ISSN 2039-1676


26 novembre 2018 |

Interdizione cautelare dell'ente, revoca della misura a seguito delle condotte riparatorie e persistenza dell'interesse all'impugnazione

Cass., Sez. un., sent. 27 settembre 2018 (dep. 14 novembre 2018), n. 51515, Pres. Carcano, Rel. Montagni, ric. Romeo Gestioni S.p.A.

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1. Investite della questione «se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura interdittiva disposta a carico di una società possa essere dichiarato inammissibile anche senza formalità, ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa» disposta all’esito del positivo esperimento dell’istituto di cui all’art. 49 comma 1 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, le Sezioni unite hanno dato risposta negativa:  «l'appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001, poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall'art. 127, comma 9, ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell'udienza camerale e nel contraddittorio delle parti, previamente avvisate; la revoca della misura interdittiva disposta a seguito di condotte riparatorie poste in essere ex art. 17 d.lgs. 231 del 2001, intervenuta nelle more dell'appello cautelare proposto nell'interesse della società indagata, non determina automaticamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione».

 

 

2. Nel caso di specie, con ordinanza del 31 maggio 2017, veniva applicata nei confronti della società ricorrente la misura cautelare interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per il periodo di un anno. In seguito, tale misura veniva revocata ai sensi dell’art. 49, comma 4, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, per effetto della positiva realizzazione delle condotte ripararatorie post factum indicate dall’art. 17 del medesimo decreto. L’ente, infatti, oltre ad aver depositato una cauzione, aveva versato una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno e aveva operato un incisivo intervento sul modello di organizzazione.

Tenuto conto della revoca della misura che nel frattempo era intervenuta, il Tribunale del riesame aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto – con provvedimento assunto inaudita altera parteper carenza di interesse.

Nel ricorso per cassazione presentato dalla società si deduceva l’erronea applicazione dell’art. 127, comma 9, c.p.p. che, come è noto, conferisce al giudice il potere di dichiarare con ordinanza, anche senza formalità di procedura, l’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento.

Nel caso di specie, secondo la prospettazione difensiva, il Tribunale del riesame avrebbe dovuto celebrare l’udienza camerale nel contraddittorio tra le parti e valutare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’adozione della misura. La revoca, infatti, era stata fondata sulla positiva verifica degli adempimenti ex art. 17 d.lgs. 231/01, senza alcuna valutazione sull’originaria sussistenza dei gravi indizi e delle esigenze cautelari (che nel corso del procedimento la società aveva contestato). Per non tralasciare, poi, che la permanenza dell’interesse era resa ancor più concreta dal fatto che, per ottenere la sospensione della misura interdittiva, l’ente aveva dovuto elaborare un complesso piano strategico e versare ingenti somme di denaro che, in caso di annullamento del provvedimento genetico, avrebbero dovuto essere oggetto di restituzione.

 

3. Il ricorso veniva rimesso dalla VI Sezione alle Sezioni unite sulla scorta del rilevato contrasto giurisprudenziale relativo alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione emessa inaudita altera parte[1].

La decisione sull’inammissibilità, si legge nell’ordinanza di rimessione, non necessariamente contempla le forme processuali partecipative dell’art. 127 c.p.p. («il sistema contempla schemi procedimentali atipici, nell’ambito dei quali è autorizzata l’adozione di provvedimenti de plano»): infatti, l’art. 591, comma 2, c.p.p., norma generale sull’inammissibilità dell’impugnazione, si limita a stabilire che il giudice debba provvedere con ordinanza, ma senza fare richiamo all’art. 127 c.p.p.

Inoltre, seguendo una logica di rapida definizione dei ricorsi affetti da cause di inammissibilità di carattere prettamente formale, nel nuovo comma 5-bis dell’art. 610 c.p.p. si è previsto che la Corte di cassazione possa dichiarare la ricorrenza di determinate cause di inammissibilità senza formalità di procedura[2].

Proprio tale ultima disposizione, riferendosi a difetti di tipo formale, consentirebbe di escludere – secondo la Sezione rimettente – che la carenza sopravvenuta di interesse all’impugnazione possa essere dichiarata de plano, tanto in ambito di impugnazioni ordinarie quanto in ambito di impugnazioni cautelari.

