ISSN 2039-1676


22 novembre 2018 |

Particolare tenuità del fatto: per le Sezioni unite non è abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari restituisce gli atti al pubblico ministero

Cass., Sez. un., sent. 18 gennaio 2018 (dep. 9 maggio 2018), n. 20569, Pres. Fumo, Rel. Boni

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1. Con la sentenza in commento, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno stabilito che non è abnorme, quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisce gli atti al pubblico ministero, al fine di verificare la possibilità di chiedere l'archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto.

A parere della Suprema Corte, con tale attività – che rientra nei poteri conferiti al giudice dall'art. 459, comma 3, c.p.p. – non si realizza né un indebito ritorno ad una fase del procedimento già esaurita e conclusa, né una paralisi irrimediabile del suo corso; invero, il pubblico ministero risulta nuovamente titolare degli originari poteri di iniziativa e di impulso processuale, conferitigli dagli artt. 405 ss. c.p.p., con la conseguenza che potrà ripresentare la richiesta di emissione del decreto penale di condanna emendata dagli eventuali errori segnalati, ovvero richiedere l'archiviazione.

 

2. Quanto ai fatti sub iudice, la IV Sezione penale della Corte era stata investita della questione a seguito di ricorso esperito dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, il quale, con unico motivo, aveva censurato l'indebito superamento da parte del giudice per le indagini preliminari dei limiti che l'ordinamento processuale gli impone nell'esercizio della funzione di controllo sulle determinazioni del pubblico ministero, in tema di esercizio dell'azione penale.

In particolare, a parere del ricorrente, l'art. 459, comma 3, c.p.p. consente al giudice per le indagini preliminari che sia investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna – qualora non rinvenga i presupposti per la pronuncia di proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p. –, la possibilità di respingere la richiesta, con conseguente restituzione degli atti alla pubblica accusa, nelle sole ipotesi relative a profili di legittimità del rito, di qualificazione giuridica del fatto o di idoneità ed adeguatezza della pena con riferimento al caso concreto.

Al contrario, per mere ragioni di opportunità, l'unica alternativa possibile alla pronuncia della suddetta sentenza di proscioglimento dell'imputato ex art. 129 c.p.p., resterebbe l'emissione del decreto penale di condanna. Con la conseguenza che il provvedimento di restituzione degli atti per valutare l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. sarebbe abnorme, perché non consentito, tenuto conto, inoltre, che a seguito della richiesta di ammissione del decreto penale di condanna, non viene ad instaurarsi alcuna forma di contraddittorio, laddove viceversa quest'ultimo è coessenziale all'istituto della particolare tenuità del fatto, che presenta effetti non pienamente liberatori per il giudicabile. Di talché, nel caso in cui fosse ritenuta ravvisabile la causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., non sarebbe consentito al giudice procedente di emettere sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; mentre l'interessato avrebbe comunque la facoltà di far valere la non punibilità per particolare tenuità del fatto a seguito di opposizione al decreto penale di condanna.

 

3. Investiti della quaestio iuris, i giudici della Quarta Sezione avevano ritenuto che la stessa andasse inevitabilmente rimessa alle Sezioni unite, poiché presente sul punto un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità.

 

3.1. Un primo orientamento, al quale si richiama anche l'ordinanza di rimessione, esclude l'abnormità del provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, disponendo la restituzione degli atti al Pubblico ministero, salvo i casi in cui tale provvedimento sia fondato esclusivamente su ragioni di opportunità[1].

Premettendo che in ottemperanza al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione di cui all'art. 568 c.p.p. il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero va considerato inoppugnabile, l'indirizzo in parola evidenzia, come, sul piano generale, il rigetto della richiesta di emissione di decreto penale di condanna sia un atto previsto dal codice di rito e, quindi, corretto sotto il profilo strutturale, trovando specifico riscontro normativo nell'art. 459, comma 3, c.p.p.

In particolare, con specifico riguardo al decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari, restituendo gli atti al pubblico ministero, lo inviti a valutare la sussistenza o meno della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., l'orientamento di cui trattasi esclude che possa parlarsi di provvedimento fondato esclusivamente su ragioni di opportunità (e dunque abnorme), ravvisando nell'attività dell'autorità giudiziaria – in coerenza con quanto stabilito dall'art. 459, comma 3, c.p.p. –, un mero invito rivolto all'organo requirente ad assumere una diversa determinazione, e non un indebita interferenza con le prerogative in capo alla pubblica accusa, rimaste impregiudicate anche nelle valutazioni da esprimere nel proseguo.

