ISSN 2039-1676


29 gennaio 2019 |

La Corte costituzionale ritrasferisce al tribunale la competenza sulle lesioni volontarie lievissime in ambiente familiare

Corte Cost., sent. 7 novembre 2018 (dep. 14 dicembre 2018) n. 236, Pres. Lattanzi, Red. Amoroso

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1. Con la sentenza in commento la Corte Costituzionale ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice per le indagini preliminari di Teramo[1], in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, riguardo all’art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 274/2000 (come modificato dall’art. 2, comma 4 bis, del d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella l. 15 ottobre 2013. n. 119), nella parte in cui per il delitto di cui all’art. 582 c.p.[2] – limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte e con specifico riferimento all’ipotesi aggravata di cui all’art. 577 comma 1, n 1 c.p.[3]–, non prevede l’esclusione della competenza del giudice di pace anche per i fatti commessi contro il discendente (non adottivo)».

Il rimettente aveva sostenuto che la norma in questione, non prevedendo l’esclusione della competenza per materia del giudice di pace per il reato di lesioni personali lievissime (art. 582 co. 2 c.p.p.) commesso avverso il figlio naturale, contrasta con l’art. 3 Cost., sia per violazione del principio di uguaglianza che per irragionevolezza intrinseca. Infatti, sulla base appunto della norma censurata, la competenza è assegnata al giudice di pace se il reato ex art. 582 co. 2 c.p. è commesso contro il figlio naturale mentre, se lo stesso è compiuto in danno del figlio adottivo, la competenza è del tribunale ordinario.

Questa disparità di trattamento si proietta anche in ambito cautelare, in quanto, se il reato de quo è commesso contro il figlio adottivo, l’art. 282 bis comma 6 c.p.p. consente l’applicazione della misura dell’allontanamento dalla casa familiare (anche oltre i limiti della pena irrogabile ex art. 280 c.p.p.); di contro, se il reato è commesso avverso il figlio naturale, essendo competente il giudice di pace, l’art. 2, comma 1 lett. c), impedisce allo stesso di disporre misure cautelari.

Il giudice rimettente aveva individuato un altro profilo di illegittimità costituzionale – questa volta per violazione dell’art. 24 Cost. – in quanto, se il reato è commesso in danno del figlio naturale, all’imputato non sarà applicabile la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p., disposizione a cui il giudice di pace, diversamente dal tribunale ordinario, non può dare applicazione[4].

Il tema emergeva come determinante nel giudizio a quo. Infatti, nel procedimento principale – nonostante il pubblico ministero avesse richiesto l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato – il giudice aveva fissato l’udienza camerale (ex art. 409 co. 2 c.p.p.) al fine di verificare in contradditorio la possibilità di emettere un provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto (ex artt. 131 bis c.p. e 411 comma 1 bis c.p.p.). In detta udienza il difensore dell’indagato aveva chiesto in via subordinata di disporre l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ma il rimettente si era trovato nell’impossibilità di trattare la questione in quanto la norma censurata radicava la competenza in capo al giudice di pace. Egli dunque non avrebbe potuto far altro che dichiararsi incompetente per materia ai sensi dell’art. 22 c.p.p.

 

2. La Consulta, nel motivare il proprio deliberato, anzitutto ripercorre il quadro normativo che viene in rilievo per la soluzione della questione di legittimità costituzionale.

Fino al d.l. n. 93 del 2013 le lesioni lievissime compiute contro il figlio naturale o adottivo, se punite a querela, erano di competenza del giudice di pace. La disparità di trattamento si è determinata con la legge di conversione di detto decreto (l. n. 119 del 2013). Nonostante la ratio della novella fosse quella di assicurare una tutela forte anche per i fatti prodromici (quali le lesioni lievissime), che costituiscono la “spia” di condotte ben più gravi di violenza e prevaricazione, il legislatore – modificando l’art. 4 comma 1 lett. a) del d.lgs. 274 del 2000 – ha sottratto alla competenza del giudice di pace soltanto il reato di lesioni lievissime commesso contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, secondo comma c.p. (tra i quali è ricompreso il figlio adottivo), residuando così nella competenza del giudice onorario il reato commesso contro i soggetti di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577, tra  i quali risulta il figlio naturale.