Nello specifico ambito del processo penale agli enti, infine, il disposto dell’art. 52 d.lgs. 231/01 aggiunge un ulteriore tassello alla questione: la norma, da un lato, restringe il novero delle impugnazioni cautelari esperibili al solo appello e ricorso per cassazione e, dall’altro lato, per effetto del richiamo espresso agli artt. 322-bis, comma 1-bis e 2, e 325 c.p.p., rende applicabile il modello procedimentale dell’art. 127 c.p.p., il cui comma 9, come visto, contempla la dichiarazione di inammissibilità «anche senza formalità».

 

4. È proprio dall’esame delle peculiarità del procedimento applicativo delle misure cautelari a carico degli enti che trae spunto il ragionamento delle Sezioni unite.

Innanzitutto, il sistema cautelare del processo alle società si caratterizza per la presenza di un contraddittorio anticipato rispetto all’adozione della misura (art. 47, comma 2, d.lgs. 231/01) che, dunque, non replica la natura tipica di atto a sorpresa delle misure cautelari personali e reali del codice di rito[3]. La valorizzazione del piano dialogico nella fase applicativa, operata nel contesto del processo agli enti, nelle intenzioni del legislatore è finalizzata ad ampliare il quadro cognitivo del giudice, che è posto nelle condizioni di adottare una misura interdittiva tenendo in adeguata considerazione le rilevanti conseguenze che possono derivarne sull’assetto organizzativo ed occupazionale di una società[4].

Da un altro punto di vista, non sfugge che l’apporto collaborativo dell’ente, ancorché utile in chiave difensiva, risponde alla logica specialpreventiva tipica del processo penale agli enti: questo passaggio processuale, infatti, ha spesso la funzione di interlocuzione con il giudice nella prospettiva di svolgere quelle condotte riparatorie che, ai sensi degli artt. 49 e 17, potrebbero portare prima alla sospensione e poi alla revoca della misura cautelare.

Come è noto, l’inedito meccanismo di sospensione della misura interdittiva, in vista dello svolgimento di condotte di ravvedimento, comporta l’insorgenza di una vera e propria obbligazione di risultato per l’ente: a fronte della prestazione di una garanzia patrimoniale nella forma del deposito di una cauzione (sostituibile con una fideiussione o con un’ipoteca), per ottenere la revoca della misura cautelare applicata l’ente dovrà adempiere in modo compiuto alle condotte riparatorie previste dall’art. 17 d.lgs. 231/01 entro il termine fissato dal giudice; altrimenti, ossia nel caso di «mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività», la misura verrà ripristinata e la somma per la quale è stata prestata la garanzia sarà devoluta alla Cassa delle ammende[5].

Secondo la decisione in commento, l’avere aderito al programma riparatorio previsto dall’art. 49 d.lgs. 231/01 e dunque l’avere attivamente (e dispendiosamente) svolto le condotte di cui all’art. 17 – cioè aver rimosso le cause dell’illecito prima ancora che questo sia stato accertato – costituisce il fondamento dell’interesse dell’ente a coltivare l’appello cautelare, per vedere dichiarata, in ipotesi, l’originaria illegittimità della misura e quindi ottenere la restituzione di quanto corrisposto a titolo di risarcimento, di quanto messo a disposizione ai fini della confisca, e l’annullamento delle iniziative poste in essere sul fronte della riorganizzazione aziendale.

In altre parole, la disponibilità prestata dall’ente al ravvedimento operoso, dettata dall’utilitaristica (ma legittima) esigenza di evitare l’applicazione di una misura cautelare interdittiva, non fa venire meno l’interesse, ma anzi lo connota del requisito dell’attualità, nella prospettiva di ottenere la restituzione di quanto versato[6]. Del resto, afferma la Corte, «la disponibilità della società ad adottare un determinato modello organizzativo non implica la rinuncia a contestare la legittimità del provvedimento impositivo».

E ancora, l’interesse alla pronuncia sulla legittimità originaria della misura può prescindere dalla sopravvenuta revoca anche sulla scorta di un altro argomento individuato dalle Sezioni unite: se l’ente interrompesse le condotte virtuose cui aveva dato corso, potrebbe vedersi applicata una nuova misura interdittiva fondata sugli stessi presupposti di quella revocata. Infatti, è ben chiaro che, in assenza di una decisione sull’ordinanza genetica, il pubblico ministero potrebbe rinnovare la richiesta applicativa allegando nuovamente lo stesso quadro indiziario e il periculum di recidiva iniziali.