Ben diverse, invero, sono le ipotesi nelle quali la Corte di legittimità ha ritenuto abnorme il provvedimento in oggetto per mere ragioni di opportunità: ragioni, ad esempio, legate alla separazione delle posizioni personali delle persone sottoposte ad indagini e alla richiesta del pubblico ministero di procedere con decreto penale di condanna nei confronti di uno di essi[2]; ovvero riferite all'ipotesi, anch'essa non assimilabile al caso in esame, in cui il rigetto era stato motivato dall'autorità giudiziaria in base all'assunto per il quale, non avendo l'imputato inteso avvalersi della possibilità di definire in via amministrativa l'illecito contestatogli e così manifestando la volontà di richiedere la verifica dibattimentale, il decreto penale di condanna sarebbe stato sicuramente oggetto di opposizione, risolvendosi pertanto in un inutile dispendio di attività giurisdizionale[3].

 

3.2. A tale maggioritaria linea esegetica si contrappone altro indirizzo, per il quale il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, col quale si disponga la restituzione degli atti al Pubblico ministero per verificare l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., è affetto da abnormità strutturale per carenza di potere giurisdizionale, sul rilievo che la restituzione prevista dall'art. 459, comma 3, c.p.p., riguarda le sole e diverse ipotesi attinenti alla legittimità del rito, alla definizione giuridica del fatto ed all'adeguatezza della pena, e non dunque, altri profili oggetto di apprezzamento discrezionale, quali l'indicazione della possibile archiviazione del procedimento[4].

 

4. Le Sezioni unite hanno aderito all'orientamento maggioritario, escludendo l'abnormità del provvedimento oggetto del ricorso.

Per giungere a tale conclusione, i giudici di legittimità si sono soffermati, anzitutto, sulla nozione di abnormità dell'atto, ritenuta necessaria al fine di verificarne la riferibilità alla decisione impugnata.

In realtà, com'è noto, la categoria processuale dell'abnormità costituisce una forma di patologia dell'atto giudiziario priva di riconoscimento testuale in un'esplicita disposizione normativa[5], nata, piuttosto, dall'elaborazione dottrinale[6] e giurisprudenziale, nell'intento di porre rimedio agli effetti pregiudizievoli derivanti da provvedimenti non previsti nominatim come impugnabili, ma affetti da anomalie genetiche o funzionali, che li rendono difformi ed eccentrici rispetto al sistema processuale e con esso radicalmente incompatibili.

Ciò premesso, richiamando quanto sancito in passato dalla consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite sussistente sul punto[7], la Corte ha tracciato i contorni generali della nozione di abnormità, nella sua duplice accezione, strutturale e funzionale: riferita, dunque, rispettivamente alla radicale estraneità dell'atto all'ordinamento processuale, ovvero all'atto che, pur contemplato dall'ordinamento, venga adottato secondo finalità o modalità compatibili con la sua funzione, o determini un'indebita paralisi o ancora, un'indebita regressione del procedimento.

Tale nozione generale è stata recentemente affiancata da una ulteriore elaborazione giurisprudenziale, che ha chiarito come abnormità strutturale e funzionale si saldino, in definitiva, all'interno di un “fenomeno unitario”, caratterizzato dallo sviamento della funzione giurisdizionale, inteso non tanto quale vizio dell'atto, che si aggiunge a quelli tassativamente indicati all'art. 606, comma 1, c.p.p., quanto come esercizio di un potere in difformità dal modello descritto dalla legge[8].

Pertanto, la categoria dell'abnormità, così come ricostruita – riferibile alle sole situazioni in cui l'ordinamento non appresti altri rimedi idonei per rimuovere il provvedimento giudiziale, che sia frutto di sviamento di potere e fonte di un pregiudizio altrimenti insanabile per le situazioni soggettive delle parti – costituisce eccezione al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, sancito dall'art. 568 c.p.p., mantenuto peraltro inalterato nel suo testo anche a seguito dell'introduzione della l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando).