Questa «regola di competenza differenziata» consente alla Corte costituzionale di affermare la violazione del principio di eguaglianza, «non essendo giustificato il diverso trattamento processuale riservato al reato di lesioni volontarie secondo che il fatto sia commesso rispettivamente in danno del figlio naturale o del figlio adottivo, stante lo stesso stato di figlio nell’uno e nell’altro caso e quindi il carattere discriminatorio della differenziazione. D’altra parte, non si rinviene alcuna ragione, quale che sia, della mancata inclusione del reato di lesioni volontarie commesso in danno del figlio naturale tra quelli che, già di competenza del giudice di pace, sono stati trasferiti alla competenza del tribunale ordinario per innalzare il livello di contrasto a tali episodi di violenza domestica, con conseguente manifesta irragionevolezza della disciplina differenziata» (§ 6 cons. in dir.).

Quanto alla violazione del principio di uguaglianza la Corte, sul presupposto della piena assimilazione sia civilistica (cfr. Corte cost. n. 286 del 2016) che penalistica (ad eccezione del reato di omicidio) tra lo status di figlio naturale e quello di figlio adottivo, accerta «il carattere discriminatorio della diversa regola processuale di competenza, in esame, prevista per il figlio naturale rispetto a quella stabilita per il figlio adottivo (…)» (§ 6.1. cons. in dir.).

In secondo luogo, la norma è costituzionalmente illegittima anche sotto il profilo della ragionevolezza: la Consulta, riconosciuta la discrezionalità del legislatore nel fissare le regole di competenza, precisa come questa trovi un limite nel canone di ragionevolezza, la quale deve essere sindacata attraverso il principio di proporzionalità. Infatti, «il rispetto del canone di ragionevolezza “richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (sentenza n. 1 del 2014)» (6.2. cons. in dir.).

Da questo angolo visuale, sebbene l’ordinamento, da un lato, ammetta «discutibilmente» un più severo trattamento sanzionatorio dell’omicidio del figlio naturale rispetto quello del figlio adottivo (cfr. Cass., sent. n 9427 del 2018), in forza dell’elemento della consanguineità, dall’altro, con un ribaltamento contradditorio del disvalore della condotta ed «in mancanza di alcuna opposta plausibile ratio», valuta più severamente il reato di lesioni compiute in danno del figlio adottivo rispetto quelle compiute contro il figlio naturale (cfr. § 6.3 cons. in diritto).

Ciò porta la Corte ad affermare «la manifesta irragionevolezza della disposizione censurata che, invertendo l’apprezzamento di disvalore delle condotte, ancor oggi perdurante nel sistema, utilizza non di meno il richiamo proprio dell’art. 577, cui è sottesa una ratio opposta della differenziazione tra “discendente” e “figlio adottivo”. Quindi, il trattamento differenziato riservato al figlio naturale rispetto a quello del figlio adottivo viola anche il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.)» (§ 6.3 cons. in dir.).

Su di un piano del tutto astratto, la disciplina in questione avrebbe potuto essere ricondotta ad una piena compatibilità con il principio di uguaglianza (e ad una maggior ragionevolezza) tanto riconducendo, come in origine, la competenza per il reato de quo, sia che si tratti di figlio adottivo, sia che si tratti di figlio naturale, al giudice di pace, tanto trasferendo anche il reato compiuto in danno del figlio naturale alla competenza del tribunale ordinario.

Il giudice a quo, nondimeno, ha opportunamente evitato di proporre una questione ancipite, indicando in modo univoco la soluzione proposta per il ripristino della legalità costituzionale, ed individuandola nella seconda delle opzioni delineate (soluzione del resto congrua rispetto alla competenza propria dello stesso giudice rimettente).

E la Corte, dal canto proprio, ha osservato: «la parificazione di disciplina non può realizzarsi altrimenti che “in alto”, ossia estendendo (…) come nell’ipotesi di lesioni lievissime in danno del figlio adottivo la deroga alla competenza del tribunale ordinario, in linea con il più elevato livello di contrasto della violenza domestica, con la conseguente possibilità, in particolare, per il giudice di applicare, nell’uno e nell’altro caso, la misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.), adottabile anche in via d’urgenza (art. 384-bis cod. proc. pen.)» (§7 cons. in dir.).

