ISSN 2039-1676


23 gennaio 2019 |

La Cassazione civile esclude che le misure alternative al trattenimento nel CPR siano applicabili per mere ragioni di pubblica sicurezza

Cass. civ., Sez. 1, sent. 27 giugno 2018 (dep. 30 ottobre 2018), n. 27692, Pres. Genovese, Est. Acierno

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1. Con la sentenza in commento la Cassazione civile ha dichiarato illegittimo il provvedimento del Tribunale di Torino che aveva convalidato le misure coercitive alternative al trattenimento in un Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR), disposte dal questore ai sensi dell’art. 14 co. 1-bis del Testo Unico immigrazione[1] nei confronti di un cittadino straniero in funzione di prevenzione e tutela della pubblica sicurezza.

I giudici di legittimità – come vedremo nel prosieguo – hanno individuato i vizi del provvedimento impugnato tanto nel mancato rispetto delle condizioni specificamente previste dall’art. 14 T.U. imm. per l’applicazione delle misure alternative in questione – stante, nel caso concreto, l’inesistenza di un efficace provvedimento espulsivo – quanto nei generali parametri di legittimità di misure coercitive personali fissati dall’art. 13 della Costituzione.

 

2. I fatti all’origine del ricorso riguardano un cittadino ceceno, al quale la Commissione Nazionale per il diritto d’asilo aveva revocato la protezione sussidiaria precedentemente riconosciuta[2], avendo ravvisato fondati motivi per ritenere che costituisse un pericolo per la sicurezza dello Stato[3]. A seguito della revoca del titolo di soggiorno veniva disposta l’espulsione del ricorrente ai sensi dell’art. 13 co. 2 lett. c) del d.lgs. 286/1998, preceduta dal trattenimento – regolarmente convalidato dal competente Giudice di pace – presso il CPR.

Avverso il provvedimento espulsivo, il ricorrente presentava alla Corte europea dei diritti dell’uomo domanda di misura provvisoria ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte, al fine di sospendere l’esecuzione del rimpatrio.

La Corte EDU, accolta la richiesta, ordinava al Governo italiano di non eseguire l’espulsione del cittadino ceceno e la Sezione specializzata del Tribunale di Torino sospendeva l’efficacia esecutiva del decreto di revoca della protezione sussidiaria [4].

 

3. Nel frattempo il Tribunale di Torino accoglieva la domanda di riesame della misura e il trattenimento del cittadino ceceno presso CPR veniva così annullato; al suo posto, però, il questore di Torino disponeva l’applicazione di misure alternative al trattenimento ex art. 14 co. 1-bis T.U. imm.[5].

Tali misure alternative venivano prontamente convalidate dal Tribunale di Torino il quale motivava la propria decisione affermando che la sospensione dell’efficacia del provvedimento di revoca della protezione sussidiaria non fosse idonea a determinare l’inesistenza del provvedimento espulsivo, potendo, quindi, essere legittimamente disposte le misure alternative, di per se stesse non contrastanti con il principio di non refoulement.

Adito nuovamente dal difensore di Khusainov, il Tribunale di Torino, rigettava l’istanza di revoca di tali misure proposta in seguito alla loro convalida. In questo caso il Tribunale argomentava circa la legittimità del proprio provvedimento ritenendo lo stesso giustificato da “esigenze primarie di pubblica sicurezza” (a prescindere dalla loro finalizzazione a una successiva espulsione) e non ravvisando alcuna incompatibilità tra il provvedimento di espulsione amministrativa e la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, essendo, anzi, ad entrambe comune la finalità di pubblica sicurezza.

 

5. Avverso tale decisione venivano proposti due ricorsi in Cassazione, volti nella sostanza a fare emergere la duplice violazione dell’art. 14 co. 1 e 1-bis del d.lgs. 286/1998. Con la pronuncia qui in esame, la Suprema Corte ha riunito ed accolto i ricorsi. 