 

5. Tale premessa ermeneutica sta alla base del ragionamento con il quale la Suprema Corte è giunta a ritenere non abnorme, in nessuna delle sue possibili manifestazioni, il provvedimento adottato dal giudice per le indagini preliminari che, senza denegare esplicitamente l'emissione del decreto penale di condanna, rimandi gli atti del procedimento al pubblico ministero istante per una valutazione sulla possibile archiviazione del procedimento per essere l'imputato non punibile ai sensi dell'art. 131-bis c.p.

In via generale, sul piano strutturale, a parere della Sezioni unite l'ordinanza in questione costituisce espressione del legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice per le indagini preliminari dall'art. 459, comma 3, c.p.p., che gli riconosce la possibilità di ampio sindacato sul merito dell'istanza.

La disposizione stabilisce che il pubblico ministero procedente in ordine a specifiche tipologie di reati, quando ritiene sia applicabile una pena pecuniaria, anche se in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro il termine di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato e previa trasmissione del fascicolo processuale, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna con indicazione della misura della pena, eventualmente diminuita sino alla soglia limite della metà rispetto al minimo stabilito dal legislatore.

Ora, la previsione testuale del comma 3 dell'art. 459, c.p.p., consente di escludere come la presentazione della richiesta sia caratterizzata da effetti vincolanti per il giudice cui sia rivolta; quest'ultimo, infatti, potrà discrezionalmente valutare plurimi esiti decisori alternativi, quali l'accoglimento dell'istanza con conseguente emissione del decreto; il rigetto per la contestuale pronuncia della sentenza di proscioglimento dell'imputato ex art. 129 c.p.p.; il sostanziale rigetto tramite restituzione degli atti al pubblico ministero.

Con specifico riferimento a quest'ultima ipotesi, ravvisato il silenzio del legislatore sul punto, i giudici di legittimità hanno rammentato come non sia possibile rinvenire nella formulazione testuale della disposizione alcuna indicazione riguardo l'ambito in cui debba svolgersi il sindacato del giudice. Cosicché, secondo le Sezioni unite, non appare condivisibile la tesi che circoscrive l'area delle verifiche giudiziali sulla domanda di emissione del decreto penale al solo profilo di applicabilità al caso specifico della pena pecuniaria e della sua misura (quindi ai soli aspetti attinenti alla legalità della sanzione in concreto irrogabile rispetto agli estremi edittali ed alla diminuzione prevista per il rito).

Tale interpretazione trova valido addentellato nella giurisprudenza di legittimità, a tenore della quale è strettamente necessario estendere la valutazione dell'autorità giudiziaria anche a tutti gli altri presupposti condizionanti l'ammissibilità dell'introduzione del rito stesso, quali la tipologia di reato ed il momento di formulazione della richiesta, nonché alla qualificazione giuridica del fatto di reato ed alla congruità della pena[9].

Nondimeno, risulta costante in giurisprudenza l'affermazione per cui l'apprezzamento discrezionale del giudice sulla richiesta di introduzione del rito monitorio, pur riconosciutogli dall'art. 459, comma 3, c.p.p., non può estendersi sino ad interferire con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell'azione penale e di strutturazione dell'imputazione, e a negare il provvedimento richiesto in forza di un personale criterio di opportunità, stimato preferibile rispetto alle valutazioni del pubblico ministero. Un provvedimento di tal tipo stravolgerebbe la ripartizione delle funzioni nel sistema processuale, giungendo a decretare l'abnormità della decisione, poiché al di fuori della previsione normativa per il suo contenuto eccentrico e singolare e per gli effetti prodotti di indebita regressione del procedimento.

Cosicché, il provvedimento di restituzione degli atti risulta abnorme allorché sia motivato da ragioni di mera opportunità, ossia nel caso in cui si traduca in una manifestazione di dissenso rispetto alla scelta, di esclusiva pertinenza dell'organo dell'accusa, di introdurre il procedimento monitorio ed in un'arbitraria usurpazione da parte del giudice di facoltà, riservate dall'ordinamento alla parte pubblica, in conseguenza della difforme considerazione sull'utilità del rito e sui suoi futuri sviluppi.

 

6. A questo punto, le Sezioni Unite hanno incentrato il loro ragionamento sul punto focale della quaestio iuris, ossia la verifica dell'abnormità con specifico riguardo al decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari, restituendo gli atti al Pubblico ministero, lo inviti a valutare la sussistenza o meno della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. (istituto previsto dalla disciplina introdotta con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28[10] e, segnatamente, dall'art. 411, comma 1-bis, c.p.p.[11]) in relazione ad una fattispecie di reato per quale la stessa è astrattamente ipotizzabile.