 

3. Una soluzione armonica con la ratio dell’intervento legislativo, come si vede, ma foriera di effetti penali sostanziali in malam partem poiché, non trovando più applicazione le disposizioni del Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000 quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace, che rappresentano in genere un trattamento più favorevole in deroga a quello ordinario, «il regime sostanziale delle pene per i fatti di lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio naturale risulta essere quello ordinario, come tale più rigido di quello derogatorio in bonam partem, applicabile allorché operava la competenza del giudice di pace» (§8 cons. in dir.).

La Consulta, richiamando la nota sentenza n. 394 del 2006, per “giustificare” la propria decisione, afferma che «l’effetto in malam partem per l’imputato (o indagato) derivante dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale, deve ritenersi ammissibile allorché si configuri come una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale» (§8 cons. in dir.).

Stante però il principio di irretroattività degli effetti in malam partem – il quale prevale sull’efficacia ex tunc tipica delle sentenze della Corte costituzionale – l’indagato, se verrà provata la sua colpevolezza, sarà soggetto all’apparato sanzionatorio previsto per i reati di competenza del giudice di pace.  Ad avviso dei Giudici delle leggi, gli effetti negativi sono, altresì, bilanciati dalla facoltà del Tribunale ordinario di applicare la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p., la quale, come osservato sopra, esula dai poteri del giudice di pace.

Sulla base di questo iter motivazionale la Corte conclude che «la disposizione censurata va dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non esclude dai delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche quello di lesioni volontarie lievissime, previsto dall’art. 582, secondo comma, cod. pen., per fatti commessi contro l’ascendente o il discendente di cui al numero 1) del primo comma dell’art. 577 cod. pen.» (§9 cons. in dir.).

Da ultimo i Giudici di Palazzo della Consulta, tenuto conto della natura formale del rinvio operato dall’art.  582 c.p. all’art. 577 c.p., rilevano che tale ultima norma, stante la modifica operata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018, porta a considerare più grave l’omicidio del coniuge, anche separato, rispetto a quello del coniuge divorziato. Il diverso disvalore si ripropone nell’omicidio compiuto contro una parte dell’unione civile, ritenendo più grave il reato se l’unione civile è ancora in essere rispetto a quella cessata.

Questa differente dosimetria sanzionatoria, paradossalmente, si ribalta nel caso delle lesioni lievissime: affidando la competenza al giudice di pace se questi reati sono commessi in danno del coniuge, anche separato, o dell’altra parte dell’unione civile in corso, l’ordinamento appresta una tutela «meno energic(a)» per questi soggetti – stante  l’impossibilità per tale giudice di disporre, per esempio, le misure cautelari – rispetto a quella prevista nei confronti del coniuge divorziato, o dell’altra parte dell’unione civile cessata.

Tale disparità di trattamento induce la Corte ad affermare che l’illegittimità costituzionale «della disposizione censurata nella parte in cui non richiama anche i fatti di lesioni volontarie lievissime in danno dei soggetti indicati nel numero 1) dell’art. 577 non può essere limitata soltanto a quelli previsti da tale ultima disposizione nella formulazione vigente al momento dell’ordinanza di rimessione, ma si estende, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, anche a quelli successivamente inclusi, con la tecnica della novellazione della disposizione oggetto di rinvio formale, dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018» (§10 cons. in dir.). Insomma, passano alla competenza del tribunale anche i fatti di lesioni lievissime commessi in danno dell'ascendente o del discendente oppure contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l'altra parte dell'unione civile o contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente.

 

4. La pronuncia, sinteticamente ripercorsa, pone in evidenza la questione degli effetti in malam partem delle sentenze costituzionali, che in materia penale trovano il limite del principio di legalità penale (art. 25 Cost)[5]. Nel caso de quo, stanti i rinvii che le norme processuali fanno a quelle sostanziali, il referente costituzionale è non solo il comma 2 dell’art. 25 (divieto di retroattività delle norme penali sfavorevoli) ma anche il comma 1 (ossia il principio del giudice naturale precostituito per legge).