I giudici di legittimità hanno anzitutto ricordato che, così come il trattenimento, anche le misure alternative ex art. 14 co. 1-bis riguardano la fase dell’esecuzione coattiva dell’espulsione amministrativa e hanno dunque la finalità di garantire – in un’ottica di graduazione della limitazione della libertà personale – l’attuazione dell’ordine di allontanamento. La loro convalida, pertanto, richiede necessariamente il previo accertamento dell’esistenza di un valido ed efficace provvedimento di espulsione.

Al riguardo, la Corte ha ricordato come, nel caso di specie, la Corte Edu avesse disposto una misura sospensiva provvisoria ex art. 39, in base al principio del non refoulement, determinando l’inefficacia del decreto di espulsione, e dunque facendo venire meno il presupposto legittimante di ogni successiva misura attuativa[6].  

A nulla rileva – afferma la Cassazione – la circostanza che l’Italia formalmente separi la fase che si conclude con l’espulsione da quella di attuazione di tale provvedimento poiché dette fasi sono “eziologicamente collegate”: la fase di attuazione consegue solo ed unicamente a un provvedimento dotato di efficacia esecutiva.

Sul punto, la Cassazione rileva che la misura provvisoria della Corte EDU ha inciso proprio sull’efficacia del provvedimento, sospendendola e causando la “caducazione derivativa di tutte le misure di esecuzione del provvedimento espulsivo, non solo di quelle caratterizzate dalla privazione integrale della libertà personale ma anche di quelle a contenuto restrittivo inferiore in quanto anch’esse sono finalizzate esclusivamente all’allontanamento […] e trovano giustificazione in un provvedimento presupposto efficace.  

Ne consegue – argomenta la Corte – che l’applicazione delle medesime misure coercitive non avrebbe potuto essere giustificata, come invece è avvenuto, unicamente da una finalità di prevenzione e di pubblica sicurezza poiché qualsiasi restrizione della libertà personale deve fondarsi sugli specifici requisiti legali che la giustificano, così come stabilito nell’art. 13 Cost.”.

Anche l’applicazione delle misure alternative al trattenimento – pur incidenti più lievemente sulla libertà personale dello straniero rispetto al trattenimento – deve, dunque, essere ricondotta nell’alveo delle garanzie discendenti dall’art. 13 della Costituzione, in base al quale, come appena visto, qualsiasi restrizione della libertà personale – e, dunque, non solo quelle delineate dal diritto penale – deve essere ancorata a precise limitazioni legislative che ne delimitino il contenuto e l’applicabilità.

Partendo da queste premesse, è conseguenza logica per la Cassazione che “non può essere convalidato in sede giurisdizionale un provvedimento limitativo della libertà personale fuori del paradigma legale dei requisiti specifici che ne giustificano l’adozione, in funzione di un’esigenza immanente di prevenzione sicurezza”. 

Da qui l’illegittimità della convalida di un provvedimento limitativo della libertà personale – quale quello disposto ex art. 14 co. 1-bis T.U. Imm. – adottato non solo senza rispetto dei requisiti specifici che ne giustificano l’adozione ma altresì al fine di rispondere a un’esigenza allo stesso estranea, quale la prevenzione e la pubblica sicurezza.

Questa finalità – pur di per sé legittima – deve essere infatti attuata mediante le apposite misure di prevenzione personali previste dall’art. 6 del d.lgs. 159/2011 che, tuttavia, pur potendo avere un contenuto analogo alle misure del 14 co. 1-bis, rientrano nella competenza del giudice penale, che ne può a sua volta disporre l’applicazione solo all’esito di un procedimento nel contraddittorio delle parti volto ad accertare la sussistenza degli specifici requisiti contenuti nell’art. 1 del medesimo decreto legislativo. Ricorda, infatti, la Suprema Corte che “l’astratta compatibilità di tali ultime misure con l’espulsione amministrativa non elimina l’esigenza che sia integralmente rispettato, sia sotto il profilo dell’autorità giurisdizionale competente, sia sotto il profilo delle garanzie processuali, sia in particolare sotto il profilo del rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge, il principio di legalità che ne giustifica la legittima imposizione”.