Si tratta di un passaggio chiave della decisione, che viene solo accennato dalla Corte ma che sembra invece decisivo per cogliere la diversità degli effetti sostanziali derivanti dalle due differenti decisioni, quella di revoca e quella di annullamento (o di riforma) emessa all’esito del controllo sul provvedimento impugnato.

 

5. È stato affermato ormai da tempo che la rilevanza dell’interesse come condizione di ammissibilità dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. a), c.p.p., non è legata al mero concetto di “soccombenza”[7].

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una nozione di interesse di matrice marcatamente utilitaristica, secondo cui esso risulta connotato dai requisiti dell’attualità e della concretezza solo se l’impugnazione è potenzialmente idonea a determinare una situazione pratica più vantaggiosa per la parte.

In relazione all’attualità, si fa richiamo alla categoria della «carenza di interesse sopraggiunta» per puntualizzare come la condizione di ammissibilità dell’impugnazione debba sussistere non solo all’atto di proposizione del gravame, ma fino alla decisione.

Quanto alla concretezza, profilo di più sfuggente definizione, il requisito impone un apprezzamento ex ante sull’idoneità dell’impugnazione a determinare una situazione pratica più favorevole; non sarebbe tale, neppure per il pubblico ministero (al quale l’art. 73, comma 1, ord. giud., attribuisce il compito di vigilare sull’osservanza della legge), l’aspettativa solo teorica all’esattezza della decisione.

In altre parole, l’approdo interpretativo maggioritario circoscrive la casistica della permanenza dell’interesse all’impugnazione alle sole situazioni di fatto o di diritto intervenute medio tempore che non assorbano e non superino «la finalità perseguita dall’impugnante».

 

6. In materia cautelare, la questione se permanga o meno l’interesse all’impugnazione di un provvedimento che abbia perso efficacia nelle more del gravame è stata affrontata più volte dalla Cassazione, seguendo le linee direttrici sopra indicate.

Pur escludendo l’automatismo tra revoca e carenza di interesse sopravvenuta, infatti, si è affermato e consolidato il principio secondo cui l’interesse ad impugnare rimane concreto ed attuale solo nella prospettiva della pre-costituzione del titolo idoneo a chiedere la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 314 c.p.p.[8]. Come si vede, si tratta di un perimetro molto ristretto, dal quale sono estromesse tutte le misure cautelari diverse dalla custodia in carcere e dagli arresti domiciliari[9].

Nonostante i rilievi critici della dottrina[10], in giurisprudenza l’impugnazione di provvedimenti cautelari revocati non trova legittimazione in altri fini che quello prettamente utilitaristico correlato alla riparazione: né la necessità di scongiurare successive domande cautelari fondate sui medesimi presupposti, né i possibili risvolti sul procedimento principale di una pronuncia sulla carenza dei gravi indizi hanno infatti avallato letture più ampie sulla persistenza dell’interesse all’impugnazione.

Inoltre, non sembra essere peregrina l’ipotesi che il pubblico ministero possa impugnare il provvedimento di revoca e ottenere il ripristino della misura in sede di appello: a quel punto la difesa, la cui impugnazione principale sul provvedimento originario è stata dichiarata inammissibile per effetto dell’intervenuta revoca, perderebbe ogni chance di interlocuzione di merito e potrebbe ricorrere solo in sede di legittimità; e nemmeno sembra potersi escludere l’eventualità che, intervenuta la revoca della misura, impregiudicata la decisione sulla legittimità delle condizioni di applicazione, il pubblico ministero possa chiedere ed ottenere l’adozione di un nuovo provvedimento cautelare fondato sui medesimi presupposti di quello revocato.

A quest’ultimo proposito, il riconoscimento dell’efficacia preclusiva della decisione sull’impugnazione, solo tratteggiato dalle Sezioni unite nella pronuncia in commento, dovrebbe essere ritenuto oggetto di un interesse qualificato, quantomeno perché connotato da profili di utilità processuale.