L’art. 25 comma 2 dispone infatti testualmente che “nessuno può essere punito se non n forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” [6]. Il precipitato codicistico (art. 1 c.p.), benché previgente alla Costituzione, prevede che “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.

Come noto il principio si declina nei quattro corollari (o sotto-principi) di riserva di legge, tassatività e sufficientemente determinatezza della fattispecie penale, irretroattività della legge penale e divieto di analogia in materia penale.

Nel caso che ci interessa  i profili problematici sono sia la riserva di legge sia l’irretroattività: difatti, dalla parificazione “in alto” dei reati di lesioni lievissime, operato non dal legislatore ma dalla Corte, il ventaglio sanzionatorio a disposizione del giudice ordinario verrebbe ad essere applicato ad un reato commesso sotto la vigenza di una norma (processuale) che radicava la competenza repressiva in capo al giudice di pace, il quale avrebbe potuto disporre soltanto pene di più lieve entità.

È in questa prospettiva che si spiega il richiamo della sentenza de qua alla pronuncia n. 394 del 23 novembre 2006[7]. In quest’ultimo caso la Corte, riconosciuta la competenza esclusiva del legislatore in ordine alla selezione «dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili», aveva nondimeno ritenuto che il principio di riserva di legge non osti al sindacato di costituzionalità delle norme penali di favore che stabiliscono per determinate categorie di soggetti un trattamento più favorevole rispetto quello previsto dalla norma generale: diversamente, infatti, residuerebbero delle «zone franche» (…) sottratte al controllo di costituzionalità». In questi ambiti, la Corte non si sostituisce al legislatore introducendo nuove norme o manipolando quelle esistenti: l’effetto in malam partem, «rappresenta, invece, una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria» (§ 6.1 cons. in dir.). Per tale motivo il principio della riserva di legge non è derogato.

In ordine all’irretroattività della legge sfavorevole, nella pronuncia del 2006 la Corte aveva affermato che «(…) è dunque incontroverso che il principio de quo trovi diretto riconoscimento nell’art. 25, secondo comma, Cost. in tutte le sue espressioni: e, cioè, non soltanto con riferimento all’ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale pure la formula costituzionale risulta all’apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto già in precedenza penalmente represso. In questi termini, il principio in parola si connota, altresì, come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali (…) assolutamente inderogabile»[8].

Proprio al fine di rispettare tale ultimo principio, la Corte nella sentenza in commento limita gli effetti temporali della sentenza disponendo che «per i fatti commessi fino al giorno della pubblicazione della presente decisione sulla Gazzetta Ufficiale opera il principio direttamente fondato sull’art. 25, secondo comma, Cost. e che prevale sull’ordinaria efficacia ex tunc della decisione di questa Corte ai sensi dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (…) della non retroattività della disciplina sostanziale che risulti essere peggiorativa per effetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale, talché innanzi al tribunale ordinario competente anche per il reato di lesioni lievissime, di cui all’art. 582, secondo comma, cod. pen., in danno del figlio naturale, l’imputato (o indagato) sarà soggetto all’applicazione della più favorevole disciplina delle sanzioni di cui al Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000, non diversamente da quanto accade nell’ipotesi del tribunale ordinario che si trovi a giudicare di un reato di competenza del giudice di pace (art. 63 del medesimo decreto legislativo)» (§8 cons. in dir.).

Nel caso de quo, bisogna rilevare come le conseguenze in malam partem, sebbene trovino una ulteriore “camera di compensazione” nella possibilità del tribunale di applicare l’art. 131 bis c.p. – facoltà che esorbita, invece, dai poteri del giudice di pace – siano prodotte dalla dichiarazione di incostituzionalità avente ad oggetto una norma non già sostanziale bensì processuale. Ciò porta la Corte a precisare che «l’effetto in malam partem per l’imputato (o indagato) derivante dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale, deve ritenersi ammissibile allorché si configuri come una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale» (§8 cons. in dir.).

 

5. La disposizione in questione inerisce la ripartizione della competenza tra giudice di pace e tribunale ordinario, per cui occorre allargare l’orizzonte dall’analisi, che coinvolge non solo il secondo comma dell’art. 25 Cost. ma anche il primo, concernente il principio del “giudice naturale precostituito per legge[9].