 

7. Ancora un punto di questa sentenza merita di essere ricordato. Successivamente alla presentazione dei due ricorsi, nelle more della decisione della Corte, il Tribunale di Torino ha accolto il ricorso proposto da Khusainov avverso il provvedimento di revoca della protezione sussidiaria, escludendo la pericolosità per la sicurezza dello Stato e così confermando la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento (o, meglio, mantenimento) di tale protezione. È stato quindi annullato, con ordinanza del Giudice di pace, il decreto di espulsione e la Corte EDU ha disposto la cancellazione della causa dal ruolo.

A tal proposito il procuratore generale aveva escluso, alla luce di tale sviluppo dei fatti, il permanere dell’interesse a ricorrere in capo al cittadino ceceno.  La Suprema Corte ha ritenuto, invece, che l’interesse a ricorrere e, dunque, ad un accertamento della legittimità del provvedimento che ha convalidato il trattenimento amministrativo o altre misure di esecuzione coattiva dell’espulsione, si conservi anche dopo la definitiva cessazione dell’efficacia del provvedimento espulsivo.

Il perdurare di tale interesse, infatti, è strettamente collegato sia alla configurabilità del diritto al risarcimento del danno dovuto all’illegittima privazione della libertà, sia all’interesse a eliminare un provvedimento che, pur se inefficace, abbia determinato una soluzione di continuità nel riconoscimento dell’esistenza delle condizioni di legittimo soggiorno in Italia[7].

Anche nel caso in esame, allora afferma la Cassazione, “pur non trattandosi di privazione integrale della libertà personale, le misure poste a carico del ricorrente costituiscono una restrizione di essa sotto il profilo della libertà di movimento e circolazione interna” e, per tale ragione, l’interesse a ricorrere dello straniero permane.

 

* * *

 

8. Forse proprio in quanto pronunciata dalla Cassazione civile, ossia dal giudice dei diritti soggettivi per eccellenza, la sentenza in esame appare particolarmente significativa per riflettere sullo statuto delle garanzie che circondano le misure coercitive previste dall’ordinamento nei confronti dello straniero privo di regolari documenti per l’ingresso e la residenza in Italia.

Viene soprattutto in rilievo, in quest’ottica, il richiamo da parte dei giudici di legittimità all’art. 13 Cost., ed alla discendente necessità che ogni misura incidente sulla libertà personale, a prescindere dalla sua natura penale o amministrativa, sia ancorata a presupposti chiaramente definiti dalla legge. Principio che potrebbe apparire scontato, ma che a ben vedere troppo spesso rischia di essere smarrito sul labile confine tra diritto penale e diritto dell’immigrazione, in ragione dell’improprio utilizzo del secondo per il raggiungimento di finalità tipiche del primo, e dell’assenza di equiparabili garanzie poste a presidio di ogni privazione della libertà personale.

Pur essendo strutturalmente privi di tali garanzie, gli strumenti di diritto dell’immigrazione sempre più frequentemente incidono sulla libertà personale dello straniero – si pensi alle nuove ipotesi di trattenimento amministrativo introdotte negli ultimi anni dalla decretazione d’urgenza – e assumono contenuti sempre più securitari, asseritamente giustificati da esigenze emergenziali di gestione dell’ordine pubblico. In quest’ottica, sentenze come quella in esame meritano particolare attenzione in ragione della loro capacità di ricondurre nei binari dei principi costituzionali misure e provvedimenti altrimenti destinati a comprimere in maniera inaccettabile la sfera delle garanzie spettanti allo straniero.