 

7. Come detto, nel contesto del processo penale agli enti è la peculiarità introdotta con il meccanismo riparatorio-premiale dell’art. 49 d.lgs. 231/01 a legittimare una lettura meno rigorosa di quella tradizionale. Qui, il concetto di interesse assume una duplice rilevanza: da un lato esso permane in relazione alla verifica dell’originaria legittimità della misura interdittiva e, dall’altro lato, esso sorregge la necessità di valutare se dall’affermazione della carenza dei presupposti applicativi possa derivare il titolo per la restituzione di quanto corrisposto come ravvedimento operoso.

Sono dunque i «plurimi effetti sostanziali» che discendono dallo svolgimento delle condotte riparatorie da parte dell’ente a fondare il perdurante interesse all’impugnazione: per le Sezioni unite, alla dichiarazione di insussistenza originaria dei presupposti applicativi, si accompagna come conseguenza la riconsegna delle somme messe a disposizione dalla società per la realizzazione delle condotte riparatorie previste dall’art. 17 del decreto[11], nonché, in ipotesi, la possibilità di retrocedere rispetto al modello di organizzazione e gestione adottato.

Valutazioni analoghe, argomenta la Corte, devono essere svolte in ordine «alla rimozione di ulteriori conseguenze dannose derivanti per la società dall’applicazione della misura», richiamando la comunicazione del provvedimento applicativo di misure cautelari interdittive all’autorità di controllo o di vigilanza ai sensi dell’art. 84 del decreto.

Quest’ultimo aspetto merita un’annotazione: siamo ben oltre il riconoscimento della persistenza dell’interesse all’impugnazione per ottenere la restituzione di quanto eventualmente versato ex art. 49. Infatti, la comunicazione all’autorità di controllo o vigilanza è una conseguenza immediata dell’adozione della misura cautelare con funzione di pubblicità-notizia: in quest’ottica, la natura del tornaconto ottenibile con l’impugnazione muta, non essendo più indirizzata esclusivamente al conseguimento di un effetto pratico, quale la restituzione, ma potendosi individuare anche nella volontà di evitare i pregiudizi di carattere extraprocessuale che una misura cautelare illegittima può arrecare, come quello reputazionale[12].

 

8. Nel caso in cui la revoca sia determinata dall’applicazione dell’art. 49 d.lgs. 231/01, le conseguenze sostanziali derivate dalle condotte riparatorie svolte dall’ente determinano la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante alla decisione in sede di impugnazione cautelare. Dunque, la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, che in questa specifica ipotesi sottintende una delicata valutazione da parte del giudice, non può essere pronunciata de plano, ma deve essere soggetta al contraddittorio delle parti.

Pur facendo salvi gli schemi procedimentali semplificati che in linea di principio non si pongono in contrasto con la garanzia del contraddittorio di cui all’art. 111, comma 2, Cost., le Sezioni unite escludono che vi si possa ricorrere nello specifico ambito oggetto di trattazione[13].

Si è visto, infatti, che un’eventuale dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse implica lo svolgimento di una serie di considerazioni «di natura ampiamente discrezionale», in ordine alla restituzione della cauzione e delle somme versate dall’ente per ottenere la revoca della misura, che escludono l’operatività di forme processuali semplificate.

Del resto, come in fase di adozione della misura cautelare è garantito all’ente un contraddittorio anticipato, così in fase di impugnazione deve essere assicurata un’occasione processuale adeguata – nelle forme dell’udienza camerale – per consentire alla società di argomentare in ordine all’attualità dell’interesse e ottenere una pronuncia sulla legittimità del provvedimento cautelare applicato.

 

9. La sentenza in commento si sofferma sul funzionamento di un meccanismo peculiare del processo all’ente che è la sospensione con revoca della misura di cui all’art. 49 d.lgs. 231/01; suo tramite si offre all’ente l’appetibile opportunità di estinguere la misura cautelare interdittiva, chiedendogli in contropartita lo svolgimento di condotte riparatorie “al buio”, ossia prima dell’accertamento dei fatti.

Le Sezioni unite sembrano individuare nella permanenza dell’interesse all’impugnazione del provvedimento revocato una “compensazione” dinanzi agli evidenti dubbi di compatibilità con il canone costituzionale dell’art. 27, comma 2, dell’istituto. La possibilità di ottenere una decisione sulla legittimità originaria della misura, infatti, garantisce all’ente il diritto di retrocedere rispetto alle condotte riparatorie svolte.