Quest’ultimo costituisce, infatti, il referente costituzionale della distribuzione della competenza tra i vari giudici[10]: l’organo competente a giudicare deve essere infatti individuabile a priori (precostituito) secondo criteri legislativamente fissati, certi ed oggettivi[11].

L’ordinamento italiano, nell’individuazione del giudice competente – diversamente da altri che tendono a privilegiare le ragioni dell’efficienza[12] - opta per l’applicazione del principio di legalità, strumentale a salvaguardare l’imparzialità e l’indipendenza dell’organo giudicante.

La giurisprudenza, sia costituzionale[13] che di legittimità[14], ha rilevato come le deroghe alla competenza siano compatibili con l’art. 25 comma 1 Cost., se il “nuovo” giudice sia individuato mediante criteri generali posti dal legislatore al fine di evitare scelte discrezionali[15].

Difatti, l’art. 25 co. 1 «non contiene, ai fini della determinazione dell'organo competente a giudicare, una esplicita individuazione del punto di riferimento temporale al quale ancorarsi; così che, non solo non è illegittimo, ma è addirittura ragionevole e corretto considerare che tale momento deve coincidere non con quello della commissione del fatto penalmente illecito, ma con il momento dell'avvio del processo, e quindi, nell'ipotesi concreta, con il giorno dell'emissione del decreto di citazione a giudizio innanzi al giudice di pace»[16].

In questa prospettiva, messa in discussione dalla migliore dottrina[17], qualora il processo sia già stato correttamente avviato, più che di deroga al principio del giudice naturale, bisognerebbe intendere il mantenimento della competenza in capo al giudice originario quale applicazione del principio della perpetuatio iurisditionis (mutuato dall’art. 5 c.p.c.)[18].

Applicando i dettami giurisprudenziali al caso di specie, essendo il procedimento ancora nella fase preliminare, una modifica della competenza – effetto, anche se sui generis, prodotto dalla sentenza in commento - sarebbe formalmente idonea ad incidere sullo stesso giudizio a quo. A ciò osta, come rilevato dalla Corte, il principio di irretroattività degli effetti penali sfavorevoli che la dichiarazione di illegittimità della Consulta produce.

Qualche perplessità rimane, invece, in ordine al rispetto dell’altro criterio individuato dalla giurisprudenza citata: difatti deve essere la legge ad indicare criteri generali in grado di modificare la competenza.

A tal riguardo – anche  a voler considerare le sentenze costituzionali di accoglimento, in forza anche della loro efficacia erga omnes, fonti del diritto[19] - potrebbe obiettarsi che una soluzione maggiormente rispettosa del principio di legalità tout court e della discrezionalità del legislatore sarebbe stata quella di riportare le “lancette della competenza” al periodo anteriore l’entrata in vigore della legge 119 del 2013, ossia quando, per espressa previsione normativa, il reato di lesioni lievissime sia se compiuto contro il figlio naturale sia avverso il figlio adottivo radicava la competenza in capo al giudice di pace.

Una tale conclusione avrebbe comportato, però, una modifica del petitum posto dal giudice rimettente, al quale, invece, la sentenza dà seguito: la pronuncia, infatti, finisce per radicare la competenza per i reati commessi fino al momento di pubblicazione della decisione nei confronti del figlio naturale in un “giudice anfibio”: pur infatti in composizione ordinaria, questi è tenuto ad applicare la “sostanza sanzionatoria” del giudice di pace.

Invece, per i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale, troverà piena attuazione la parificazione “in alto”: il giudice competente sarà il tribunale ordinario che opererà secondo le norme sostanziali e processuali ordinarie.

Per concludere queste brevi notazioni - e rimandando ad un più approfondito commento in grado di analizzare funditus le questioni qui solamente tratteggiate - si può rilevare come la decisione della Consulta comporti sostanzialmente una tutela maggiore delle persone offese dal reato in questione – in linea con la ratio che aveva ispirato la riforma del 2013 – siano essi figli adottivi o naturali, coniugi (anche separati) o divorziati, parti dell’unione civile in corso o cessata, cui fa da pendant un inasprimento del trattamento processuale (possibilità di disporre le misure cautelari) e sostanziale (pene irrogabili) dell’indagato o imputato, mitigato dalla limitazione temporale degli effetti della sentenza e dalla possibilità per il tribunale ordinario di applicare l’art. 131 bis c.p.