Al riguardo, la Corte ha evidenziato come il ragionamento finora esposto risulti estendibile altresì nei casi in cui il provvedimento sia motivato dalla necessità di verificare se sussista o meno il suddetto istituto. Ciò esula dalla nozione di abnormità fin qui elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero non si esaurisce in una valutazione di inopportunità dell'introduzione del procedimento monitorio. A ben guardare, proseguono le Sezioni unite, «il riscontro sulla lesività dell'illecito contestato nell'imputazione, al fine di un'eventuale archiviazione del procedimento, viene rimesso ad un’ulteriore successiva delibazione, non determinando, quindi, alcuna invasione del potere spettante all'organo requirente».

D’altro canto, il giudizio sulla tenuità offensiva della condotta antigiuridica non riguarda la ricostruzione della dimensione storico-naturalistica e l'identificazione della sua componente materiale, ma la valutazione del grado maggiore o minore di aggressione del bene giuridico protetto[12] e della complessiva manifestazione dell'attività criminosa al fine di riscontrare se, attraverso una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado di colpevolezza[13], l'incidenza offensiva, insita nel fatto rientrante nel tipo legale di illecito, sia talmente esigua da non meritare punizione[14]. Inoltre, l'art. 131-bis c.p., implicando l'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità e della sua riferibilità all'imputato[15], pretende per la sua applicazione la previa instaurazione del contraddittorio tra l'accusa, la difesa e persino la persona offesa, se esistente; ne conseguono, pertanto, effetti non integralmente liberatori per l'imputato e la necessità di assicurare tale garanzia viene riconosciuta anche nella fase dell'archiviazione del procedimento dall'art. 411, comma 1-bis, c.p.p.

Sicché, concludono le Sezioni unite, appare corretto ritenere che sia preclusa al giudice, richiesto di emettere decreto penale di condanna, la possibilità di prosciogliere l’imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p. a ragione della minima offensività dell’illecito, a causa della presenza dell'ostacolo procedurale rappresentato dalla connotazione del rito monitorio, che, al fine di perseguire finalità deflattive e di accelerazione nella trattazione del processo, viene attivato dall'accusa in assenza di qualunque tipo di contraddittorio (necessario in questo caso).

Dunque, ad avviso delle Sezioni Unite, in adesione all'impostazione offerta dalla Sezione remittente, la segnalata problematica trova soluzione nella facoltà di restituzione degli atti al pubblico ministero, espressamente contemplata dal sistema e niente affatto eccentrica alla sfera di controllo assegnata al giudice.

 

7. Pare di rilievo considerare che tale interpretazione risulta avvalorata anche sul piano dell’anomalia funzionale, giacché la restituzione degli atti da parte del giudice per le indagini preliminari non determina alcuna fase di stallo processuale: come evidenziato dalla Corte, la regressione dalla fase del processo a quella del procedimento non soltanto costituisce situazione contemplata da altre norme che rimettono al vaglio giudiziale la scelta del rito speciale, operata dalla Pubblica accusa[16], ma è effetto legittimo delle determinazioni assunte dal giudice di non dare corso al rito monitorio. Cosicché, una volta esclusa l'operatività della richiesta di emissione del decreto penale di condanna perché non accolta e venuta meno la funzione propulsiva dell'ulteriore corso del procedimento, il pubblico ministero viene reintegrato nella totalità dei poteri, conferitigli dagli artt. 405 ss. c.p.p., quanto all'esercizio dell'azione penale ed alle sue modalità. Ne consegue, dunque, che risultano affette da abnormità la declaratoria d'inammissibilità della richiesta di archiviazione o la pronuncia di proscioglimento dell'imputato, intervenute soltanto a seguito della restituzione degli atti all'autorità requirente, motivate a ragione dell'irretrattabilità dell'azione penale, che è posta nel nulla dalla mancata emissione del decreto penale di condanna.

Per questi motivi, secondo la sentenza annotata, “non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, restituisca gli atti al Pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l'archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p.”.

 

* * *

 

8. In conclusione, dopo aver analizzato la decisione delle Sezioni Unite, è possibile svolgere qualche breve considerazione a prima lettura.