Oltre alla portata della pronuncia nell’ambito del processo penale all’ente, nello sviluppare il proprio ragionamento, le Sezioni unite hanno esposto argomentazioni dalle quali appare possibile distillare principi che, invece, sembrano possedere una valenza universale, comune agli imputati persona giuridica o fisica.

Ci si riferisce, innanzitutto, alla valorizzazione dell’efficacia preclusiva della decisione sull’impugnazione cautelare rispetto a possibili contro-iniziative del pubblico ministero: la possibilità di una nuova domanda cautelare, qui solo adombrata dalle Sezioni unite con riferimento all’ente che non perpetua i comportamenti ritenuti virtuosi, non pare poter essere trascurata nei confronti della persona fisica.

In secondo luogo, si pensi alla considerazione secondo cui anche il perseguimento di utilità di natura extraprocessuale può essere tenuto in considerazione nella valutazione sulla sussistenza dell’interesse ad impugnare un provvedimento cautelare revocato: esigenze di tutela reputazionale, come quelle che soggiacciono all’istituto di cui all’art. 84 d.lgs. 231/2001, richiamato dalla Suprema Corte, non paiono porsi in modo diverso ove si tratti di un imputato persona fisica.

Infine, in un’epoca in cui, in materia di impugnazioni, si assiste ad una significativa tendenza all’irrigidimento dei filtri in ingresso, in un’ottica di contenimento più o meno esplicito degli strumenti di controllo, il riconoscimento ad opera della sentenza in commento di una più ampia concezione dell’interesse ad impugnare, sebbene nel circoscritto ambito del processo alle società, contribuisce a riaffermare il diritto di impugnazione come corollario del diritto di difesa.

 

 


[1] Cass., sez. VI, ord. 19 gennaio 2018, n. 26302, pres. Fidelbo, rel. De Amicis. Per un approfondimento sull’ordinanza di rimessione si rinvia al commento in questa Rivista (fasc. 7-8/2018, p. 182 ss.) di V. Gramuglia, Il principio del contraddittorio nel procedimento all’ente. Rimessa alle sezioni unite l’interpretazione dell’art. 127, comma 9, c.p.p.

[2] La norma è stata introdotta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 e l’espressione «senza formalità di procedura» allude proprio ad una decisione assunta con modalità de plano, ossia senza alcuna forma di contraddittorio. Sul punto cfr. L. Marafioti, R. Del Coco, Le eterogenee incursioni nel ricorso per cassazione, in La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, a cura di M. Bargis, H. Belluta, Giappichelli, 2018, p. 98; nonché L. Ludovici, Il giudizio in Cassazione dopo la c.d. Riforma Orlando, in Le recenti riforme in materia penale, a cura di G. Baccari, C. Bonzano, K. La Regina, E. Mancuso, Cedam, 2018, 436.

[3] Quella dell’art. 47, comma 2, d.lgs. 231/01 è una disciplina «fortemente innovativa» frutto di una «apprezzabile scelta legislativa» secondo M. Ceresa-Gastaldo, Procedura penale delle società, II ed., Giappichelli, 2017, p. 128.

[4] Così, Relazione al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, § 17.

[5] Segnala la funzione incentivante in linea con gli intenti specialpreventivi del decreto A. Presutti, sub art. 49, in La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al D. legisl. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di A. Presutti, A. Bernasconi, C. Fiorio, Cedam, 2008, p. 434. Secondo P. Moscarini, sub art. 49, in Enti e responsabilità da reato, a cura di A. Cadoppi, G. Garuti, P. Veneziani, Utet, 2010, p. 607, la norma in questione «connotata da “equità empirica” e sano pragmatismo» difficilmente si sottrae a delle perplessità in rapporto alla presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2, Cost.