 

 


[1] Ordinanza del 7 marzo 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale dell’anno 2017, p. 46 ss.

[2] Ai sensi dell’art. 582 c.p. co. 2: «Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa».

[3] Prevede l’art. 577 c.p. che «Si applica la pena dell'ergastolo se il fatto preveduto dall'articolo 575 è commesso:
1. contro l'ascendente o il discendente o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l'altra parte dell'unione civile o contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente; (…).

La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge divorziato, l'altra parte dell'unione civile, ove cessata, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta».

[4] In ordine al trattamento della persona offesa davanti il giudice di pace cfr. M. Caianiello, Poteri privati nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, Torino, 2003, p. 149 ss. Più in generale sul procedimento innanzi tale giudice, cfr. F. Baldi, Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè, Milano, 2018.

[5] Sul punto cfr., M. Scoletta, Metamorfosi della legalità. Favor libertatis e sindacabilità in malam partem delle norme penali, Monboso, Pavia, 2012. Per una panoramica delle sentenze costituzionali in materia penale, cfr. V. Manes, Dove va il controllo di costituzionalità in materia penale?, Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2015, pag. 154 ss.

[6]  Su questo articolo cfr., per tutti, F. Bricola, sub art. 25, co. 2 e 3, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti civili (artt. 24-26), Zanichelli, Bologna, 1981, p. 227 ss.

[7] Reperibile a questo link.

[8] Corsivo nostro.

[9] Sul punto cfr., per tutti, M. Nobili, sub art. 25, co. 1, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti civili (artt. 24-26), Zanichelli, Bologna, 1981, p. 135 ss.; R. Romboli, voce Giudice naturale, in Enc. dir., II Agg., Giuffrè, Milano, 1998, p. 365 ss.

[10] Vd. amplius, N. Marvulli, voce Competenza ed incompetenza penale, in Enc, dir., V Agg., Giuffrè, Milano, 2001, p. 217 ss.

[11] Come autorevolmente osservato «si riscontra un esigenza da condividere; che la precostituente del giudice determinata discrezionalmente dal legislatore avvenga secondo canoni ragionevoli, e ciò sia per quanto riguarda l’individuazione originaria del giudice competente, sia e soprattutto per quanto riguarda i presupposti degli eventuali spostamenti di competenza». In termini, G. Illuminati, Precostituzione del giudice e presupposti della rimessione, in F. Caprioli (a cura di), La nuova disciplina della rimessione del processo, Giappichelli, Torino, 2003, p. 66.

[12] Sul punto cfr. M. Caianiello, Giudice imparziale precostituito e tutela effettiva dei diritti in materia penale, sub art. 47 C.D.F.U.E., in (a cura di) R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, Milano, Giuffrè, 2017, p. 904 s.

[13] Corte Cost., 5 maggio 1967, n. 56, reperibile a questo link; ma anche Corte cost., 23 febbraio 1996, n. 42, reperibile a questo link.

[14] Cass., Sez. VI, 14 dicembre 1999 (dep. 8 maggio 2000), n. 5400, in Cass. pen., 3, 2001, p. 883 ss. (s.m.).

[15] Sul punto cfr. G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, 11 ed., Giappichelli, Torino, 2016, p. 80 ss.

[16] In termini, Cass., Sez. un., 17 gennaio 2006, n.3821, in Cass. pen., 4, 2006, p. 1338 ss.

[17] Cfr. M. Nobili, op. cit.; G. Illuminati, op. cit., p. 59 ss.

[18] Ne dà conto O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in G. Ubertis, G.P. Voena (a cura di), Trattato di procedura penale, Giuffrè, Milano, 1999, p. 229 ss. e 352 ss. (in particolare cfr. la giurisprudenza ivi citata sub ntt. 31-33).

[19] Sul punto cfr. O. Mazza, op. cit., p. 310 ss. (in particolare sub nt. 151-152).