Come evidenziato nei passaggi più salienti della pronuncia, il riconoscimento in capo all'autorità giudiziaria del potere di sindacare l'istanza proposta ai sensi dell'art. 459, c.p.p., utilizzando ogni risultanza processuale, con l'unico limite di non invadere la sfera di competenza di quest'ultimo, rientra nel modello legale di attività del giudice per le indagini preliminari, risultando, peraltro, in linea con una interpretazione costituzionalmente orientata[17]. Invero, a parere della Consulta, la suddetta norma attribuisce in capo al Giudice un potere di controllo completo, nel rito e nel merito, sulla richiesta del pubblico ministero, che può respingere anche nel caso non ritenga adeguata la misura della pena in essa indicata, senza che la restituzione comporti effetti vincolanti e limitativi dei poteri spettanti alla pubblica accusa, cui resta consentito reiterare una richiesta di contenuto adeguato ai rilievi critici del giudice, instaurare altri riti semplificati o procedere nelle forme ordinarie.

Sicché, premettendo che sarebbe del tutto inverosimile pretendere che il giudice per le indagini preliminari emani un provvedimento di condanna in presenza di una causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., la lettura offerta dalla Suprema Corte si lascia preferire per una serie di ragioni.

Di certo, la restituzione degli atti all'organo requirente non realizza né un indebito ritorno ad una fase del procedimento già esaurita e conclusa, né una paralisi irrimediabile del suo corso; come già ribadito dalle Sezioni Unite, il pubblico ministero viene ad essere reinvestito di tutti gli originari poteri di iniziativa e di impulso processuale ad esso spettanti ex artt. 405 ss. c.p.p. Senza poi contare che nel caso in cui vi sia l'astratta possibilità di applicazione di una causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, il proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p. parrebbe soluzione anomala, atteso che in tal caso verrebbe violata la procedura in contraddittorio, indeclinabile per poter accedere all'istituto di cui all'art. 131-bis c.p.

Resta comunque complicato comprendere come sia conciliabile l'interpretazione dettata dalle Sezioni Unite con la ratio propria del procedimento monitorio, che com'è noto, nella prospettazione legislativa risulta caratterizzato da esigenze deflattive. Su questa linea, non può non rilevarsi come il legislatore avrebbe potuto (rectius dovuto) consentire all'autorità giudiziaria di emettere un provvedimento de plano con esito liberatorio, a seguito dell'instaurazione del contraddittorio tra le parti.

 

 


[1]   Cfr., ex multis, Cass. Pen., Sez. IV, 18 settembre 2014, n. 45683, in CED, Rv. 261063; Cass. Pen., Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 36216, in CED, Rv. 256331; Cass. Pen., Sez. IV, 6 ottobre 2010, n. 40513, in CED, Rv. 248857.

[2]   Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 20 marzo 2007 (dep. 3 maggio 2007), n. 16826, in CED, Rv. 236810.

[3]   Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 25 novembre 2009, n. 8288, non massimata.

[4]   Cfr., ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, 12 maggio 2016, n. 23829, in CED, Rv. 267272; Cass. Pen., Sez. III, 25 novembre 2009, n. 8288, in CED, Rv. 246333.

[5]   La Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale vigente (pag. 126) sottolinea che “è rimasta esclusa l'espressa previsione dell'impugnazione dei provvedimenti abnormi, attesa la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione e la necessità di lasciare sempre alla giurisprudenza di rilevarne l'esistenza e di fissarne le caratteristiche ai fini della impugnabilità. Se infatti, proprio per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per cassazione consente comunque l'esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall'ordinamento”.

[6]   Per maggiori approfondimenti, cfr.: Bellocchi, L'atto abnorme nel processo penale, Utet, Torino, 2012; Nevoli, voce Abnormità, in Dig. disc. pen., Agg. VI, Utet, Torino, 2011; Santalucia, L'abnormità dell'atto processuale penale, Cedam, Padova, 2003.

[7]   V. Cass. Pen., SS. UU., 10 dicembre 1997, n. 17, in CED, Rv. 209603.

[8]   Cfr. Cass. Pen., SS. UU., 26 marzo 2009, n. 25957, in CED, Rv. 243590.

[9]   Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 24 marzo 1994, n. 1426, in CED, Rv. 198289.