[6] Nel proprio ricorso, l’ente aveva fatto riferimento al precedente giurisprudenziale con cui la Suprema Corte aveva dichiarato la persistenza dell’interesse all’impugnazione di un’ordinanza applicativa di una misura cautelare interdittiva revocata nelle more del procedimento. Si tratta di Cass., sez. VI, 23 giugno 2006, La Fiorita, in Cass. pen., 2007, p. 84, ma il richiamo è considerato inconferente dalle sezioni unite: in quell’occasione, infatti, l’attualità e la concretezza dell’interesse alla decisione sulla legittimità della misura interdittiva erano conferite al ricorso dalla particolare circostanza che la revoca concessa era stata l’effetto dell’adesione dell’ente all’ordine del g.i.p. di adottare un adeguato modello organizzativo. Un modus procedendi censurato con l’annullamento dell’ordinanza impugnata perché del tutto estraneo al sistema delineato dal d.lgs. 231/01, che non prevede alcuna imposizione coattiva dei modelli organizzativi.

[7] Lo riconoscono le Sezioni unite in Cass., sez. un., 27 ottobre 2011, Marinaj, in C.E.D. Cass., 251693, affermando che la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza «a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti». Sul punto v. E. Turco, L’impugnazione inammissibile. Uno studio introduttivo, Cedam, 2012, p. 131.

[8] Cass., Sez. un., 12 ottobre 1993, Durante, in Cass. pen., 1994, p. 283, con nota di M. Vessichelli, Sulla permanenza dell’interesse al riesame nel caso di sopravvenuta revoca della misura coercitiva; Cass., sez. un., 12 ottobre 1993, Stablum, in Cass. pen., 1994, p. 2645, con nota di M.G. Coppetta, Riflessioni sulla sussistenza dell’interesse ad impugnare, per fini riparatori, la misura cautelare revocata. In generale, in tema di interesse ad impugnare, cfr. S. Carnevale, L’interesse ad impugnare nel processo penale, Giappichelli, 2013. In tema e oggetto di richiamo da parte delle sezioni unite nella pronuncia in commento v. anche: Cass., sez. un., 13 luglio 1998, Gallieri, in C.E.D. Cass., n. 211194; Cass., sez. un., 28 marzo 2006, Prisco, in C.E.D. Cass., n. 234268.

[9] In particolare, con riguardo alle misure cautelari interdittive, v. Cass., 10 dicembre 2010, Valentini, in C.E.D. Cass., n. 249916; Cass., 23 febbraio 1999, Tacchini, in C.E.D. Cass., n. 213915. Una posizione giurisprudenziale minoritaria, di cui occorre dare conto, riconosce l’interesse ad impugnare i provvedimenti interdittivi: Cass., 4 novembre 1997, Spadafora, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1525. Sulla persistenza dell’interesse all’impugnazione delle misure cautelari reali, invece, cfr. Cass., sez. un., 24 aprile 2008, Tchmil, in C.E.D. Cass., n. 239397, che ha affermato la sopravvenuta carenza di interesse, dunque l’inammissibilità dell’impugnazione, una volta che la cosa sequestrata sia stata restituita.

[10] M. Ceresa-Gastaldo, Sulla persistenza dell’interesse all’impugnazione dei provvedimenti cautelari revocati, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, p. 1619 osserva che «il provvedimento ex art. 299, comma 1, c.p.p. non implica affatto la necessaria e completa smentita dell’atto revocato, ben potendo essere disposto con valutazione ex nunc che non interloquisce, se non parzialmente, sull’originario rapporto cautelare».

[11] Il diritto alla restituzione si riferisce a quanto versato dall’ente a titolo di risarcimento del danno da reato e a titolo di profitto confiscabile e non anche, come si legge in un passaggio della decisione in commento, alla cauzione. La restituzione della somma prestata in garanzia come condizione per la sospensione della misura, infatti, è un effetto automatico della revoca di cui all’art. 49, comma 4, d.lgs. 231/01.

[12] Viene quindi da considerare che, se un simile interesse extraprocessuale è ritenuto idoneo a sorreggere l’impugnazione cautelare dell’ente avverso un provvedimento revocato, non si vede per qual motivo un’analoga apertura interpretativa non dovrebbe affermarsi anche nell’ambito del processo penale alla persona fisica, sede in cui, come noto, la Cassazione ne ha sempre negato la rilevanza.

[13] Così Cass., sez. un., 11 aprile 2006, De Pascalis, in Cass. pen., 2006, p. 2369. Anche la riforma dell’art. 610 c.p.p., con l’aggiunta del comma 5-bis, confermerebbe, secondo la pronuncia in commento, la compatibilità degli schemi processuali semplificati con la garanzia costituzionale del contraddittorio.