potrebbe dunque individuarsi ancora un margine per la professata “sovranità” della p.o. nei reati procedibili a querela. Va ribadito, comunque, come la Corte abbia escluso in modo indifferenziato che siano proponibili, nella fase esecutiva, questioni attinenti alla procedibilità per il reato contestato

 

10. In ultimo, quanto al secondo quesito, la Corte ha escluso che, ove la procedura per la informativa alla persona offesa debba essere espletata, il termine di prescrizione debba essere sospeso.

La sentenza rileva che «la norma codicistica che regola la sospensione del corso della prescrizione, l’art. 159 cod. pen., lo fa in relazione ad una casistica molto dettagliata e di stretta interpretazione, andando ad incidere sul diritto dell’imputato di vedere definito il processo in tempi ragionevoli e, in caso contrario, di vedere riconosciuta la cessazione dell’interesse dello Stato all’accertamento della responsabilità e alla punizione»: nella casistica non è inclusa l’informativa alla persona offesa.

Dunque, ubi lex voluit, dixit. Diversamente, si avrebbe una interpretazione analogica in malam partem dell’art. 159 c.p.

Del resto, la stessa sentenza rileva come in qualunque fase del procedimento può darsi corso ad avvisi ed informazioni alle parti, per le quali non vi è alcuna sospensione del termine di prescrizione: «gli avvisi e le interlocuzioni con le parti e i protagonisti del rito – osserva la Corte – rientrano nella ordinaria dinamica processuale e non sono causa di aggravi a carico dell’imputato».

 

 


[1] Cass., Sez. un., 25 febbraio 2004 (dep. 27 maggio 2004), n. 24246, rv. 227681, ric. Chiasserini.

[2] v. Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266, e n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164; più di recente Sez. Un., n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265108.

[3] v. Sez. Un., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111, che ha inquadrato il motivo come "costituzionalmente imposto" ex art. 25 Cost., secondo comma, e art. 117 Cost., primo comma, nonché art. 7, p. 1, CEDU, essendo stata anche preceduta dalla sentenza Sez. Un., 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, che aveva ammesso la superabilità del giudicato quando interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio.

[4] Sez. Un., n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593.

[5] Sez. Un., n. 53683 del 22/06/2017, Pmp, Rv. 271587.