[10] Il d.lgs. n. 28/2015 è stato emanato in attuazione della delega conferita al Governo di cui all'art. 1, comma 1, lett. m) della l. 28 aprile 2014, n. 67, in materia di pene detentive non carcerarie e di depenalizzazione. La novella introduce un istituto con il quale si intende agevolare la fuoriuscita dal sistema giudiziario di condotte che, pur integrando gli estremi del fatto tipico, antigiuridico e colpevole, appaiono non meritevoli di pena, in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale. Per una attenta disamina della riforma, cfr.: Alberti, Non punibilità per particolare tenuità del fatto, in questa Rivista, 16 dicembre 2015; Amarelli, Particolare tenuità del fatto, in Enc. Dir., Giuffrè, Milano, Annali X, 2017, p. 557 ss.; Bartoli, L'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., n. 6, 2015; Dies, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, in questa Rivista, 13 settembre 2015; Giacona, La nuova causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), tra esigenze deflattive e di bilanciamento dei principi costituzionali, in Ind. pen., 2016, p. 38 ss.; Grosso, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 517 ss.; Nisco, Sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Scritti in onore di Luigi Stortoni, Bononia University Press, 2016, p. 249 ss.; Padovani, Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang, in Guida al diritto, 4 aprile 2015; Pomanti, La clausola di particolare tenuità del fatto, in Arch. pen., 2015, n. 2, p. 1 ss.; Rampioni, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2016, p. 459 ss.; Rossi, Il nuovo istituto della “non punibilità per particolare tenuità del fatto”: profili dommatici e politico-criminali, in Dir. pen. proc., 2016, p. 537 ss.; Santoriello, La clausola di particolare tenuità del fatto. Dimensione sostanziale e prospettive processuali, Dike, Roma, 2015.

[11] Ai sensi del quale: “Se l'archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto, il pubblico ministero deve darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, precisando che, nel termine di dieci giorni, possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta. Il giudice, se l'opposizione non è inammissibile, procede ai sensi dell'art. 409, comma 2, e, dopo avere sentito le parti, se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza. In mancanza di opposizione, o quando questa è inammissibile, il giudice procede senza formalità e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato. Nei casi in cui non accoglie la richiesta il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell'articolo 409, commi 4 e 5”.

[12] Al centro della norma di cui all'art. 131-bis c.p. vi è l'elemento dell'offesa nella sua dimensione gradualistica, considerando le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo come indici rilevatori della stessa tenuità dell'offesa. Per maggiori approfondimenti sul punto, cfr. Pomanti, op. cit., p. 3.

[13] Ci si riferisce al modello di tipicità bagatellare (c.d. modello di Krumpelmann), che il legislatore sembra aver ripreso. Esso risulta caratterizzato dalla contemporanea esiguità del disvalore di evento, disvalore di azione e grado di colpevolezza (una triarchia paritaria dei reati bagatellari). A tale proposito, v. Marinucci – Dolcini, Corso di diritto penale, Giuffrè, Milano, 2001, p. 388.

[14] V. Cass. Pen., SS. UU., 25 febbraio 2016, n. 13681, in CED, Rv. 266590.

[15] È opinione ormai diffusa come il d. lgs. n. 28/2015 delinei un istituto di natura sostanziale, inquadrabile tra le cause di non punibilità in senso stretto, che presuppone la sussistenza di un fatto tipico, antigiuridico ed offensivo. La relativa sentenza si configura come “cripto condanna”, che fa stato nei giudizi civili e amministrativi di danno, ex art. 651-bis c.p.p., e va iscritta nel casellario giudiziale.

[16] Si segnala la similitudine con il giudizio immediato, accomunato al rito monitorio da analoghe esigenze di celerità ed economia processuale, che viene introdotto con apposita richiesta dall'organo dell'accusa sul presupposto dell'evidenza della prova ed entro termini precisi, la cui effettiva sussistenza quale condizione di ammissione del rito è oggetto di verifica giudiziale e che, se negata, comporta il rigetto della richiesta e la restituzione degli atti alla parte pubblica con regresso alla fase delle indagini preliminari. Per approfondimenti sul punto, cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 12 maggio 2016, n. 2389, in CED, Rv. 267272.

[17] Cfr. Corte cost., ord. 12 ottobre 1990, n. 447, Pres. Saja, Red. Ferri.