 

 


[1] L’art. 14 co. 1-bis T.U. imm. stabilisce che “il questore, in luogo del trattenimento di cui al comma 1, può disporre una o più delle seguenti misure: a) consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza; b) obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere agevolmente rintracciato; c) obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente”. La pronuncia in esame non specifica quali misure fossero state concretamente adottate nel confronti del ricorrente.

[2] Lo status di titolare di protezione sussidiaria è stato introdotto in Italia dal d.lgs. n. 251/2007, emanato in attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale. Ai sensi dell’art. 2 lett. g) del decreto è ammissibile alla protezione sussidiaria il cittadino di un paese terzo (o apolide) che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato (vale a dire requisiti posti dalla cd. clausola di inclusione prevista dalla Convenzione del 1951) ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno. Una volta accertata la sussistenza del rischio di grave danno che il richiedente subirebbe in caso di rimpatrio, lo status viene riconosciuto con una decisione della Commissione territoriale competente per territorio e lo straniero ottiene così il diritto a un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria.  Tale status, lungi dall’essere definitivo, è periodicamente rivisto dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo che può decretarne la cessazione, in una serie di ipotesi elencate all’art. 15 d.lgs. n. 251/2007 oppure la revoca, nelle ipotesi previste dall’art. 18 del medesimo decreto qualora, ad esempio, sussistano fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato (comma 1 lett. d).

[3] Cfr. art. 15 d.lgs. n. 251/2007: “1. La cessazione dello status di protezione sussidiaria è dichiarata su base individuale quando le circostanze che hanno indotto al riconoscimento sono venute meno o sono mutate in misura tale che la protezione non è più necessaria. 2. Per produrre gli effetti di cui al comma 1, è necessario che le mutate circostanze abbiano natura così significativa e non temporanea che la persona ammessa al beneficio della protezione sussidiaria non sia più esposta al rischio effettivo di danno grave di cui all'articolo 14 e non devono sussistere gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine. 2-bis. La disposizione di cui al comma 1 non si applica quando il titolare di protezione sussidiaria può addurre motivi imperativi derivanti da precedenti persecuzioni tali da rifiutare di avvalersi della protezione del Paese di cui ha la cittadinanza ovvero, se si tratta di apolide, del Paese nel quale aveva la dimora abituale. 2-ter. Ai fini di cui al comma 2, è rilevante ogni rientro nel Paese di origine, ove non giustificato da gravi e comprovati motivi (Comma aggiunto dall'articolo 8, comma 2, del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla Legge 1° dicembre 2018, n. 132).

[4] Per un’accurata analisi del procedimento si rimanda a G. Savio, Il trattenimento amministrativo dello straniero nei centri per i rimpatri non può avere finalità di prevenzione e di ordine pubblico, pena la sua radicale illegittimità, in Questione Giustizia, 6 dicembre 2018.

[5] L’art. 14 co. 1-bis recita: “Nei casi in cui lo straniero è in possesso di passaporto o altro documento equipollente in corso di validità e l'espulsione non è stata disposta ai sensi dell'articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del presente testo unico o ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 , il questore, in luogo del trattenimento di cui al comma 1, può disporre una o più delle seguenti misure: a) consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza; b) obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere agevolmente rintracciato; c) obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente”.

[6] Le misure provvisorie che la Corte EDU può adottare in virtù dell’art. 39 co. 1 del suo Regolamento, proprio perché vengono adottate al fine di scongiurare una lesione imminente ed irreparabile di un diritto fondamentale tutelato dalla Convenzione, sono vincolanti per gli Stati (cfr. Grande Camera, 4.2.2005, Mamatkulov e Askerov c. Turchia, §§ 92-129). La loro inosservanza integra, pertanto, una violazione dell’art. 34 della Convenzione, costituendo un ostacolo all’effettivo esercizio del proprio diritto. 

[7] Si veda la sentenza n. 17407/2014 riferita al caso di un illegittimo decreto di trattenimento presso un CIE.